Nelle pagine che seguono mi occuperò a più riprese delle interpretazioni offerte dai cabbalisti al primo capitolo della Genesi, soprattutto al primo versetto, dove si menzionano l’oscurità e il misterioso Tohu va-Vohu, elementi che sono stati spesso collegati all’emergere del male e sui quali per secoli si è interrogato il pensiero religioso ebraico.
Per comprendere meglio lo sviluppo di quello che i biblisti definiscono canone o documento sacerdotale vorrei prendere le mosse appunto da tre diverse interpretazioni dei primi versetti della Genesi. È plausibile che essi trattino del modo in cui Dio si è occupato di creature preesistenti, caotiche e oscure, e che l’intero processo creazionale si basi su distinzioni operate da Dio all’interno di queste entità primordiali. Alcuni studiosi dei quali ci occuperemo più avanti sostengono che il primo capitolo della Bibbia descriva una qualche forma di male primordiale, tenuto sotto controllo da Dio. Anche senza esagerare la dimensione maligna delle entità primordiali, dobbiamo supporre che la loro natura oscura e ostile fosse considerata responsabile dell’imperfezione nella creazione e nell’uomo.
Fu forse all’inizio del V secolo e.v. che cominciò ad affermarsi la tesi secondo la quale i versetti del primo capitolo della Genesi suggeriscono una creatio ex nihilo. Secondo le due interpretazioni del racconto, la creazione sarebbe un ordine esterno a Dio, inteso come unico agente del processo. Egli poteva pertanto essere immaginato diverso, in tutto o in parte, dalla sua creazione. Se il male c’era, di necessità si doveva trattare di un elemento esterno alla natura divina. Questa è stata spesso ritenuta la principale interpretazione offerta dal giudaismo.
Tuttavia, col manifestarsi delle principali scuole cabbalistiche, alla fine del XII e agli inizi del XIII secolo, il racconto della Genesi iniziò a essere inteso non in riferimento all’universo creato, o almeno non solo a esso, ma a un processo intradivino: l’oscurità e il Tohu va-Vohu furono intesi come elementi interni a Dio, e talora interpretati in riferimento al male. Tale teoria dà per scontato che la deità sia infinita. La cosmogonia divenne così una teogonia, dal momento che nei fatti postulava una sorta di autogenesi divina, che precedeva o si poneva in parallelo alla creazione di mondi inferiori.1 Il processo emanativo fu inteso da molti cabbalisti non come un flusso che sgorgava dall’esterno di Dio – come sostenuto, ad esempio, dai neoplatonici –, ma come un processo che avveniva all’interno di Dio. Ciò significava anche che quanto i cabbalisti intendevano come male diveniva parte di Dio, e questo dava adito a una serie di speculazioni radicalmente divergenti dalle tradizionali interpretazioni adottate dalle tre religioni monoteistiche in riferimento alla spiritualità, bontà e onnipotenza assoluta della divinità. Benché non ricorra in tutte le opere e scuole cabbalistiche, questa concezione fu accolta da centinaia di trattati cabbalistici, nella maggior parte dei quali la creazione era intesa come un processo di emanazione che presuppone al suo inizio una forma di male primordiale. Tale concezione influenzò lo sviluppo della Qabbalah e si diffuse soprattutto nel XVI secolo. È plausibile che le nuove dinamiche inaugurate da questa interpretazione della Genesi abbiano avuto influenza sulle analoghe speculazioni di Jacob Böhme e, attraverso di lui e probabilmente la cabala cristiana, anche sulla filosofia di Hegel.
Questa lettura della Genesi come processo di autogenesi divina dovrebbe comunque essere intesa non come innovazione improvvisa ma come sviluppo che ebbe luogo in epoca anteriore, sia all’interno sia all’esterno del giudaismo. Parleremo più avanti delle varie chiavi di lettura offerte a quest’esegesi del primo millennio e di come essa possa essere ritenuta utile per comprendere l’evoluzione del giudaismo e le origini della Qabbalah. Per meglio chiarire la diversità delle interpretazioni attestate nell’ebraismo nelle fasi precedenti alla manifestazione della Qabbalah è opportuno evitare le più comuni esegesi «monolitiche» riguardo ai motivi centrali all’ebraismo precabbalistico. È difficile sottostimare l’impatto delle idee convenzionali su percezioni generali di ampi fenomeni religiosi come il giudaismo, non solo a livello di grande pubblico ma anche tra i ricercatori. Riduzioni, semplificazioni e talora distorsioni non sono solo elementi incidentali nella rappresentazione di tali fenomeni, non sono limitazioni causate dalla mentalità di alcuni studiosi, ma scaturiscono spesso dalla necessità di trovare una regola che possa essere formulata e insegnata facilmente o diffusa presso ampie platee in termini comprensibili a un pubblico non specialista. Sebbene sia giustificabile l’uso di tali strategie nel caso di conferenze, lezioni o opere di carattere divulgativo, si tratta comunque di generalizzazioni che dovrebbero essere controllate, riformulate, talora addirittura messe da parte quando si ricerchi invece un atteggiamento critico. Anche se a propagarle sono pensatori eminenti quali Albert Einstein, Hans Jonas o George Steiner, per un discorso storico orientato scientificamente queste non sono altro che semplificazioni, importanti e pienamente accessibili a quanti ricerchino un’identità specifica nazionale o culturale.
La mia osservazione vale in particolar modo per il giudaismo. È difficile offrire generalizzazioni semplicistiche delle singole componenti di un macro-fenomeno religioso così complesso, sviluppatosi nel corso di tre millenni in circostanze tanto diverse, a contatto con le più varie culture, e generato dal genio intellettuale religioso di un numero così significativo di pensatori, che si tratti di teorizzazioni di aspetti teologici, cosmologici, rituali o antropologici. Nonostante il perdurare di alcuni paradigmi nei modelli di pratica religiosa (soprattutto quelli formulati in età rabbinica) e nell’adesione a testi canonici intesi come oggetto centrale dello studio, numerosi sono i casi significativi di diversità e cambiamento. Affermare implicitamente l’esistenza di un pensiero ebraico monolitico – ad esempio, che esista una teoria rabbinica della creazione, un presunto tradizionalismo medioevale e un’«ortodossia», che dovrebbero contribuire a mettere in rilievo la perfezione di Dio –2 e addurli per sottolineare l’originalità di pensatori ebrei posteriori, soprattutto cabbalisti – significa accogliere preconcetti relativi alla natura del giudaismo e alla sua evoluzione. Per affermare l’unicità della Qabbalah è stata adottata una forma semplicistica di monoteismo, spesso inteso come antimitico ed etico, una cornice adatta alla Qabbalah dissidente, dal carattere mitico, vitale e innovativo. In qualche misura, sia gli oppositori della dottrina mistica sia i suoi fautori e studiosi si sono dati da fare per metterne in risalto l’unicità. La presentazione, nella ricerca moderna, di una siffatta tradizione come radicalmente differente, talora addirittura antagonistica ai due strati precedenti della letteratura ebraica, quello biblico e quello rabbinico, segue un’analoga distinzione proposta dal cabalista cristiano Johannes Reuchlin.
Non meno contaminate risultano alcune interpretazioni di motivi della letteratura rabbinica (dei quali ci occuperemo), che ne ignorano gli elementi mitici, rinviando ancora una volta la loro manifestazione a periodi molto più tardi, medioevali. Una teologia uniforme del rabbinismo, plasmata da alcuni teologi ebrei nel Medioevo e adottata anche da studiosi contemporanei della Qabbalah, che hanno considerato questa tradizione mitocentrica e di conseguenza antirabbinica,3 ha complicato non solo l’interpretazione del rabbinismo, ma anche quella dell’evoluzione delle varie forme di pensiero ebraico all’interno delle cerchie rabbiniche. Motivi quali la teurgia (l’influenza esercitata sul divino dall’attività dell’uomo) o l’apoteosi (la trasformazione dell’uomo in un’entità superiore), che ebbero un ruolo centrale nella letteratura cabbalistica, da alcuni studiosi non sono state associate a quanto i cabbalisti potevano apprendere o desumere da fonti ebraiche preesistenti, soprattutto rabbiniche.4 La tradizione orale, ad esempio, è stata spesso intesa solo come fenomeno legato alla produzione di corpora letterari scritti, mentre scarso è stato il peso assegnato al suo ruolo nella trasmissione orale di materiali dalla tarda antichità al Medioevo.5
È altresì problematica la tesi, implicitamente accolta dagli studiosi, che gli ebrei medioevali conoscessero solo concetti attestati nei loro corpora testuali classici – la Bibbia, il Talmud, il Midrash, la letteratura hekhalotica e i piyyuṭim (la vasta innografia composta in gran parte in Terra d’Israele nell’alto Medioevo). In effetti temi, concezioni e anche testi appartenenti o connessi alla letteratura pseudepigrafica e a quella comunemente nota come apocalittica, prodotto di cerchie ebraiche della tarda antichità e in parte penetrati nella produzione midrashica posteriore, non sono stati presi sufficientemente in esame dagli storici del giudaismo, né sono stati inclusi nello studio della mistica ebraica medioevale, se non di recente e in maniera sporadica.6 L’idea di discontinuità, storica e fenomenologica, basata su demarcazioni nette dei vari periodi della storia d’Israele, è stata dominante tra gli studiosi e ancor oggi se ne avvertono le conseguenze in alcune scuole accademiche.7 L’impressione che se ne ricava è quella di una parete isolante che separi gli ebrei medioevali, che erano anche personalità rabbiniche e cabbalisti, dalle idee della tarda antichità e dai temi noti all’interno di molte cerchie ebraiche. Ecco lo sfondo sul quale è stato proiettato fino a poco tempo fa lo studio della Qabbalah, abbastanza distinto da alcuni dei fondamenti primari della disciplina, ed ecco anche uno dei motivi per cui alcune scuole critiche, come quelle di Yehuda Liebes e di chi scrive, hanno incontrato una tenace resistenza.
Il problema è particolarmente spinoso quando si prendono in esame quelle che alcuni studiosi definiscono «tendenze dualistiche della Qabbalah», spiegate esclusivamente in termini di influenze gnostiche o, alternativamente, di affinità tipologiche.8 È una visione della gnosi – variegato movimento tardo-antico di difficile definizione –, che ha influenzato la maggior parte delle trattazioni scientifiche sul dualismo nella Qabbalah, attraverso l’accettazione della pertinenza di una filiazione storica o di un confronto tipologico o attraverso il suo rifiuto. In tale contesto deve essere ricordato il forte impatto dell’interpretazione heideggeriana fornita da Hans Jonas dello gnosticismo come forma di religione esistenzialista – essenzialmente antiebraica – sulla visione della Qabbalah di Gershom Scholem e, nella sua scia, di Isaiah Tishby, un problema di cui mi occuperò tangenzialmente nelle pagine che seguono.9 Come ho proposto nel 1988 in Kabbalah: New Perspectives, si può congetturare un’altra spiegazione storica delle affinità tra Qabbalah e mitologemi gnostici, presupponendo fonti comuni a fondamento delle due letterature religiose.
Dato che questo studio tratta principalmente delle teorie relative al male primordiale, vorrei prima di tutto analizzare alcuni sviluppi della ricerca degli ultimi cinquant’anni che a mio parere hanno causato una diversa interpretazione del giudaismo in generale e, nello specifico, del tema qui preso in esame.
La scoperta di due antiche biblioteche, quella di Nag Hammadi in Egitto nel 1945 e, nel 1947, quella di Qumran, presso il Mar Morto in Terra d’Israele, ha mutato l’indirizzo delle ricerche di alcuni importanti settori dello studio delle religioni occidentali. Nella biblioteca di Nag Hammadi furono rinvenuti numerosi testi gnostici copti, molti dei quali fino ad allora sconosciuti, che illustrano come il movimento gnostico fosse molto meno dualistico di quanto lo avessero descritto gli studiosi precedenti10 e molto più vicino a temi ebraici di quanto pensasse la ricerca dominante anteriore alla scoperta, la quale attribuiva un’influenza decisiva solo a ciò che era stato definito «dualismo iranico», cioè allo zoroastrismo classico.11 Dall’altro lato, a Qumran sono emersi numerosi trattati ebraici e aramaici, perlopiù ignoti, il cui contenuto ha dimostrato che le affinità tra le posizioni di alcune cerchie ebraiche e il dualismo erano più strette di quanto sospettasse la ricerca accademica precedente sul giudaismo tardo-antico. In entrambi i casi, il prosieguo dell’indagine, che ha portato anche a contributi significativi sullo studio dei testi apocrifi e pseudepigrafici ebraici e cristiani, ha prodotto una messe di analisi critiche che hanno suggerito un’interpretazione molto più complessa dell’ebraismo in un periodo cruciale per la formazione del rabbinismo e del cristianesimo. In queste due forme religiose, per quanto diverse dal punto di vista strutturale e concettuale, gli elementi dualistici sono stati sostanzialmente attenuati.
Nei secoli successivi, tuttavia, gli stessi elementi ebbero di nuovo ruoli molto significativi all’interno di alcuni movimenti cristiani in Europa, soprattutto nel bogomilismo e nel catarismo e, in epoca posteriore, in parte della letteratura cabbalistica. Questo recupero parallelo è davvero affascinante. I documenti cabbalistici furono redatti dopo la manifestazione di forme di dualismo eretiche cristiane di epoca medioevale, in zone geograficamente vicine (ma cronologicamente solo in parte), e furono perlopiù interpretati come se fossero stati influenzati da forme gnostiche dualistiche della tarda antichità, e non medioevali.12 Tale influsso fu avvertito come risultato di affinità storiche e non solo di analogie fenomenologiche.13 Il dualismo che appare nei documenti in questione è stato interpretato dagli studiosi come incentrato su una netta contrapposizione tra bene e male, dal punto di vista sia metafisico sia etico; analogamente, l’interpretazione accademica della Qabbalah ha dato ampio spazio al problema dell’origine del male. Ciò nonostante, se si esclude la tesi di magistero di Isaiah Tishby sul male nella Qabbalah luriana cinquecentesca, scritta alla fine degli anni ’30 del Novecento,14 non esiste alcuna monografia esplicitamente incentrata sul tema del rapporto tra dualismo e male, mentre della questione si sono occupati numerosi articoli usciti nel corso degli anni. In tali studi, benché in minor o maggior misura si faccia menzione del dualismo, non si è mai tenuta nel debito conto la tesi che un dualismo radicale fosse un fenomeno religioso molto più raro di quanto si pensasse prima e non ci si è mai chiesti effettivamente quale fosse l’origine dello gnosticismo.
I penetranti studi sullo gnosticismo di Ugo Bianchi e del suo allievo Ioan P. Couliano,15 quelli sul dualismo zoroastriano di Shaul Shaked,16 di Gedaliahu G. Stroumsa sul sethismo e sul manicheismo,17 il contributo in più volumi sui dualismi nelle varie culture curato da Petrus Franciscus Maria Fontaine, The Light and the Dark: A Cultural History of Dualism,18 e un più ampio spettro di interpretazioni dualistiche tratteggiato da questi e da altri studiosi19 non sono stati presi sufficientemente in considerazione dagli specialisti di storia della Qabbalah. L’integrazione, nella ricerca sulla gnosi, delle tracce qumraniche di elementi dagli studiosi definiti «dualistici» con le nuove interpretazioni del dualismo può arricchire il dibattito intellettuale su alcuni aspetti della storia culturale ebraica e in particolare della Qabbalah, per quanto si tratti di un fenomeno posteriore e variamente differenziato nella costituzione fenomenologica delle sue molteplici espressioni.
D’altro canto, il problema delle origini del dualismo nella Qabbalah e delle sue possibili fonti iraniche è stato sempre meno oggetto di discussione dall’epoca in cui fu proposto da Adolphe Franck nella sua influente monografia (apparsa per la prima volta nel 1843).20 Benché la sua tesi si fondasse su un numero esiguo di affinità, poggianti peraltro sul presupposto difficilmente sostenibile dell’antichità remota di alcune sezioni del libro dello Zohar, studi successivi hanno confortato con prove più solide l’esistenza di contatti tra lo zoroastrismo e la tradizione ebraica.21 Ciò nonostante, la maggior parte degli studiosi contemporanei si mostra assolutamente reticente sulle possibili influenze dirette di modelli dualistici zoroastriani sulla mistica ebraica o sulla Qabbalah non mediate dalla gnosi tardo-antica.22 Questo silenzio è tanto più sorprendente se si pensa che l’ultima generazione accademica ha approfondito le influenze iraniche sul giudaismo, soprattutto in relazione ai testi rabbinici: di recente, ad esempio, tali influssi sono stati ricercati nel Talmud babilonese.23
Ritengo arduo dissociare l’impatto di temi zoroastriani su alcuni motivi dell’Halakhah rabbinica dalla possibilità di una loro influenza anche sull’esoterismo rabbinico, soprattutto dato il fatto che alcuni dei termini importanti del lessico esoterico ebraico – come ad esempio pardes, raz o pargod – hanno tutti origine persiana. Per questo mi pare assolutamente necessario prendere in esame materiali iranici, non solo gnostici, per spiegare le origini del male nella Qabbalah.24 Anche le interpretazioni più recenti delle fonti del dualismo gnostico sono sfuggite all’attenzione degli studiosi del «dualismo» cabbalistico: il rilievo attribuito da Ugo Bianchi alla probabile influenza di fonti orfico-platoniche sulla gnosi, tenendo conto al contempo del possibile impatto persiano o giudaico25 e della tesi più ampiamente accolta dei temi apocalittici alla base della gnosi,26 hanno scarsamente mutato il quadro degli studi sulla Qabbalah predominante in questo settore specifico dell’accademia dai tardi anni ’30, nella scia di Hans Jonas.
In altri termini, la tesi che nei testi gnostici compaiano temi ebraici, alimentata dalla scoperta e dall’analisi della biblioteca gnostica di Nag Hammadi, non impedisce possibili influenze zoroastriane-zurvaniche su Qumran, sulla letteratura apocalittica, su quella giudeo-cristiana o sulla Qabbalah. In effetti, a mio parere, le due teorie possono convivere: ammettere che la Qabbalah abbia attinto da antichi mitologemi ebraici che alimentarono anche discussioni gnostiche, e che possano esistere anche influenze gnostiche sulla Qabbalah, non preclude l’accettazione di motivi zoroastriani, quando possano essere provati. Una matrice gnostica protogiudaica, e in seguito cabbalistica, così come le ripercussioni di motivi zoroastriani, non dovrebbero essere intese in maniera esclusiva. La mia idea è che le fonti della Qabbalah furono inclusive, risultato dell’accumulo e dell’amalgama di elementi diversi, che raggiunsero cabbalisti diversi, in varia misura, nel contesto del «flusso di tradizioni» giunte in Europa dal Medio Oriente in età medioevale.27 Le debolezze della tesi iranica della scuola della Religionsgeschichte relativa alla fioritura della gnosi e del dualismo e di alcuni temi posti in rilievo da tale analisi non dovrebbero portare a rimuovere del tutto alcuni suoi contributi, com’è il caso della spiegazione del manicheismo. Propongo pertanto di recuperare questa teoria, così come quella di Adolphe Franck. Ciò nonostante, alcuni elementi presi in esame dalle due tesi dovrebbero essere analizzati in un’ottica più ampia di quanto sia stato fatto finora.
Ci occuperemo qui di una serie di testi ebraici, composti nell’arco di due millenni, che riflettono quella che definisco una pseudo-simmetria subordinata di potenze divine. Intendo con ciò concezioni fondate su una polarità tra entità positive e negative, create e quindi subordinate a un’entità superiore, in genere identificata con Dio.
L’idea dell’esistenza di una causa generatrice, cui sono subordinate tutte le altre cause, appare manifesta in tutti gli scritti ebraici qui analizzati e costituisce ciò che generalmente si definisce monoteismo. Sebbene al centro delle descrizioni sia da porre l’elemento della polarità, a me interessano soprattutto le descrizioni del suo polo negativo. Nonostante l’uso del termine «simmetria», è evidente che gli autori di cui ci occuperemo concepirono il polo positivo in termini superiori a quello negativo e l’entità suprema come partecipe del conflitto tra i due.28 L’uso del termine pseudo-simmetria mi permette inoltre di evitare il ricorso a espressioni quali «dualismo estremo» o «acuto» e di distinguere questi casi da altri di «dualismo moderato» o «relativo»,29 così come l’enumerazione di una lunga lista di tipologie di dualismo, quali vengono presentate dai dotti studi qumranici.30 Riducendo al minimo l’impiego del termine dualismo per i testi ebraici, eviterò anche di attribuire ad alcune argomentazioni l’etichetta del dualismo impiegata da altri studiosi.31 Comunque sia, al centro delle pagine che seguono non sarà tanto il problema del dualismo o della simmetria, quanto l’analisi di un elemento significativo di numerose trattazioni cabbalistiche: l’anteriorità cronologica del male rispetto al bene al momento della cosmogonia o teogonia primordiale (e la concomitante subordinazione di entrambe le qualità a un principio superiore).
La categoria della pseudo-simmetria subordinata consente di cogliere una maggiore continuità di alcuni aspetti della cultura ebraica nel corso di varie generazioni, rispetto alla più comune interpretazione accademica del giudaismo. L’uso di tale categoria permette dunque di immaginare una storia concettuale dell’evoluzione del giudaismo meno tesa, meno contrassegnata dai caratteri dell’antinomismo e della ribellione o da brusche rotture, e di ovviare a una ricerca che si occupa fin troppo della «gnostificazione» giudaica all’interno della Qabbalah.32 Sebbene i concetti che definiscono le componenti della polarità siano interpretati di volta in volta in forme sostanzialmente nuove, che derivano dalle diverse circostanze culturali e intellettuali con cui interagirono nel corso dei secoli i pensatori ebrei, l’importanza del pensiero polarizzato è restata la stessa.
Tanto per addurre alcuni esempi di subordinazione e pseudo-simmetria analizzerò alcuni versetti della Bibbia ebraica, in cui compaiono concezioni antitetiche. Trattandosi di una letteratura esegetica, la Qabbalah rinvia spessissimo alla Bibbia, che costituisce il punto di partenza di ulteriori speculazioni. Uno dei passi più noti in quest’ottica è il versetto di Deutero-Isaia, 45, 7: «Io formo la luce e creo le tenebre, produco la pace [‘ośe shalom] e creo il male [bore ra‘]: Io, il Signore, faccio tutte queste cose».33 Simile affermazione ricorre in Lam, 3, 38: «Forse che bene e male non procedono dalla bocca dell’Altissimo?». Si pensi anche a Dt, 30, 15: «Vedi, io pongo oggi di fronte a te la vita e il bene, la morte e il male». È evidente la subordinazione dei due poli a Dio, qui espressa enfaticamente, mentre assai meno evidente è la simmetria, poiché il profeta dà per scontata una qualche assiologia per cui il bene è plausibilmente più positivo. Secondo alcuni studiosi, in particolare Moshe Weinfeld, il versetto di Isaia tradirebbe l’influenza di una forma specifica di dualismo zoroastriano,34 mentre per altri si tratterebbe di una polemica con il documento sacerdotale di Gn, 1, 2.35 In altri termini, la creazione del male sarebbe intesa come risposta all’affermazione di Gn, 1, 2, ove si ammette l’esistenza di entità preesistenti alla creazione, che venivano considerate malvagie. Quel che sembra importante nei versetti biblici citati è quanto propongo di definire «totalità esterna», attribuita alla creatività divina. I poli opposti nella Bibbia non sono ritenuti parte della struttura interna del divino – come invece vedremo nella Qabbalah –, ma della struttura della creazione, intesa come atto di Dio, in tutta la sua complessità.
La simmetria degli opposti intesi in termini di bene e male è evidente nel noto brano del Qohelet, dal quale è assente ogni idea di subordinazione a un’entità superiore:
C’è un tempo per ogni cosa, un tempo per ogni cosa che avviene sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
C’è un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
C’è un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per essere tristi e un tempo per danzare.
C’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per non abbracciare.
C’è un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
C’è un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
C’è un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.36
Qui gli opposti non hanno a che fare con la natura della divinità, ma con una più complessa condizione della vita, espressa mediante antitesi. Eppure, nello stesso libro biblico si legge [Qo, 7, 13-14]:
Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? Nel giorno lieto [be-yom ṭovah = giorno di bene] sta’ allegro ma nel giorno triste [be-yom ra‘ah = nel giorno di male] rifletti: Dio ha fatto l’uno come l’altro [zeh le‘umat zeh].37
L’espressione ebraica zeh le‘umat zeh dovrebbe essere tradotta sottolineando maggiormente l’idea di opposizione, «l’uno rispetto all’altro», cioè il bene rispetto al male. Non c’è dubbio che in questo passo si faccia riferimento a una subordinazione di polarità opposte, simmetriche e antagonistiche. Mi pare plausibile leggere i versetti appena citati dal capitolo 7 in correlazione con le coppie di opposti elencate nel capitolo 3. Questa stessa tendenza è stata elaborata, insieme ad altre influenze – stoiche e pitagoriche –, anche in un altro scritto biblico, il Siracide o Ben Sira.38
Inoltre, il rito dei due capri emissari di Yom Kippur, uno dedicato a Dio e l’altro a ‘Azaz’el, ha connotazioni dualistiche, come hanno già messo in luce alcuni studiosi – ad esempio, Israel Knohl –39 e come osserveremo nell’interpretazione fornitane da alcuni cabbalisti.40 Con ciò non intendo dimostrare l’esistenza di una teologia unitaria del male sulla base di un mosaico di brevi testi biblici che esprimono interpretazioni divergenti. Eppure tali testi, in virtù della tendenza tradizionale dei cabbalisti a conciliare l’interpretazione degli scritti biblici, furono trasformati in prove argomentative delle loro teorie, anche se in realtà i versetti della Scrittura erano piuttosto un «trampolino di lancio» delle loro idee. Si dovrebbe sottolineare che, come lo stile biblico è ellittico per quanto attiene alle descrizioni degli eventi narrati – seguendo le teorie di Erich Auerbach –, altrettanto lo sono le argomentazioni teologiche contenute nella Scrittura, che non forniscono alcuna descrizione specifica della divinità e dei suoi intenti. Se la Bibbia descrive gli atti originati dal volere di Dio, non si troverà nessun capitolo, nessuna pagina che presenti una descrizione di Dio per se. Come lo stile omerico abbonda di dettagli minuziosi, altrettanto sistematica ed elaborata è la filosofia greca. Ancora una volta, mentre la narrazione biblica si interessava maggiormente alle modalità d’azione o all’esecuzione dei comandamenti divini, il pensiero greco si incentrava su sistemi più astratti, in alcuni dei quali compaiono esempi di polarizzazione, come ad esempio nel modello pitagorico, in quello empedocleo o in quello platonico, come osserveremo nel capitolo 4.
Non mi propongo in questa sede di stabilire il ruolo del male nella letteratura biblica nel suo insieme, né di rintracciare un’interpretazione dominante in una produzione così variegata. Comunque, se il quadro degli elementi disparati di cui abbiamo parlato rappresenta un’interpretazione di varie argomentazioni bibliche che prevede l’esistenza di un male primordiale, come nel caso degli studi di Jon Levenson e Israel Knohl precedentemente menzionati, possiamo affermare che i cabbalisti intesero alcuni versetti biblici, più che come mere prove testuali arbitrarie, come punti di partenza per sviluppare le proprie argomentazioni, benché si servissero anche di criteri interpretativi preesistenti che permettevano loro di saltare da un versetto in più direzioni. Essi fecero dunque uso anche di una varietà di concezioni recentemente acquisite che difficilmente avrebbero potuto essere adattate a una lettura critica dei versetti stessi. Ciò nonostante, dato che questi due studiosi non hanno formulato le loro concezioni sulla base del materiale cabbalistico, è possibile comprendere come gli stessi versetti generassero indipendentemente interpretazioni simili. In ogni caso, l’assenza di una teologia biblica unitaria permise una libertà di pensiero molto maggiore di quanto siamo soliti presumere e la presenza di tali versetti incoraggiò speculazioni scaturite da idee nuove, penetrate nelle cerchie ebraiche dalle fonti più disparate. Difficile stabilire se quei versetti fossero mezzi per trattare temi relativi al male o fossero solo impiegati per accogliere nuove idee: a tali questioni non si possono dare risposte univoche. In ogni caso, lo stile ellittico della Bibbia ebraica lasciò ampio spazio a ulteriori speculazioni aperte su più fronti, elemento sfruttato da pensatori ebrei di varie convinzioni.
Nella letteratura rabbinica troviamo un’altra coppia che riflette una polarità antitetica: i due attributi divini (chiamati middot) del Giudizio, Din (secondo altre fonti, attributo della catastrofe, por‘anut), e della Misericordia, Raḥamim.41 In questo caso non si stabilisce tanto un’opposizione tra bene e male ma si fa riferimento a due modi di governare il mondo, per il cui equilibrio si rende necessario il giudizio. Altrove i rabbini parlano di tentativi divini di creare il mondo prima per mezzo dell’attributo del giudizio e poi di quello della misericordia.42 Inoltre, a livello antropologico, i rabbini ipotizzano l’esistenza di due inclinazioni, o istinti, lo yetzer ṭov, l’inclinazione al bene, e lo yetzer ra‘, l’inclinazione al male.43 Secondo un’affermazione rabbinica, in cui si interpreta un versetto biblico, l’inclinazione al male appare per prima nello sviluppo della personalità dell’uomo.44 Sembra che esista un parallelismo tra antropologia e teologia: in entrambi i casi appare una certa pseudo-simmetria, riferita a modelli comportamentali.
C’è un’altra fonte estremamente significativa per comprendere l’evoluzione di alcune delle argomentazioni medioevali che ci interesseranno nelle pagine successive: il Sefer Yetzirah, il conciso ed enigmatico trattato di cui non si conoscono né il tempo né il luogo di composizione;45 ecco come l’anonimo autore formula l’esempio più interessante di pseudo-simmetria subordinata:
Dio ha fatto anche queste cose, l’una rispetto all’altra: il bene rispetto al male, bene dal bene e male dal male. Il bene si distingue dal male e il male dal bene. Il bene è riservato ai buoni e il male ai cattivi.46
L’affermazione «bene dal bene e male dal male» pare alludere a uno status ontologico di bene e male nel mondo. Nel capitolo 5 l’autore si serve del versetto di Qo, 7, 13: «Dio ha fatto l’uno rispetto all’altro». Nel capitolo 4 si elencano sette opposti, ma il termine ebraico usato per indicare la loro relazione è temurah, che può essere reso come «contrario». Così, ad esempio, leggiamo che «il contrario della vita è la morte, il contrario della pace è la guerra».47 Abbiamo qui una specie di sintesi tra il materiale di Isaia e quello di Qohelet, espressa in maniera molto più articolata. Anche se non vi si parla solo di coppie antagoniste, nel Sefer Yetzirah risulta problematico attribuire il male a Dio. Inoltre, in un’enumerazione dei dieci cosiddetti «abissi della realtà», descritti come cinque coppie di opposti, il terzo e il quarto abisso sono il bene e il male.48 Come vedremo nel capitolo successivo, l’espressione «abisso del male» verrà usata da molti cabbalisti per trattare il tema, anche se non sempre riferita al male primordiale. In questo contesto, il male non è solo da associare alla sofferenza dell’uomo o a un attributo divino, ma piuttosto a una potenza cosmica, insieme ad altre caratteristiche della realtà e parte di una decade onnicomprensiva. Un ulteriore elemento degno di nota è che, in quest’opera, agli abissi si attribuisce un qualche forma di infinitezza.
Ritroviamo le stesse coppie di opposti del Sefer Yetzirah sviluppate in maggior dettaglio all’interno di un testo medioevale, il Midrash temurah, composto verso la fine del XII secolo o all’inizio del successivo.49 Quest’opera midrashica tarda, che combina diverse tipologie speculative con affermazioni presenti nel Sefer Yetzirah, ebbe una certa influenza su alcuni pensatori – cabbalisti e filosofi – della fine del XIII secolo. Questa tendenza a sviluppare modelli simmetrici è proseguita nella Qabbalah: un esempio tra i tanti ricorre in un trattato composto alla fine degli anni ’30 del XVI secolo da un intellettuale nordafricano, Yosef ben Mosheh Alashqar, di origine spagnola:
Dovresti sapere che tutto quanto ha creato nel Suo mondo il Santo, benedetto sia, [consiste] di una cosa e del suo opposto [o rovescio]: ‘Dio ne fece anche il contrario’, creò la misericordia e il giudizio, il giusto e il malvagio, il paradiso e l’inferno. E l’uomo, alla sua nascita è per metà innocente e per metà colpevole, per metà del paradiso e per metà dell’inferno.50
Dal passo non si rileva alcuna affermazione propriamente cabbalistica, mentre si sottolineano temi derivati da forme preesistenti di pensiero rabbinico, fondamento delle strutture teosofiche di cui ci occuperemo in seguito. In breve, lungi dal creare problemi per via dell’accettazione di nuove interpretazioni del male ispirate da fonti esterne, le argomentazioni tradizionali qui esposte dovrebbero essere considerate possibili vettori di concezioni nuove, finalizzate a definire contesti più ampi in cui collocare concezioni canoniche frammentarie come quelle precedentemente descritte. Non è dunque l’assenza di contraddizione tra un rabbinismo cosiddetto a-mitico e una Qabbalah mitica – ribelle all’autorità rabbinica –, ipotizzata da altre correnti della ricerca, il fenomeno di cui ci occuperemo in queste pagine, quanto i modi per arricchire mitologemi frammentari precedenti per mezzo di altre forme di pensiero mitico e filosofico, ritenute valide per spiegare il senso più nascosto dei testi canonici ebraici.
La pseudo-simmetria tra concetti di bene e male dovrebbe inoltre essere letta anche nel contesto di un’altra importante pseudo-simmetria, quella tra elementi maschili e femminili. La polarità maschio/femmina – intesa dalle fonti rabbiniche come trascendente l’umanità – costituisce un’ulteriore prova del rilievo attribuito dal pensiero rabbinico alle simmetrie polari.51 L’esistenza di due poli distinti sessualmente è stata concepita da importanti cabbalisti appartenenti alla corrente principale della Qabbalah, quella teosofico-teurgica, come elemento fondamentale della struttura e della funzione propria della realtà, almeno in alcuni casi. Le due pseudo-simmetrie si sovrappongono, dato che il principio femminile era considerato quello negativo, come vedremo più avanti. L’esistenza della polarità maschile/femminile – con le strutture simmetriche che la rappresentano – mostra che una certa modalità astratta di pensiero che non dipende solo da un dualismo religioso bene/male alla base di molti dei temi qui analizzati è basilare per molti segmenti della letteratura cabbalistica. Si tratta comunque di una pseudo-simmetria, dato che una certa assiologia che preferisce il bene e il maschile al male e al femminile permea, implicitamente o esplicitamente, molte di tali discussioni.
In effetti, le polarità pseudo-simmetriche subordinate possono diventare in qualche misura dualistiche quando i due elementi non sono solo diversi ma rivali e, soprattutto, quando per comprenderne le funzioni si ritiene essenziale uno stato di tensione o di lotta, come nel caso dello zoroastrismo o del manicheismo. Sono i processi dinamici coinvolti nella relazione tra le polarità antagoniste che dovrebbero essere ritenuti fondamento di una condizione dualistica, piuttosto che la loro mera esistenza o le loro strutture polarizzate. Giorno e notte, mano destra e sinistra, maschile e femminile sono elementi di una polarità che non deve essere ritenuta necessariamente dualistica: l’uso ostinato del termine dà luogo a quello che potremmo chiamare dualismo armonico. A mio parere, è l’elemento antagonistico che può trasformare una pseudo-simmetria subordinata in un sistema pienamente dualistico, come nello zoroastrismo o nel manicheismo ortodossi e nelle loro ripercussioni medioevali. Se uno dei princìpi che costituiscono la polarità è palesemente passivo l’elemento dualistico si attenua. È l’aspetto della conflittualità che accentua la polarità e determina forme più esasperate di dualismo. Possiamo dunque parlare di una gamma di sistemi pseudo-simmetrici, che contengono, a un’estremità dello spettro, posizioni simmetriche non dualistiche e, all’altra estremità, posizioni dualistiche acute, indifferenti al concetto di subordinazione. In ogni caso, più forte è la subordinazione, più debole diviene il dualismo.
In questo saggio non mi propongo di analizzare l’intero spettro delle argomentazioni sul male nella Qabbalah, ciò che resta un desideratum della ricerca. Mi interessa qui solo un elemento specifico, che non necessariamente rappresenta la posizione più diffusa nel pensiero cabbalistico: è la tesi che il male si è manifestato prima del bene, in primo luogo all’interno della struttura divina. Da questo punto di vista abbiamo una combinazione di alcuni elementi che appaiono nei due modelli proposti da Hans Jonas: da un lato, quello iranico, strettamente dualistico, da cui deriva il manicheo, e, dall’altro, quello siro-egizio, che considera il male come una frattura all’interno della divinità.52 Non occupandosi della variante zurvanica dello zoroastrismo, nella sua distinzione Jonas omette una terza opzione importante, diffusa nell’antichità e riverberatasi nel Medioevo. Data l’enorme influenza di Jonas a Gerusalemme sull’interpretazione dello gnosticismo e del dualismo, le sue teorie sono state basilari per numerosi studiosi di Qabbalah che si sono occupati di questi temi.
Mi concentrerò qui su una specifica pseudo-simmetria subordinata, in cui il male viene creato prima del bene. Questo significa che, nelle teorie di cui intendo occuparmi, il male non è ritenuto un’evoluzione secondaria all’interno del processo creativo, una distorsione, un errore o il risultato di un peccato, bensì un atto primordiale, il cui unico responsabile è Dio o che comunque dipende da lui. Ovviamente la mia interpretazione si fonda su una varietà di forme di immaginari religiosi e la scelta di questo tema non vuole essere una critica di alcun tipo, né tanto meno una teodicea o un tentativo di suggerire una teologia postmoderna, nella scia di Thomas Altizer.
In una cultura tradizionale come quella delle tipologie cabbalistiche medioevali, le argomentazioni sul male potevano derivare da tre diverse fonti. La prima dipende dalla necessità di interpretare il soggetto del male così com’era trattato nei testi canonici commentati dai cabbalisti. Quest’intento è palese nelle discussioni sui primi due versetti di Genesi 1, appartenenti alla scuola sacerdotale,53 del versetto del Deutero-Isaia di cui si è detto, relativo alla creazione divina del male, o di temi associati alla sofferenza immeritata, come quelli espressi nel libro di Giobbe, nel Qohelet o nelle affermazioni rabbiniche sulla mala sorte del giusto.54 Estremamente importante per la nostra comprensione dell’accettazione di teorie connesse alla precedenza del male è il fatto che in alcuni casi, nella Bibbia ebraica, il primogenito è il figlio cattivo, come nel caso di Caino, Ismaele ed Esaù. Nello stesso contesto sono state adottate da numerosi cabbalisti tradizioni demonologiche riferite a personaggi quali Asmodeo, Satana, Sama’el, Lilit. In altri termini, antiche affermazioni rabbiniche conservatesi in opere canonizzate imponevano di dar rilievo al problema del male, indipendentemente dalle circostanze storiche o dagli interessi specifici dei singoli autori.
La seconda fonte, marginale rispetto alla precedente, sono gli eventi storici. Il più importante è la distruzione del Tempio e la condizione d’esilio o di diaspora, intesa non solo come passata catastrofe ma come calamità che continuava ad avere ripercussioni sugli stessi cabbalisti. Molto meno evidenti sono le conseguenze di eventi contemporanei alla vita dei cabbalisti, come espulsioni, pogrom o cataclismi naturali.55
Una terza fonte sono le riflessioni ontologiche, talora influenzate da modelli religiosi e filosofici relativi all’origine e alla natura del male. Così l’influenza di fonti zoroastriane è determinante in alcuni casi esemplari qui presi in esame e anche quella di fonti filosofiche, interpretate talora in maniera diversa rispetto alle loro formulazioni originali. I cabbalisti si servirono di questi tre tipi di riflessione per interpretare le fonti ebraiche classiche, più che per offrire trattazioni sistematiche di teorie relative al male.
Il passo midrashico maggiormente impiegato a fondamento delle discussioni cabbalistiche relative alla precedenza del male nella creazione compare in un testo classico, Genesi rabbah. Sebbene il midrash sia noto a ogni studioso interessato alle concezioni cabbalistiche del male, il suo contenuto non ha sollecitato alcuna analisi critica dettagliata nel contesto dello studio della sua influenza sulla Qabbalah. La fonte del mito è R. Abbahu, un amoraita dell’inizio del IV secolo, attivo a Cesarea e spesso oggetto di tradizioni mitiche.56 Tenterò di valutarne il significato potenziale:
R. Tanḥuma così aprì il suo discorso: «Ha fatto tutto in modo appropriato al momento opportuno» [Qo, 3, 11]. R. Tanḥuma disse: «Il mondo è stato creato al momento opportuno, perché non sarebbe stato opportuno creare il mondo prima». R. Abbahu disse: «Da ciò si evince che il Santo, benedetto sia, crea mondi e li distrugge [maḥrivan], finché non ha creato il [mondo] presente, dicendo: “Questo [mondo] mi soddisfa, [mentre] quello non mi soddisfa”». R. Pinḥas disse: «Il motivo [dell’affermazione di R. Abbahu] risiede nel versetto: “E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era [molto] buono” [Gn, 1, 31]».57
Vorrei sottolineare l’aspetto temporale, che mi pare fondamentale per la comprensione del midrash nella prospettiva che qui ci interessa, rilevante nei versetti di Qohelet e nell’osservazione di Rabbi Tanḥuma che ne deriva. È evidente che le due affermazioni attribuiscono rilievo al fatto che il mondo presente è buono ed è stato creato al momento opportuno. Implicitamente, questo tema appare anche nel passo di Rabbi Abbahu, che distingue i mondi effimeri del passato, quelli che sono stati distrutti, dal nostro mondo, che continua a esistere. Ciò significa che i mondi precedenti, che non erano piaciuti a Dio, potevano essere cattivi o quanto meno difettosi, benché a tale aspetto il midrash alluda solo implicitamente. Secondo questa logica, i mondi precedenti furono distrutti da Dio, e la spiegazione non ha niente a che vedere con la struttura interna dei mondi stessi ma piuttosto con la reazione divina alla loro creazione.58 In effetti è possible che si debba attribuire rilievo al termine biblico hinneh («ecco, guarda!») in Gn, 1, che l’autore del midrash poteva aver riferito alla sorpresa causata in Dio dall’osservazione che questo mondo è davvero gradevole, hanyyan, in contrasto con la natura dei mondi precedenti. È interessante come nel contesto sia riportata un’altra tradizione attribuita a nome di Rabbi Abbahu, citata in Genesi rabbah, in cui a proposito di Tohu va-Vohu, intesi come entità che sono state squalificate o eliminate, si usa il verbo ebraico pasal.59 L’attestazione di questa radice nel midrash potrebbe in qualche modo aver causato l’uso nella letteratura cabbalistica del sostantivo pesolet in riferimento a processi relativi ad atti primordiali, come vedremo nei capitoli successivi.
In altre parole, la natura succinta, a-sistematica e a-metafisica dell’affermazione midrashica impedisce, almeno a mio parere, qualsiasi congettura sull’esatta struttura dei mondi precedenti. Il pensiero rabbinico non era certamente più sistematico, dal punto di vista teologico, di quello biblico e consentiva che all’interno del mosaico sfaccettato della produzione post-biblica si mantenesse una molteplicità di voci. Ecco il motivo per cui un’affermazione come quella di Isaiah Tishby, che definiva il testo summenzionato una delle «aggadot strane» (aggadot temuhot),60 è, a mio parere, a sua volta strana. In realtà, questo è solo uno dei numerosi esempi che relegano al margine quelle fonti rabbiniche che ispirarono le discussioni di un così gran numero di cabbalisti, come apprendiamo da un’altra analoga affermazione dello stesso studioso.61 La natura mitica del midrash e alcune argomentazioni del Talmud sono intese come se riflettessero una visione marginale all’interno della letteratura midrashica, anche se essa ricorre in una delle fonti della letteratura rabbinica che ebbero la massima circolazione.
Ammettere che esistesse una «dottrina ebraica della creazione» unitaria, nei termini di Tishby,62 rende difficile includervi questo mito. Ci troviamo di fronte a una congettura accademica secondo la quale l’ebraismo rabbinico avrebbe sconfitto e distrutto il pensiero mitico, e solo in epoca posteriore i cabbalisti avrebbero recuperato tale apparato, determinando la vittoria del mito sul rabbinismo trionfante precedente. Questo schema, dapprima proposto da Scholem,63 è stato abbastanza fedelmente iterato da Tishby.64 Si sottolineava dunque la concezione che le correnti principali del giudaismo seguissero un monoteismo morale, secondo una visione illuministica che influenzò pensatori come Hermann Cohen e Yehezkel Kaufmann, determinanti su alcuni aspetti dell’interpretazione offerta da Scholem dell’ebraismo biblico e rabbinico.65 Lasciando maggiore spazio ai miti e ai mitologemi in queste due fasi del giudaismo, includendovi alcune argomentazioni frammentarie sul male primordiale, si ridurrebbe il carattere di opposizione tra le argomentazioni cabbalistiche e un rabbinismo a-mitico, mentre si amplierebbe il rilievo assegnato dalla Qabbalah all’esegesi di testi e problemi discussi precedentemente dai testi tradizionali.66
In ogni modo, il mito cosmogonico di Rabbi Abbahu non è né bizzarro né tanto meno unico, come possiamo osservare dal confronto con un’altra fonte midrashica,67 in cui si afferma che Dio non poté creare il mondo prima di stabilirne la durata. Mi riferisco al seguente passo dei Pirqe de-Rabbi Eli‘ezer (VI secolo), che ebbe grande influenza sulla Qabbalah:68
Gli ascese alla [= venne in] mente di creare il mondo: allora si mise a inciderlo ma esso non si mantenne a lungo, ed è come un re che vuole costruire il proprio palazzo ma, se prima non incide le fondamenta e gli ingressi a terra, non può iniziare l’edificio. Allo stesso modo, il Santo, benedetto sia, lo incideva davanti a Se stesso, ma esso non si mantenne finché non creò il Pentimento.69
Anche secondo questo mito, il primo tentativo di creare il mondo fu vano e Dio fu obbligato a creare il Pentimento, una delle sette entità ritenute preesistenti alla creazione e necessarie al suo mantenimento. Si può congetturare che la durata del mondo dipenda da alcune forme di pratica rituale – nel nostro caso il Pentimento –, che avrebbero la funzione di rendere stabile il creato.
Il verbo usato nel passo per indicare l’azione di incidere è maḥarit, una radice raramente attestata sia nell’ebraico biblico sia in quello post-biblico. In un manoscritto ricorre la variante maḥariv, «distrusse», lo stesso verbo del passo di Genesi rabbah: anche se molto probabilmente si tratta di un errore, il termine ricompare in questa forma almeno in due citazioni cabbalistiche.70
Ancora in Genesi rabbah si osserva una terza allusione al male all’inizio del processo creativo. L’omileta anonimo confronta il nostro mondo, fondato sul Tohu va-Vohu, al palazzo di un re costruito sui rifiuti (ashpah). Nonostante la materia degradata che ne costituisce la base, non si può negare la bellezza dell’edificio, anche se si dovrebbe evitare di attribuire troppo rilievo all’umile fondamento per non sminuire la gloria di Dio.71 In un midrash alto-medioevale tardo, noto con il titolo Tanḥuma, si stabilisce che l’Angelo della Morte fu creato il primo giorno, prendendo spunto dalle tenebre menzionate in Gn, 1, 2.72 Un tema ricorrente nella letteratura che mi interessa è la relazione midrashica tra la generazione di demoni dal seme di Adamo sparso invano e l’interpretazione cabbalistica dell’origine del male. Infine, stando a un altro testo midrashico, prima della creazione del mondo furono create 974 generazioni di malvagi, concezione che per i cabbalisti confermava la tesi che il male precede il bene.73
L’esistenza di simili affermazioni relative ai processi iniziali della creazione diede adito all’idea, ampiamente diffusa in una società tradizionalista, che una stessa storia possa essere raccontata con parole diverse. Ecco perché nelle epoche successive furono numerose le combinazioni di questi temi, soprattutto nelle fonti cabbalistiche. Come vedremo in seguito, i primi cabbalisti usarono frequentemente il genere letterario del commentario alle leggende rabbiniche (midrashiche e talmudiche), fenomeno che non ha ricevuto sufficiente attenzione da parte degli studiosi delle origini della Qabbalah. Che un così ampio numero di cabbalisti facesse ricorso agli stessi testi biblici e midrashici – o ad affermazioni contenute nel Sefer Yetzirah – relativi al male primordiale (o letti in tale ottica), mostra che tali fonti rappresentavano ai loro occhi basi concettuali piuttosto che semplici testi di riferimento, come affermano gli studiosi moderni.
È evidente che nessuno nasce cabbalista. Nella società ebraica tradizionale, la Qabbalah è da sempre un soggetto che si affronta in età avanzata e talora riservato ad alcune figure dell’élite intellettuale. Il curriculum di studi regolare all’interno di una comunità ebraica prevedeva all’inizio lo studio della Bibbia, per proseguire poi con l’analisi del corpus talmudico, talora anche con la parte narrativa della letteratura rabbinica, e solo allora, ormai anziani, ci si poteva eventualmente avvicinare alla Qabbalah. Pertanto, molto prima di affrontare un testo cabbalistico (o un cabbalista) si incontravano molti dei testi di cui ci siamo fin qui occupati, che si consideravano canonici. Si tratta certo di un luogo comune ma vale la pena sottolineare questo curriculum, perché spiega la natura fortemente esegetica della creatività ebraica, inclusa quella cabbalistica. I vari sistemi cabbalistici, più deboli e flessibili di quelli filosofici, fornivano, analogamente a questi ultimi, strategie per spiegare la letteratura canonica precedente, la cui narrazione frammentaria e associativa è ben nota.
Questioni relative alla natura del male e alla sua origine permearono gran parte della letteratura cabbalistica. Ciò nonostante, le risposte offerte dai diversi autori a tali domande variano enormemente e le loro argomentazioni in materia svolgono ruoli differenti nell’economia dei diversi sistemi cabbalistici, soprattutto di quelli teosofici. Talora si rileva più di una concezione del male nelle argomentazioni sviluppate all’interno di uno stesso sistema. In effetti, data la loro diversità concettuale, la loro natura eclettica e il discorso associativo di cui si avvalgono i loro autori, postulare l’esistenza di una singola teoria che unifichi le discussioni sulla natura del male nella Qabbalah o anche negli scritti di un determinato cabbalista può rivelarsi nient’altro che un futile esercizio moderno di ricerca di coerenza scientifica nel caos dei materiali complessi a noi giunti dal passato. Ciò nonostante, è comunque possibile discernere una tendenza che appare nelle linee guida della Qabbalah teosofico-teurgica: una varietà di proiezioni di numerose argomentazioni precedenti che trattano eventi extradivini come se fossero riferiti, esotericamente, a processi interni alla divinità. Per mezzo di tali proiezioni, vari cabbalisti immaginarono di scoprire le origini ultime del male all’interno della mappa complessa della divinità. Questo indica una transizione dall’idea che il male possa essere effetto di attività divine all’idea che esso faccia parte della natura stessa di Dio. Mi pare che questa sia la principale trasformazione avvenuta nelle scuole cabbalistiche rispetto alle loro fonti ebraiche.
Data la complessità della mappa teosofica, l’identificazione di uno o più attributi divini con l’origine del male o il male stesso non significa che l’intera struttura divina sia malvagia. Inoltre la logica della struttura dinamica delle dieci sefirot, che organizza le qualità degli attributi divini separati e i processi che vi hanno luogo, intrappolava ciascuno degli attributi in una rete che riduceva al minimo la loro indipendenza, che si immaginava riconducibile alla dinamica più generale. Si tratterebbe dunque di una spersonalizzazione dei concetti di male quando ci si riferisce alla struttura superna, meno evidente però nelle strutture infradivine inferiori – quali il mondo angelico e demonico –, in cui si incontrano più frequentemente personificazioni del male modellate su tipologie mitologiche precedenti, spesso derivanti dal folklore.
Vorrei adesso prendere in esame le principali forme di associazione del male e di qualità negative all’interno del mondo sefirotico, prima di limitare la mia analisi a una sola di esse, il male primordiale.
Secondo l’analisi delle teorie del male nel Sefer ha-Bahir proposta di recente da Michael Schneider, Satana era stato inizialmente concepito come entità primordiale, integrata solo in seguito nella struttura divina come mano sinistra di Dio.74 Nelle altre forme medioevali di teosofia cabbalistica, le potenze malvagie sono rappresentate, invece, come se emergessero da una molteplicità di luoghi, che si trovano nella struttura delle dieci potenze divine, le sefirot. In alcuni testi, perlopiù affrontati nel capitolo 1, il male è riferito alla prima manifestazione divina, la sefirah Keter, spesso identificata con il Pensiero, Maḥashavah. Secondo altre fonti è invece la seconda potenza divina, Ḥokhmah o Sapienza, anch’essa talora identificata con il Pensiero, il luogo da cui ha origine l’esistenza differenziata del male.75 In altri casi si immagina che il male emerga dalla terza sefirah, Binah, talora identificata con la Madre superna, ma anche con il Discernimento o la potenza creatrice delle sette sefirot inferiori.76 Alquanto diffusa, nella maggior parte dei sistemi teosofici a noi pervenuti, è anche la concezione che il male derivi o si identifichi con una manifestazione divina più bassa di livello, la quinta sefirah, Gevurah (termine che può essere tradotto «potenza» o «forza»), l’attributo del giudizio severo, Middat ha-din ha-qashah, nota anche come mano sinistra di Dio.77 Il simbolismo della mano sinistra intesa come male, in contrasto con la destra associata alla misericordia, è comune a molte culture e offre un altro esempio di pseudo-simmetria subordinata. Il termine «giudizio» traduce qui e nelle pagine che seguono l’ebraico din, che può significare anche «giustizia», «rigore», non necessariamente dunque un comportamento cattivo, ma un’azione che agli occhi degli uomini può avere effetti dalle connotazioni negative. La necessità di governare un cosmo complesso o di ricompensare il malvagio può essere intesa in termini negativi, benché non si tratti di atti necessariamente negativi in sé, che tengono conto di un’organizzazione dell’essere i cui valori hanno uno spettro molto ampio.
In numerosi altri casi, attestati in molti trattati cabbalistici, il male è associato all’ultima sefirah, Malkhut (Regno), spesso ritenuta una potenza femminile, cui si attribuisce il controllo di processi che hanno luogo nel mondo inferiore.78 Questa entità è sovente descritta come «potenza della debolezza» o «giudizio mite». La sovrapposizione delle due forme di pseudo-simmetria, la polarità bene/male da un lato e quella maschile/femminile dall’altro, è molto significativa per comprendere la logica delle forme teosofiche di Qabbalah, dato che entrambe sono considerate necessarie al mantenimento dell’ordine superno che informa la realtà, almeno nell’èra pre-escatologica. Vedremo tra poco esempi dell’anteriorità del male che implicano anche la preesistenza dell’elemento femminile all’interno del regno divino superno.
Le interpretazioni specifiche del male dipendono dalle qualità associate ai «luoghi» divini, che svolgono ruoli diversi nei sistemi teosofici. Questo significa che esiste un’interazione tra alcune tradizioni sul male attestate in fonti non cabbalistiche più antiche e poco sviluppate e la logica interna dei sistemi sefirotici: il risultato di tali connessioni ha effetto sulle corrispondenti teorie relative al male.
In generale, le sefirot Binah, Gevurah e Malkhut sono associate a qualità femminili, spesso considerate in termini negativi e perlopiù attribuite al lato sinistro dello schema cabbalistico gerarchico del mondo divino. Nelle loro molteplici rappresentazioni, le dieci sefirot sono generalmente strutturate ad «albero»: si tratta di uno schema tripartito a linee (o pilastri), con la parte sinistra negativa, costituita da tre sefirot, la destra positiva, costituita da altre tre sefirot, e la linea mediana al centro, costituita da quattro sefirot: abbiamo dunque un ulteriore esempio di simmetria, qui mediata da una serie di altre potenze. Benché priva di funzione mediatrice, in quanto al vertice della struttura, la prima sefirah, Keter (Corona), è in genere considerata il punto di partenza della linea mediana che comprende le sefirot Tif’eret, Yesod e Malkhut, talora con l’aggiunta della sefirah Da‘at (Conoscenza).
È necessario sottolineare che questi «luoghi» del male, che talvolta compaiono indipendentemente, solo di rado entrano a far parte di una narrazione unitaria in cui si descrive un processo continuo di discese dall’uno all’altro livello divino. Nella maggior parte dei casi, essi rappresentano concezioni molto diverse adottate da cabbalisti diversi, sebbene si possano discernere alcuni tentativi di creare una mappa onnicomprensiva, soprattutto nel XVI secolo. Anche quando alcuni dei temi relativi alle origini del male sono articolati negli stessi scritti, raramente se ne trova una trattazione sistematica.
Tuttavia, in molti altri casi, vengono discusse strutture del tutto negative costituite da dieci potenze, il cui ordinamento interno riflette l’intero mondo divino delle dieci sefirot.79 In questo caso la trattazione sistemica della struttura del male è basata sul riflesso di una logica gerarchica, quella della struttura divina positiva. Talora queste potenze sono esplicitamente rappresentate con connotazioni demoniache. Un cabbalista importante, Yosef Giqatilla, alla fine del XIII secolo descrisse il male come entità che non si trova nella giusta collocazione. In effetti esso è talora inteso come dislocazione o disordine nel mondo divino o al di sotto di esso.80 A mio parere, il tema della dislocazione ha svolto un ruolo molto più rilevante di quello che gli è stato attribuito dalla ricerca, soprattutto nel caso significativo del seme sparso invano, di cui parlerò nei capitoli 1 e 5.
Devo anche sottolineare che per alcuni cabbalisti il male non aveva niente a che vedere con la struttura interna della divinità. Sono quelli che adottarono posizioni aristoteliche, soprattutto per influenza del pensiero di Mosheh ben Maimon (Maimonide), e che ritennero Dio puro intelletto. Questo è il caso soprattutto di Avraham Abulafia e di alcuni suo seguaci.81 Altri, come Yitzḥaq ben Avraham ibn Laṭif (metà del XIII secolo), furono più inclini ad accogliere temi neoplatonici e non discussero la questione del male nelle loro argomentazioni sulla natura del mondo divino. In alcuni casi l’influenza perniciosa di Saturno, pianeta maligno, venne concepita come possibile origine del male e della distruzione,82 ma sempre senza connessione ai processi primordiali.
Inoltre, secondo molte fonti cabbalistiche, il male, quali che siano le sue radici superne, avrebbe permeato i mondi inferiori, nel contesto di una condizione di fusione o mescolamento, tema che ricorda analoghe teorie zoroastriane e manichee relative alla miscela di bene e male: di conseguenza, l’eschaton consisterà nella separazione dei due elementi mentre, secondo altre teorie, le componenti maligne dell’esistenza saranno annullate o, in altri casi, mitigate.83 In ultimo, alcuni cabbalisti si sono occupati del male come se fosse innanzi tutto localizzato nella psicologia dell’uomo, talora nella scia della distinzione rabbinica tra i due istinti o inclinazioni e del loro conflitto, in altri casi per influenza di forme di psicologia greca adottate dalle élite ebraiche medioevali.84
La speculazione sul male svolse un ruolo importante nella teoria e nella pratica cabbalistiche. Ciò nonostante, fino a oggi esistono solo alcune analisi generali dell’argomento, come lo studio di Scholem (in origine una conferenza tenuta a Eranos),85 altre più settoriali, come i contributi di Tishby e di Wolfson sullo Zohar,86 l’importante monografia su Yitzḥaq Luria di Tishby The Doctrine of Evil e numerose altre più specifiche, quali le analisi di Sack delle concezioni di Cordovero; a tutt’oggi non esiste alcuna monografia che passi in rassegna l’intero spettro delle teorie cabbalistiche sul tema. Si avvicina ad alcuni degli argomenti qui trattati l’eccellente articolo di Farber, The Shell Precedes the Fruit, le cui analisi hanno apportato un contributo notevole alla questione e le cui significative scoperte saranno discusse in seguito.
I capitoli che seguono tratteranno delle probabili fonti delle concezioni cabbalistiche del male primordiale e delle tre modalità principali di cui si servirono gli autori mistici per motivare le origini del male all’interno della divinità stessa.
La modalità più diffusa è quella naturalistica, cioè l’idea che, sia nella storia (biblica) sia nella natura, il male precede il bene, come si rileva dall’osservazione che nella Scrittura i primogeniti sono peggiori dei secondi figli – è il caso di Caino, Ismaele ed Esaù – e che il frutto è anticipato – e spesso anche protetto – dalla scorza. In termini aristotelici, la steresi – cioè la privazione di esistenza – precede l’esistenza. Quest’idea è spesso rappresentata dall’aforisma «la scorza precede il frutto», ritenuto valido su più livelli di realtà.87 Tale concezione viene proiettata all’interno della sfera divina: Dio inabita i processi descritti nella Bibbia, quando la Scrittura descrive simbolicamente eventi teosofici.
La seconda modalità è quella perfezionistica, cioè l’idea che il male e le sue radici sono all’interno del regno divino, il che non è considerato una mancanza, ma al contrario una perfezione, perché la totalità è ritenuta attributo di Dio. La totalità – sostengono gli esponenti di questa concezione – necessita della presenza del tutto come condizione primaria della perfezione nel mondo superno, inteso come paradigma ideale o archetipo di ciò che esiste nel mondo inferiore, compreso il male. Si tratta di una teoria di ispirazione platonica, nonostante la visione anti-platonica del male nel mondo divino che appare a partire dal XIV secolo nella Qabbalah e che è ben rappresentata nelle sue componenti safediche. In questa modalità il concetto di precedenza del male non è rilevante, ma fa parte dell’idea che una divinità infinita debba comprendere ogni cosa al proprio interno. La mia congettura è che in tale speculazione bene e male nel mondo divino sono separati e non coesistono in maniera indistinta o fusi insieme. Nei capitoli 4, 5 e 6 si prenderà in esame il nesso tra queste idee e l’intenzionalità divina, la teoria secondo la quale è la visione premeditata di Dio ad aver dato origine al male, che in fondo non è altro che un’entità strumentale. Anche se utilizza alcuni termini e forme del pensiero filosofico, questa modalità non riflette alcuno dei sistemi speculativi di mia conoscenza. Più che altro essa fornisce un’interpretazione conciliatrice della realtà come riflesso del mondo superno.
La terza modalità prevede che nella sfera divina il male sia mescolato al bene e il processo di distinzione tra i due elementi abbia luogo solo in una fase successiva. La purificazione degli elementi negativi dalla divinità è ritenuta parte essenziale dei processi emanativi e in seguito dell’attività dell’uomo. Definirò questa modalità «catartica», nella scia di Isaiah Tishby, che le ha dedicato una monografia, The Doctrine of Evil. Secondo Tishby questa concezione è caratteristica esclusiva della Qabbalah di Yitzḥaq Luria, il che significa che si sarebbe trattato di un’innovazione della seconda metà del Cinquecento. Riprenderemo il tema soprattutto nei capitoli 4 e 5. È una modalità caratterizzata dal rilievo attribuito ai concetti di miscela, purificazione e perfettibilità, tutti connessi alle fasi autogenetiche all’interno del divino. Com’è ovvio, essa ha una connotazione implicitamente agonica, cioè può contenere una qualche forma di conflittualità. In essa svolge un ruolo significativo l’immagine del seme maschile. Se il regno divino è modellato come un anthropos superno, talora il processo di discesa del seme ha origine dal punto più alto dell’anthropos, il pensiero o il cervello, verso quello più basso, la nona sefirah, Yesod (Fondamento), dove o si unisce all’emissione femminile e procreativa di entità positive o si effonde vanamente, unendosi a entità negative e generando potenze demoniche. La catarsi divina si attua attraverso la necessaria riparazione di questo vano spargimento di seme, inteso come emissione dislocata. Si tratta di un’interpretazione da ritenere ottimistica, poiché lascia aperta la possibilità di un mondo futuro migliore e permette all’uomo di cooperare a tal fine. La responsabilità dell’uomo viene così accentuata più che nelle fasi precedenti del giudaismo, secondo modelli che si ritrovano anche nel pensiero ebraico moderno e che si riflettono negli scritti filosofici di Emmanuel Lévinas, Hannah Arendt e Emil Fackenheim. Nelle due ultime modalità il male superno è inteso come origine dei mali inferiori.
Ovviamente questa distinzione non deve essere considerata rappresentativa del pensiero di singoli cabbalisti: gli scritti degli stessi autori o le stesse scuole cabbalistiche offrono in genere sintesi diverse di due o tre modalità diverse.
Nessuna delle tre modalità è connessa a strutture divine antropomorfiche ma tutte sono associate in qualche misura a teosofie fondate sull’infinitezza, l’indistinzione e il mescolamento, creando complessi e affascinanti sistemi dal punto di vista intellettuale. In effetti le ultime due modalità si riferiscono a due diverse concezioni di Dio: quella perfezionistica, che considera un Dio perfetto, e quella catartica, che congettura un processo di perfezionamento che ha luogo attraverso una purificazione, una specie di «process-theology».88 È il concetto della perfettibilità di Dio che si associa spesso alla modalità catartica e che richiede all’uomo non tanto di conoscere Dio attraverso la sua rivelazione perfetta o come essere perfetto, ma piuttosto di condividere le sue azioni finalizzate alla purificazione del regno divino, cioè mettendo in pratica i comandamenti.89
Ci interessa qui soprattutto una concezione cabbalistica la cui esistenza nelle prime fasi della dottrina è stata negata da due dei suoi principali studiosi, quelli che più di ogni altro hanno contribuito all’analisi delle teorie cabbalistiche del male, Gershom Scholem e Isaiah Tishby. A loro parere, nel pensiero cabbalistico anteriore alla metà del Cinquecento non c’è traccia di una teoria dell’emanazione del male non mediato e originato direttamente da Dio: sarebbe stato dunque Luria l’innovatore di questa visione.90 L’ampio materiale cabbalistico da me raccolto e analizzato nei primi quattro capitoli e nella prima parte del quinto dimostra che tale interpretazione è alquanto problematica e deriva da una visione romantica secondo la quale Yitzḥaq Luria sarebbe stato un genio religioso che avrebbe dato avvio da solo a un rinnovamento della Qabbalah. Questa storia della Qabbalah basata sulla centralità dell’innovazione di idee e bruschi passaggi dall’una all’altra ha creato profonde discontinuità, ignorando i mutamenti graduali che caratterizzano la dottrina. Ecco perché ho deciso di presentare il materiale ebraico precabbalistico nell’introduzione e anche nei prossimi capitoli, dato che si tratta di testi poco studiati dalla tradizione accademica, che in genere li ha considerati autorità testuali piuttosto che fondamenti ispiratori.
Nel presente volume mi servo spesso del termine «male». Il termine ebraico ra‘ («cattivo») si trova attestato raramente nei testi da me analizzati. Il generico ro‘a («male») non veniva usato dai cabbalisti, a quanto mi risulta. Altri termini sono stati scelti per suggerire l’idea di entità o azioni negative: il più diffuso nella letteratura cabbalistica è qelippah, in genere tradotto «scorza» o «guscio», immagini derivate dal mondo vegetale e finalizzate a suggerire l’idea di una superficie ruvida, aspra, posta sul lato esterno di un frutto, la cui parte interna, buona, è il fine ultimo della sua creazione. A volte anche il guscio è concepito in maniera positiva, come prodotto della natura o anche come protezione del frutto. Spesso, quando si usa questo termine, si sottolinea l’anteriorità della scorza rispetto al contenuto per indicare la precedenza della negatività sulla positività. In queste immagini si ricorre spesso al vocabolo ebraico ḥitzoni («esterno/esteriore») – in genere al plurale, ḥitzonim –, riferito agli elementi esterni che stanno intorno o al di là del mondo sefirotico. In effetti, molte delle argomentazioni qui prese in esame sono commenti di un aforisma cruciale per il nostro tema: l’anteriorità del male rispetto al bene («la scorza precede il frutto»).
È molto comune anche il termine din (e dinim al plurale), associato all’attributo divino del giudizio, inteso come opposto dell’attributo di misericordia. Molto importante è l’uso del termine ṭum’ah («impurità» o koḥot ha-ṭum’ah, «potenze impure»), in opposizione a ṭohorah («purità» o koḥot ha-ṭohorah, «potenze pure»). In alcuni casi si ricorre a un gioco di parole per parlare del male: pesolet, «scarto», in opposizione a «solet», la parte migliore della farina, e spesso si richiamano le regole ebraiche di purità alimentare e la necessità di evitare alcuni tipi di cibo o di separare la parte impura dagli alimenti ritualmente idonei. Di grande importanza sono gli opposti che abbiamo visto precedentemente, quali, ad esempio, luce/tenebre, creazione/distruzione, le due inclinazioni, maschile/femminile, giusto/malvagio o i concetti filosofici forma/steresi e esistenza/privazione. Ancor più illuminante da questo punto di vista è la formula aramaica zoharica sitra aḥara («l’altro lato» o «l’altra parte»), al cui interno è incorporata l’idea di alterità. Inoltre esistono molti termini riferiti al male simbolicamente, ma non tecnicamente: tenebre, Esaù, mano sinistra o colore rosso.
Tutte queste immagini rivelano un atteggiamento binario che vede la parte negativa non come categoria in sé ma come parte di una polarità. In larga misura, gli aspetti negativi non sono considerati un’entità totalmente indipendente, ma parte di strutture più ampie che comprendono anche aspetti negativi. Da tale punto di vista, sono immagini che riflettono il parassitismo dell’interpretazione cabbalistica di questa categoria ampia e vaga.
È la natura stessa dei trattati in cui ricorrono le opposizioni binarie, per la maggior parte incentrati sull’interpretazione di testi più antichi o sull’esecuzione del rituale, a scoraggiare ogni sistematicità. Al contrario, sono opere che contribuiscono alla creazione di un campo concettuale indefinito, generato da immagini differenti e solo in parte sovrapponibili. Talora è difficile essere certi se sia l’asse bene/male alla base del discorso o se si tratti degli assi rituali comandamento/peccato o puro/impuro. Il risultato naturale è l’inconsistenza, e interpretazioni multiple di uno stesso tema sono comuni in testi poligenetici.
Molto spesso i tentativi degli studiosi di presentare interpretazioni sistematiche di autori, scuole o temi della Qabbalah sono un mero auspicio, che deriva dall’importazione di metodologie tratte da altre forme letterarie – dalla teologia, dalla filosofia o dalla psicologia – nell’analisi dei materiali letterari più associativi, esegetici e performativi che costituiscono il vasto e variegato campo della Qabbalah.
Come osserveremo più avanti, lo stesso tema inteso dalla critica come parte di un sistema ampio e relativamente trasparente – mi riferisco alla natura e al ruolo del male – può essere letto in un maggior numero di forme, che appaiono negli stessi scritti precedentemente analizzati dagli studiosi.
Così, anche se l’oggetto principale del nostro studio sarà il male e nonostante la ricorrenza non frequente del termine ra‘ in contesti significativi, ci occuperemo sostanzialmente di comprenderne il campo concettuale più esteso, tenendo necessariamente conto della varietà di opposizioni associate a un aspetto negativo. Va da sé che tradurrò ogni singola ricorrenza del termine non solo usando il vocabolo «male» ma secondo il suo significato specifico e solo in seguito commenterò le sfumature di negatività, per quanto mi sarà possibile.
Come ho già osservato, questo studio si incentra sul presupposto che alcuni cabbalisti abbiano considerato il male come parte integrante dei processi primordiali. Talora questi processi precedono l’emergere del regno divino delle dieci sefirot, poiché sono associati ai momenti più oscuri del processo teogonico. Ciò nonostante, i cabbalisti non lasciano trasparire la sensazione che si tratti di un mistero o di qualcosa di sublime, pericoloso o difficile da esprimere a parole, ineffabile: la loro lingua è solo raramente esoterica.
Un altro elemento significativo in relazione al tema in oggetto appare nel sottotitolo del volume: totalità, perfezionamento e perfettibilità. In molti dei testi presi in esame incontreremo argomentazioni relative a varie perfezioni: di Dio, del mondo e dell’uomo. La maggior parte di esse sono espresse con termini derivati dalla radice ebraica ShLM, associata all’idea di completezza e solo di rado usata in riferimento a Dio nelle letterature tradizionali ebraiche prima del Medioevo. Nel quadro dell’immaginario che a un unico Dio attribuisce ogni cosa, Egli era ritenuto sovrano della totalità dei fenomeni creati. In altri termini, la totalità è associata allo status speciale accordato al Dio unico, ciò che viene definito monoteismo. Tuttavia, in molte parti della Bibbia ebraica la perfezione divina non è palese: il peccato dei primi esseri umani, il diluvio, la distruzione del Tempio sono eventi che rivelano un Dio imperfetto o comunque non sempre onnipotente. Altrettanto problematica, a dir poco, è la tribolazione degli ebrei nel periodo post-biblico. Benché tali imperfezioni non siano imputate direttamente a Dio ma attribuite agli uomini, sue creature, il quadro che si evince dalla narrazione storica biblica non dà l’impressione che le intenzioni del creatore siano state realizzate appieno.
L’ebraico shelemut, il termine più usato per riferirsi alla perfezione, sembra riflettere l’influenza della concezione greca della teleiotes, in qualche modo connessa all’enoteismo,91 applicata al Dio biblico, la cui interpretazione monoteistica si fonda sul presupposto che Egli sia l’origine della totalità dei fenomeni creati. La combinazione della visione monoteistica che attribuisce ogni cosa creata a Dio (ne abbiamo visti molti esempi) con l’ideale enoteistico della perfezione creò una tensione tra l’inclusione del male nella totalità extradivina nella Bibbia ebraica e le concezioni di perfezione divina riferite esclusivamente al bene, in senso greco.92 Dal punto di vista semantico, questo rapporto appare in espressioni ebraiche medioevali quali shelemut ha-kol, «la perfezione del tutto»; nella terminologia aramaica zoharica, shelemut de-kulla, shelemuta de-kulla o il più comune mehemenuta shelemata, «la fede perfetta», cioè la perfezione del sistema sefirotico: sono tutte espressioni riferite a Dio o a una delle sue potenze.93 Dunque le antiche concezioni greche sulla perfezione94 furono applicate ai versetti biblici relativi alla totalità e solo in seguito assorbirono la connessione tra un Dio perfetto e il male, soprattutto nella letteratura cabbalistica. In altri termini, la connessione biblica tra Dio, male e totalità indusse una connessione, in alcune cerchie ebraiche medioevali, tra Dio, perfezione e male. Poiché perfezione significa totalità e non solo completezza, in alcuni casi anche il male fu incluso in tale completezza, uno dei significati di teleiotes. Questo tipo di ragionamento appare spesso nella Qabbalah, e fa pensare all’affermazione di Hegel, secondo cui un essere assoluto necessita dell’esistenza del male al suo interno.
Un’ulteriore complicazione si manifestò quando si fece strada l’idea che il regno divino possa essere influenzato dalle azioni dell’uomo (si parla in questo caso di teurgia): a questo punto si aveva la rappresentazione di un Dio soggetto a mutamenti e dunque una divinità che può essere perfezionata dall’intervento delle sue creature. Questa complessità, generata dalla sovrapposizione di tre concezioni – quella biblica della totalità, quella greca della perfezione equivalente al bene e quella rabbinica e cabbalistica di una divinità perfezionabile – fu associata in alcuni casi al concetto di male, nei termini precedentemente descritti. In quest’intreccio di relazioni complesse fu compresa anche la pseudo-simmetria subordinata di origine zurvanica, di cui ci occuperemo soprattutto nel capitolo 1.
Data la reticenza della maggior parte degli autori della Bibbia ebraica e della letteratura rabbinica del primo millennio dell’èra volgare a costruire affermazioni teologiche sistematiche, è difficile stabilire la natura precisa di molte di tali relazioni. È nella letteratura cabbalistica medioevale che tali complessità sono state combinate con sistemi ontologici dinamici che si credeva descrivessero la struttura interna della divinità, ognuno dei quali specificamente riferito a quelli che abbiamo definito «luoghi del male». L’affermazione di una totalità creata, riferita dalla Bibbia all’universo, era ora compresa nel mondo divino, in cui si inserivano alcuni aspetti negativi.
Va da sé che ogni cabbalista comprese diversamente l’ambiguità delle parole chiave, la natura complessa di tali connessioni e la fluidità dei nessi tra i vari termini. Per questo ogni tentativo di proporre una visione generale del male, della perfezione o della perfettibilità a mio parere tende a ridurre un intreccio complesso di relazioni a un’affermazione semplicistica. Ecco perché modalità, modelli, ordini, o qualsiasi altro tipo di categorizzazione possono adattarsi al materiale in nostro possesso molto più di qualsiasi teoria generale, basata sull’idea che termini generici applicati alla Qabbalah siano in grado di cogliere fenomeni più significativi. Si tratta di categorie che dovrebbero essere ritenute parte di un discorso più complesso, associato, come si è detto, all’esecuzione del rito, una connessione ulteriore e vitale che non dev’essere mai dimenticata quando si ha a che fare con la Qabbalah.
Un’ultima precisazione sul titolo: il termine «primordiale» nella maggior parte dei testi presi in esame indica processi che sono sostanzialmente presefirotici, cioè avvenuti prima del processo emanativo che dette origine alle potenze divine partecipi della creazione del mondo. Questo significa che mentre il male ricorre in molti luoghi anche nel sistema sefirotico – in quelli che abbiamo definito «luoghi del male» – non mi occuperò qui tanto dei processi che precedono il manifestarsi della gerarchia delle dieci sefirot, quanto di quelli che ne descrivono la derivazione dall’Infinito, En Sof, o il passaggio da quest’ultimo alla prima manifestazione divina, Keter. Alcuni documenti in proposito lo considerano un insegnamento esoterico.
A tutt’oggi gli studi accademici hanno sottovalutato il ruolo della struttura e della natura del regno sovrasefirotico per la comprensione della teosofia cabbalistica.95 Dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso ho iniziato a elaborare, insieme a uno studio sul pensiero malvagio di Dio, altri due saggi, pubblicati negli stessi anni – uno sulle sefirot al di sopra delle sefirot e l’altro sull’immagine umana sopra le sefirot, uscito dapprima in una versione più breve ebraica e poi in una più ampia inglese. Entrambi i contributi s’incentrano sulla dottrina delle dieci sefirot superne ed esaminano paralleli del tema risalenti al primo secolo e mezzo della storia della Qabbalah e la loro influenza sui periodi successivi.96
In breve tempo vennero tuttavia alla luce altri documenti manoscritti, da me inclusi in altri tre articoli: Kabbalistic Material, Zimzum e On the Theosophy at the Beginning of Kabbalah: ciascuno di essi propone nuovo materiale necessario alla comprensione dei mondi sovrasefirotici nella Qabbalah. Un prezioso strumento per capire questo tema è lo studio del 1988 di Yehuda Liebes: The Kabbalistic Myth of Orpheus. In tutti questi contributi si parla di Qabbalah delle origini, tranne che nell’ultimo, in cui si discute l’evoluzione della dottrina a partire dal XVI secolo. La progressiva presa di coscienza di materiali fino ad allora non trattati scientificamente e la mia produzione dei primi anni ’80 sull’antropomorfismo nell’ebraismo hanno modificato la mia interpretazione della teosofia cabbalistica: ho compreso in ultimo che non si trattava di una disciplina che si occupa solo delle sefirot emanate intese come una teologia positiva e dell’Infinito inteso come una teologia negativa,97 mentre era sempre più palese il fatto che alcuni cabbalisti immaginarono strutture e processi superiori alla ben nota gerarchia delle sefirot rivelate. Alcuni testi cabbalistici più antichi attribuivano connotazioni antropomorfiche alle sefirot superne, motivo che influenzò i cabbalisti di Safed, soprattutto Luria, e che contribuì a un’interpretazione specifica del regno presefirotico. Come osserveremo nel prosieguo, esistono implicazioni di questa concezione che riguardano la natura del male nella Qabbalah luriana.
Parte di tali processi primordiali riferiti alla manifestazione originale del male iniziano a essere discussi in documenti cabbalistici del Duecento, che trattano in generale della manifestazione del divino e della realtà creata. È un tema complesso che è stato solo marginalmente studiato dai ricercatori della Qabbalah e che nel tempo è divenuto sempre più significativo, grazie alla scoperta di un numero sempre più ampio di documenti nei quali il motivo è analizzato dettagliatamente, come nel caso della produzione zoharica, le cui implicazioni necessitano di ulteriori studi da effettuare soprattutto su materiali manoscritti. Ci occuperemo dunque anche di ciò che i cabbalisti ritenevano fosse il mondo presefirotico, soprattutto in relazione all’emanazione di sefirot malvagie prima di quelle positive. Non c’è dubbio che le trattazioni del male sono molto più complesse, soprattutto considerate le teorie delle perfezioni divine en vogue nelle discussioni filosofiche contemporanee allo sviluppo della prima Qabbalah, che potevano inibire argomentazioni interpretabili nel senso di un’imperfezione divina.
Sottolineo che non intendo affermare che tutti i cabbalisti che trattarono il tema considerarono il mondo presefirotico nello stesso modo, ma al contrario che esiste una diversità di atteggiamenti. Non voglio neppure affermare che esistesse una tradizione orale trasmessa per lunghi periodi relativa a questo livello della divinità, anche se in alcuni casi determinate scuole potrebbero aver recepito tale tradizione, circolante per qualche generazione. Ciò nonostante, devo sottolineare che si può distinguere una certa correlazione tra discussioni presefirotiche e la questione delle fonti più antiche della Qabbalah: il problema è diventato sempre più centrale con il procedere della ricerca, in particolare nello studio di Liebes The Kabbalistic Myth of Orpheus e in numerose discussioni che abbiamo intrattenuto nel corso degli anni.
In tale ottica vorrei concentrarmi su quanto ho proposto nei miei studi precedenti riguardo ai problemi associati all’adozione di una metodologia semplice per comprendere la religione e alla necessità di servirsi di un atteggiamento prospettivista,98 che riconosce la validità di più tipi di analisi, benché non tutti i risultati della ricerca scientifica che possono essere controllati filologicamente e storicamente siano ugualmente validi e sebbene, a mio parere, sia possibile invalidarne altri. Come vedremo più avanti, ritengo che il pensiero di cabbalisti significativi sia permeato da qualche forma di fluidità concettuale, il che significa che solo di rado troveremo risposte semplici a determinate domande, anche negli scritti di uno stesso autore.
In certo qual modo possiamo parlare di una letteratura cabbalistica con una struttura caleidoscopica, dinamica per natura e mutevole per l’influenza di variabili personali, storiche, per l’impatto di nuovi materiali ecc., più che di un sistema fondato stabilmente su un significato basilare o una struttura profonda, nel modo concepito da pensatori idealisti come Schelling. Mi servo dell’immagine del caleidoscopio per evitare interpretazioni ancor più radicali della natura del pensiero e della letteratura cabbalistici come accidentali, contingenti, caotici o labirintici. Un tipo di religiosità tradizionale, accumulativa par excellence, tende a iterare concetti preesistenti, associati a testi e riti canonizzati, coniugati a nuove idee, in modi diversi. Ecco perché, nonostante i numerosi mutamenti, esistono argomentazioni che si ripropongono in maniera stabile, che potremmo descrivere come parte di sistemi o di ordini, dotati di caratteristiche generalmente intese come simboli o miti. I concetti di male che ci interessano in questa sede, riferiti essenzialmente al livello teosofico presefirotico o alle prime fasi del racconto emanativo, comprendono anche narrazioni della manifestazione del male nel contesto di cornici autogenetiche più complesse. Ecco perché le concezioni del male in questa letteratura non possono essere comprese in sé, a meno di non essere qualificate dalla natura specifica del loro opposto, prestando attenzione alle varie immagini che le esprimono, attraverso la struttura generale di un certo sistema, per quanto esso possa essere flessibile, così come da usi di terminologie specifiche che contraddistinguono un singolo cabbalista.
Le pagine che seguono, così come molte delle mie riflessioni sulla Qabbalah, si discostano dai tentativi totalizzanti di reperire caratteristiche generali, strutture «profonde», analisi sistematiche o caratterizzazioni psicologiche valide per la Qabbalah nel suo insieme o per ampi segmenti di questa produzione letteraria. Senza voler atomizzare il discorso, propongo di analizzare il materiale cabbalistico liberandolo il più possibile da preconcetti generali relativi alla sua natura fondante o alle sue strutture generali o da agende moderne o postmoderne e di passare in rassegna quanti più testi possibili che trattano un tema specifico per raggiungere conclusioni più modeste. Intendo cioè affrontare con sguardo fresco molte fonti cabbalistiche, soprattutto manoscritte, per interrogarle in maniera diversa da quanto è stato fatto in precedenza, lasciando il giusto spazio alla fluidità concettuale, all’incoerenza, alle tensioni e anche alle contraddizioni che si possono reperire addirittura all’interno del pensiero di uno stesso autore. Sciogliendo l’analisi critica dalla tirannia dei metodi rigorosi, che si ostinano a trovare delle risposte univoche e che talora stabiliscono in partenza ciò che i testi dovrebbero contenere, soprattutto nel contesto delle mode moderne o postmoderne, emergeranno interpretazioni della Qabbalah molto più interessanti e inattese, ad esempio sul tema del male primordiale.
Seguendo le linee di ricerca da me proposte, emergerà un discorso più frammentario sul pensiero cabbalistico, che tuttavia avrà il pregio di combinare mito e rituale, vita del singolo e interessi del gruppo o della nazione di appartenenza, una fisiologia provvista di anatomia. Come avremo modo di osservare, attribuisco maggiore importanza a forme di sintesi modesta piuttosto che all’affermazione di innovazioni concettuali, a intersezioni eclettiche piuttosto che all’insistenza su un pensiero sistematico, a mutamenti e reazioni piuttosto che a strutture di pensiero stabili o «profonde», al ruolo creativo dell’interpretazione piuttosto che alle reazioni a eventi storici; ritengo soprattutto che l’impegno primario di uno studioso consista nel padroneggiare il materiale che appartiene al suo campo di ricerca e nella capacità di apportare alla discussione critica nuovi materiali – manoscritti e a stampa – che non hanno attirato la dovuta attenzione degli studiosi – se mai l’hanno fatto –, o che sono stati interpretati diversamente. Spero comunque di riuscire a offrire anche letture metodologicamente diverse di alcune delle fasi principali della Qabbalah, soprattutto per quanto attiene all’analisi di aspetti del pensiero zoharico e all’origine della corrente luriana.
Per concludere: le pagine seguenti s’incentrano sul contenuto di testi cabbalistici e il mio sforzo principale consisterà nell’interrogarli, lasciando che siano i cabbalisti stessi a fornire la risposta alla questione del male primordiale. Niente a che vedere con la teologia, cioè con il tentativo di elaborare una visione sistematica di Dio,99 né con la teontologia, cioè con lo studio dell’esistenza e della natura di Dio, né con la teodicea100 o tanto meno con le mie vedute personali. Il mio scopo è quello di dimostrare l’esistenza di un ampio spettro di concezioni cabbalistiche su un tema specifico e questo è il motivo per cui ho evitato di rimandare a poderose letterature scientifiche, anche recenti, che tentano di riconciliare concezioni di Dio con concezioni del male ed esprimono stupore e confusione sull’etica e la moralità di Dio.101 Per quanto sia affascinato dalle acute sensibilità etiche, dai profondi sentimenti religiosi e dalle analisi sofisticate della natura di Dio e del male che ricorrono negli studi recenti, il mio fine è del tutto diverso: definire quali fossero le mentalità religiose di autori di cui non condivido le opinioni riguardo agli argomenti che analizzo. Ecco la ragione per cui le perplessità religiose sulle relazioni tra male primordiale e onnipotenza o onniscienza divina o sulla «morte di Dio» non trovano spazio nel presente volume, dato che, per quanto ne so, non sono mai state al centro dell’interesse dei cabbalisti. Piuttosto che tentare di trasformarli in nostri contemporanei, ricorrendo a tendenze moderniste, tenterò di farmi loro contemporaneo102 attraverso un atteggiamento simpatetico e prendendo in considerazione evoluzioni concettuali e storiche che alimentarono la Qabbalah ma di cui i cabbalisti non erano consapevoli.
Spero, dunque, che le pagine seguenti non saranno lette come una critica rivolta ai testi analizzati, né come animate da un intento apologetico o da una teodicea, ma come un tentativo di ascoltare e distinguere voci diverse del passato in tutte le loro varietà. Giudicare le opinioni personali degli autori e la loro validità sono passi successivi che a mio parere non possono essere intrapresi ricorrendo ai criteri moderni e ignorando le circostanze storiche specifiche in cui tali opinioni si manifestarono: ecco perché in quest’ottica non mi servirò tanto di giudizi anacronistici, quanto di capacità di discernimento.