Orvieto

Ornamento di separazione

GLI ANGOLI DI MEDIOEVO SONO DAPPERTUTTO: SI PUÒ DIRE CHE NULLA È CAMBIATO, CHE TUTTO È RIMASTO INTATTO NEL TEMPO.

Un colossale masso che emerge come un’isola in mezzo a una conca pianeggiante. Questo spettacolo naturale, già di per sé straordinario, diventa meraviglioso quando ci si accorge che sulla sommità della rupe si adagia una città. Più che adagiarvisi, dovremmo dire che si eleva. E il turista che giunge a Orvieto senza aver conosciuto nulla dell’Umbria incontra qui cento occasioni per restare incantato e commosso.

Più che nei monumenti trova tali occasioni in quegli angoli pittoreschi e imprevisti che si scoprono passeggiando per certe viuzze tortuose e solitarie. Ecco una fila di casette di tufo annerite dai secoli; metà nell’ombra e metà nel sole con un guizzo di gerani da un poggiolo, il profilo incombente di una torre, una palazzina con eleganti bifore. Più avanti un cupo sottopassaggio in discesa inquadra una radiosa vista della valle, una piazzetta silenziosa con la sua fontanella o il suo pozzo… Gli angoli di Medioevo sono dappertutto: si può dire che nulla è cambiato, che tutto è rimasto intatto nel tempo.

Ma per i problemi idrogeologici del masso tufaceo su cui poggia, Orvieto è da tempo oggetto di particolari attenzioni. Parallelamente ai lavori di consolidamento della rupe, si interviene per restaurare il tessuto urbano e valorizzare i suoi monumenti.

Tra questi, il duomo è sicuramente il gioiello più prezioso. La sua fondazione risale al 1290, eretto su volontà di papa Urbano IV per ospitare il Sacro Lino del Corporale, macchiato del sangue di Cristo, durante la messa celebrata a Bolsena nel 1263.

Nelle guide il duomo è definito sublime e grandioso, trofeo di gloria della fede, miracolo architettonico. Sbalorditi e incantati di fronte alla facciata, immenso gioiello policromo, non si sa che cosa ammirare per primo: se lo splendido rosone dell’Orcagna o i finissimi rilievi marmorei dei quattro pilastri alla base, se gli smaglianti mosaici d’oro, fastosamente incorniciati, o la leggiadra loggetta orizzontale, se le statuine degli Apostoli e dei Profeti attorno al rosone o quelle cuspidi e quei pinnacoli che regalano ritmo, armonia e slancio all’insieme.

All’interno della cattedrale si può ammirare l’opera di tre grandi – Beato Angelico, Benozzo Gozzoli e Luca Signorelli –, consacrata al tema del Giudizio universale, che ispirò Michelangelo per la Cappella Sistina.

Di solito quieta e silenziosa, la piazza del Duomo si anima in modo vivacissimo il giorno della Pentecoste per uno spettacolo caratteristico: la Festa della Palombella (Spirito Santo), bianca colomba racchiusa in una raggiera che lungo un cavo metallico dalla chiesa di San Francesco (il Paradiso) viene fatta scendere sin sui gradini del duomo (Cenacolo, con Vergine e Apostoli). Da questa cerimonia gli orvietani traggono nuovi presagi per l’annata; la palombella invece, secondo una gentile consuetudine, viene offerta in dono alla sposa di Orvieto che per ultima ha celebrato le nozze.

Una giornata sacra nel sentimento religioso della gente perché, si dice, il cielo si collega con la terra e, a Orvieto, giusto la vigilia dell’Ascensione, gli affittuari dei campi dovevano donare al padrone due polli. Siccome nessuna norma fissava il sesso e l’età dei volatili, i contadini portavano al padrone le loro galline più vecchie. A furia di provare e riprovare, qualcuno riuscì a cuocere e rendere gustoso questo pollame in età: nasce così la gallina ubriaca, cotta in grasso di prosciutto, pomodori, aglio, cipolla e vino bianco o rosso di buona qualità.

Aggiunta superflua, quest’ultima, perché la città, oltre al duomo, ha un altro piccolo monumento: il celebre fiaschetto d’Orvieto, noto con il nome di Pulcianella, che racchiude un vino apprezzato dagli intenditori di tutto il mondo. Veramente sarebbe più corretto dire vini, perché si passa dal rosato procànico al delicato verdello; dal tenero grechetto al secco malvasìa.

Vino per ogni occasione, quindi, e diverso a seconda delle pietanze, a partire dall’umile bruschetta, che acquista dignità regale con l’olio extravergine di oliva della terra umbra. Un olio tanto buono da essere il preferito da Marco Pierre White, cuoco fra i migliori del mondo.

Ma poi si continua con un piatto di salumi di maiale, da sempre uno dei vanti di questa terra: prosciutto, finocchiella, lonza, salsicce agliate, capocollo, mortadella e così via. Grande attenzione merita pure la porchetta cotta allo spiedo e insaporita con aglio e finocchio selvatico.

E non è finita. Altre due grandi feste ispirano la gastronomia locale. Per la Pasqua, per esempio, si prepara la torta al formaggio (rigorosamente pecorino di Norcia) in ossequio a un rito antico. A Natale, invece, manca il meglio in tavola se non si conclude con le pinoccate e il torciglione o torcolo. Le prime sono losanghe con pinoli, tanto di color bianco quanto bruno, avvolte in cartine colorate alla maniera delle caramelle. Sin dalle origini, dal Quattrocento, si sposano perfettamente con un vino altrettanto antico, seppur raro: la Vernaccia di Cannara. Il torcolo invece è una grossa ciambella a forma di vipera, che piace moltissimo ai bambini. Di solito si comincia a tagliarlo dalla coda per arrivare poi a mangiare la testa, in una giocosa esecuzione. Con questo dolce è d’obbligo il Sagrantino di Montefalco passito.