Napoli

Ornamento di separazione

CITTÀ LABORATORIO DELLA CULTURA E DELLA GIOIA DI VIVERE; TRIPUDIO DI BELLEZZA E DI GENTE.

Il fascino irresistibile e complicato di Napoli sta nel trovarvi uniti in poco spazio i più vari elementi della bellezza e le mille culture. E la malia continua nel suo essere apparentemente disordinata, nel popolo espansivo, loquace, canoro, profondamente buono, nel senso di euforia che danno la mitezza del clima, la vivida luce e la vivacità dei colori. La “grande, luminosa e gentil città”, come la chiama Giambattista Vico.

Luogo incantato, in complicità con le sirene. Disperata per non aver saputo fermare Ulisse in viaggio verso Itaca, Partenope si dà la morte. La leggenda dice che sono le onde a sospingere il suo corpo verso gli scogli, dove in suo onore alcuni coloni greci fondarono la città di Partenope. E la chiamano Neapolis, città nuova.

È al mare quindi che Napoli deve la sua creazione o, meglio, ai suoi sei mari, come li descrive Matilde Serao: il mare del Carmine, scuro e tormentato; il mare del Molo, dove ferve la vita; il mare di Santa Lucia, quello del popolo navigante; il mare di Chiatamonte, le cui onde si slanciano piene di collera; il mare di Mergellina, che ride; quello di Posillipo, che Dio ha creato per i poeti e i sognatori.

Mergellina, Posillipo, le alture del Vomero. Se si costeggia in barca la riva di Posillipo, ci si chiede come faccia la collina a non crollare per tutto quello che le hanno costruito sopra. Ma si capisce perché il napoletano non vada in villeggiatura, bastandogli Posillipo per l’estate, i boschi vomeresi per la tarda primavera e il primo autunno. Un vivere pieno, un vivere cantato, ieri con Roberto Murolo e Renato Carosone; oggi con Pino Daniele, Edoardo Bennato, Teresa De Sio; domani, il sax di Daniele Sepe e gli Almamegretta, in un continuo fermento di sound.

Un vivere pieno, talvolta “imprecato”. Quel sangue ribollente nelle ampolle di san Gennaro è il simbolo che lega l’esistenza di ogni napoletano alle più oscure sorgenti della vita. Dolcezza che in qualsiasi istante può trasformarsi in tragedia. Ogni ritardo nello scioglimento del sangue significa abbandono, ed ecco allora la preghiera partenopea, l’invocazione anche colorita, impertinente. La vis comica, d’altronde, a Napoli genera tutta una scuola, in un percorso che va da Scarpetta alla famiglia De Filippo, dal principe Totò a Massimo Troisi.

Foto © ValerioMei

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È al mercato della Pignasecca, in un turbine di motorini, panini, pizze al taglio, banchetti e immagini religiose che Napoli rivela il lato anarchico e pittoresco del suo carattere.

Ha da sempre un cuore tipicamente popolare, Spaccanapoli. Coi suoi minuscoli slarghi e le sue statue di madonne e santi, coi suoi monumenti e le sue chiese, è da considerarsi un vero e proprio museo all’aperto e anche un luogo ricco di attività artigianali e commerciali.

“Sua Maestà ha incominciato a montare il Santo Presepe. Con le sue regie mani ha disposto la capanna, ha architettato le lontananze, ha situato i pastori”. Il re in questione è Carlo III di Borbone, e questo avviso viene letto ai sudditi nella prima metà del Settecento. L’hobby dei napoletani dell’epoca, e anche di quelli attuali, è infatti la costruzione dei presepi, e uno dei più importanti centri di tale attività si trova nella strada di San Gregorio Armeno, in piena Spaccanapoli. Quanto al fervore d’un tempo, non tutto è andato perduto. Sono infatti rimasti gli Amici del Presepe, un’associazione di fedelissimi che, volendo tener viva la tradizione, bandisce ogni anno concorsi premio per i migliori presepi.

Popolare e solenne: non dobbiamo infatti dimenticare che Napoli è stata, con Venezia, Vienna e Parigi, una grande capitale. Ogni epoca ha qui lasciato la sua impronta.

Così, in tema di solennità religiosa, ecco il duomo gotico, la maestosa chiesa del Gesù Nuovo, barocca e ridondante di stucchi, marmi e affreschi, o la chiesa di Santa Chiara (con annesso monastero), celebre soprattutto per il chiostro maiolicato, grande e suggestivo, immortalato in una canzone.

Parecchie le residenze reali: il normanno Castel Capuano, il Castel dell’Ovo, fortezza incantata che scende dentro il mare, il Castel Nuovo o Maschio Angioino, rinascimentale e luminosa corte di letterati e artisti, il palazzo Reale, eretto nel 1600 per ospitare Filippo III, re di Spagna, per una visita a Napoli che poi non avvenne mai…

Napoli significa grande tradizione teatrale, che culmina nel Teatro San Carlo, uno dei più famosi teatri lirici del mondo, di cui Gioacchino Rossini e Gaetano Donizetti furono direttori artistici.

E oggi? Oggi c’è tutto questo e qualcosa ancora.

Per i napoletani il pasto è da sempre una funzione più collettiva che personale. Non vi è festa, religiosa o pagana, che non si esprima con il cibo consumato insieme per strada.

Qui, dove la tradizione del fast food per strada è antica di secoli, i popolarissimi maccaronari, alla fine del Seicento, servivano all’aperto i vermicelli cucinati nelle capaci caldiere. A fianco tenevano un piatto con una piramide di formaggio grattugiato solcato da righe nere di pepe. Il pomodoro arriva in città più tardi, solo dopo l’Unità d’Italia. Allora i maccaronari si organizzano con una seconda caldaietta dove sobbolle la conserva di pomodoro. Il cliente può così scegliere tra una pasta allattante (bianca) o “alla Garibaldi”, cioè rossa come la camicia dei soldati dell’eroe dei due mondi.

È con i pomodori che si scatena la fantasia gastronomica del napoletano. I preferiti sono quelli penduli del Vesuvio, che vengono ravvivati di sapore con l’aggiunta di olive, capperi, erbe aromatiche, pesce. Anche la pasta cambia formato spesso, visto che oggi se ne contano circa 127!

Gragnano, piccolo centro vicino a Napoli, che vanta un clima ideale per l’essiccazione, si trasformò in ombelico della produzione. Già nel 1700 si contavano almeno trenta mulini e, per festeggiare l’annuale visita del Re, si produceva ogni volta un nuovo formato.

L’arte bianca venne favorita dal conte di Sarno a Torre Annunziata nel XVI secolo. Si sviluppò una fiorente industria alimentare (che prosegue tuttora) specializzata nella pasta secca, che coinvolse tutta la popolazione, non foss’altro perché la pasta, fino a qualche decennio fa, era stesa ad asciugare nelle strade, e i fili pendenti degli spaghetti costituivano un motivo costante e caratteristico del paesaggio.

Spaghetti, maccheroni, vermicelli, dunque, come li si voglia chiamare, ma pur sempre pasta; con un precetto: i maccaroni hanno da essere vierdi vierdi come la frutta duracina, insomma, ben al dente.

Ma prima, ancor prima, la gente comune che non poteva mangiare maccheroni (perché considerati genere di lusso) doveva accontentarsi di una minestra di verdure, broccoli per lo più: da qui l’epiteto di “mangiafoglia” attribuito al popolo partenopeo.

Per esempio, sul pignato maritato è un piacere soffermarsi anche se si tratta di un piatto minore, ma della miglior tradizione. La vivanda mescola torzi, ossa mastre e carne, cioè brodo di carni varie, cotiche e pezzi di salame, broccoli di foglia, broccoletti, cicoriette, scarole, cavoli cappucci e torzelle, che sono una varietà di broccoli anch’esse. Questa minestra pasquale, festiva e domenicale, fu per tanti secoli l’emblema gastronomico di Partenope, assai prima dei maccheroni.

Giusto per menzionare altri piatti in cui le verdure sono sempre presenti, val la pena di ricordare la salsiccia con friarielli saltati in padella o la braciola ripiena di friarielli (una specie di cima di rapa che esiste solo a Napoli), o la nota parmigiana di melanzane, napoletanissima nonostante il nome. Oppure, per l’amante delle patate, c’è sempre a disposizione il gattò: un piatto a base di patate, formaggio e salame che pare fosse, in passato, una specialità delle monache clarisse.

Ma la città è nota anche per la quantità di piatti in cui il pesce, freschissimo, primeggia. Uno per tutti: il pignatiello ‘e vavella, il pignattino della nonnina, con mazzancolle, frutti di mare, polpetti e pomodoro. Tornando all’eredità dei nostri avi, dalla gastronomia greco-romana ci giunge la tradizione di friggere i piccoli pesci infarinati insieme con le alghe: è questo un tipico antipasto napoletano.

E ancora fritti, dolci questa volta. Nel secolo scorso a Napoli si vendevano a quintali le zeppole, cotte nelle friggitorie all’aperto dei vicoli o commercializzate dagli zeppolajouli girovaghi che si fermavano nei luoghi più frequentati, attirando con i loro richiami donne, monelli e lazzari, gli sfaccendati. Esistevano già allora due tipi di zeppole. Quelle di San Giuseppe, rotonde e preparate con farina, acqua e vino bianco, vengono fritte e poi passate nello zucchero e cannella o nel miele. Le rettangolari, invece, sono le zeppole di farina di mais, tagliate a sottili rettangoli e ricoperte di farina di frumento.

Foto © canadastock

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L’inventiva e la gioiosità napoletane sembrano rivivere negli struffoli, forse il dolce più tradizionale che si prepara per la solennità del Natale. È una contenuta piramide di palline di pasta fritte in strutto, legate con zucchero e miele, frutta candita spezzettata, profumata con l’acqua di fiordarancio e l’acqua di millefiori. Pare che gli struffoli siano da attribuire ai primi coloni greci; il greco strugolos, infatti, definisce qualcosa di rotondo, come sono appunto gli struffoli, e certamente la dolceria locale non nasconde gli influssi orientaleggianti, come stanno a indicare i frequenti ricorsi ai canditi e al miele. Non mancano altri piccoli dolci, magari dai nomi che rivelano l’attenzione e la devozione con cui venivano preparati dalle suorine dei monasteri per offrirli ai vesuviani festanti, come i susamielli, con la loro stramba forma a S, che vedono la presenza di grani di sesamo (susamielli, in napoletano), oggi sempre più sostituiti dalle mandorle.

Se gli struffoli rimangono il simbolo natalizio partenopeo, gloria della dolceria pasquale napoletana è la trionfale pastiera, ormai adottata per ogni occasione. Tre sono i componenti privilegiati, tutti sacri: il grano, simbolo di ricchezza; le uova, emblema della vita; la ricotta freschissima di pecora, a rappresentare l’abbondanza del gregge. In sostanza, il dolce altro non è che una pasta frolla (pastiera: pasta di ieri!) con ripieno di ricotta, chicchi di grano bolliti nel latte, aromatizzata con cannella e profumata con acqua di fiordarancio, uova, vaniglia, canditi; cotta al forno, viene poi cosparsa di zucchero a velo. Si mangia dopo un paio di giorni di riposo.

Turisti e napoletani consumano ormai ogni giorno dell’anno generose fette di pastiera, squisite sfogliatelle ricce o lisce variamente farcite, soffici babà al rum, accompagnati dall’irrinunciabile tazzulella ‘e cafè.

E la pizza? Se vogliamo rifarci al passato, troviamo nell’antica Grecia la maza, un impasto di farina d’orzo e acqua cotto sotto le pietre roventi così da diventare una focaccia grigia e dura, buona per accompagnare il companatico. E, visitando a Napoli il complesso sotterraneo di San Lorenzo Maggiore, è possibile soffermarsi dinanzi a un forno che è tanto simile a quelli delle pizzerie di oggi. Lo stesso termine “pizza” deriverebbe da picea, che in greco indica una sfoglia di pasta cotta direttamente su una superficie incandescente. Del resto esiste ancor oggi un’analogia tra il termine pizza e il sostantivo greco moderno pitta, indicante una ciambella, il quale è il termine ancora usato nel linguaggio comune calabrese per indicare una focaccia di pane.

Sono trascorsi più di cent’anni, ormai, da quel lontano giorno in cui il pizzaiolo Raffaele Esposito si recò da sua maestà, la regina Margherita, per portarle una nuova pizza, fumante e bianca di mozzarella. Il rosso del pomodoro, il verde della fogliolina di basilico a soddisfare un pizzico di orgoglio campanilistico.

Napoli, città laboratorio della cultura e della gioia di vivere; Napoli, tripudio di bellezza e di gente; Napoli e la sua anima. È qui a Napoli la festa.