Bari

Ornamento di separazione

UN PO’ METROPOLI E UN PO’ VILLAGGIO, GUARDA AL FUTURO SENZA DIMENTICARE LE TRADIZIONI, FRA CUI QUELLE DI UNA CUCINA STRAORDINARIA DI MARE E DI TERRA.

In certi periodi dell’anno la Puglia e Bari, suo cuore pulsante, si smaltano di tinte straordinarie, perfino troppo brillanti. Azzurro intenso del cielo, pietre bianche a tagliarne i contorni, verde degli alberi. Terra colma di influenze molto più slave che arabe, una lingua rapida, schioccante, ricchissima di immagini.

Seppure del Sud e quindi pacifica, la gente qui è frenetica sul lavoro, dotata di enorme rigore per quel che riguarda attività, commerci, sviluppo. La Fiera del Levante, per esempio, è una conferma di intraprendenza e attività, il più importante emporio europeo per gli scambi commerciali fra i Paesi dell’Occidente e il Medio Oriente e punto d’incontro economico, spirituale e politico.

Un tempo neanche troppo lontano le altre città del Sud accusarono Bari e i suoi abitanti di aver rubato le spoglie di san Nicola, trafugate da marinai baresi a Mira poco dopo l’anno Mille. Ufficialmente si trattava di salvare le reliquie dalle grinfie degli infedeli, ma quel che realmente accadde fu che la città, allora piccola, diventò la liaison fra Occidente e Oriente. Per secoli, infatti, giovani principi ereditari giunsero dalla Russia, e non solo, per visitare la tomba del santo.

Erano tempi di tradizioni. Tempi in cui, sui bastioni della città antica, si celebrava una festa che il popolo chiamava vidua, vidua, vedili, vedili, a ricordo del salvataggio della città da un assedio saraceno con l’aiuto delle galee veneziane del doge Orseolo II, che la liberò nel 1002.

Oggi la Bari di un tempo si è trasformata o, meglio, divisa in Bari vecchia e Bari nuova, due città lontane l’una dall’altra, anche se a separarle stanno soltanto una strada o un viale. Corso Vittorio Emanuele II segue, per esempio, il confine verso la città destinata ai commerci e prolungata da un bel lungomare che allinea una muraglia di uffici pubblici, con effetti di tipo metafisico. Testimonianza di confine: sull’ultima casa a destra del corso una lapide ricorda che in quel luogo nel 1813 fu posta la prima pietra della Città Nuova per decreto di Gioacchino Murat.

Foto © Gimas

Foto © Gimas

Ed è sui lungomari che aggirano la penisoletta che si protende la Città Vecchia, così bella in certi angoli da togliere il fiato. Vi si può entrare passando dal lungomare Imperatore Augusto alla piazza del Ferrarese in cui si tengono i vivacissimi mercati del pesce e della frutta.

Poco più avanti si apre piazza Gramsci, vecchio centro commerciale della città. Qui ecco la loggia a tre arcate del Sedile dei Nobili, con la torre dell’orologio.

Segue l’intrico di viuzze e vicoletti tortuosi che costituiscono il cuore dell’antica Bari: rustiche casette con scale esterne, nobili palazzine con leggiadre bifore, vetusti archi, balaustre e angiporti che compongono un gioco di prospettive e di chiaroscuri in un’atmosfera che riporta in pieno Medioevo.

La cattedrale, in stile romanico-pugliese, sorge sui resti del primitivo duomo bizantino di cui rimane, nella cripta, l’immagine della Madonna di Costantinopoli, secondo la leggenda dipinta dall’evangelista san Luca e portata a Bari da due monaci nell’anno 733.

La possente mole trapezoidale del Castello gareggia, tra sacro e profano, con l’imponente e austera bellezza della basilica di San Nicola. La cripta ne custodisce le spoglie, le veneratissime ossa da cui prodigiosamente stilla da secoli un liquido che viene chiamato Santa Manna.

L’atmosfera di vibrante animazione che si respira normalmente in città diventa eccezionale nel mese di maggio, con la spettacolosa festa popolare di San Nicola, in costume storico, che si protrae per tre giorni, con il Festival delle Bande Militari e con il Corso dei Fiori.

Un viaggiatore in cerca di impressioni qui scoprirà una stratificazione, una varietà, un’imprevedibilità con cui l’antico, a volte l’antichissimo, vive accanto all’utilitario, al pragmatico, al concorrenziale. E se è vero che ogni regione ha un luogo, un angolo che la riassume, la provincia di Bari trova questa sua sintesi nelle Murge dei trulli che sorgono, a gruppi o isolati, in tutta la Val d’Itria come fitti acini di un patriarcale grappolo.

Così Bari, un po’ metropoli e un po’ villaggio, guarda al futuro senza dimenticare le tradizioni, fra cui quelle di una cucina straordinaria di mare e di terra, secondo un antico equilibrio determinato più da ragioni di civiltà che di economia. Bisogna infatti sottolineare che, anche se il fattore terra-mare concorre a dare alla gastronomia dell’intera regione un indirizzo unitario che consiste nella disponibilità degli stessi alimenti, diverso è il modo di cucinarli.

Fa eccezione l’umile pane per cui la Puglia va famosa. Artigiani, pastori e contadini conservano immutata in esso la loro fiducia. La frisedda rappresenta il capolavoro della sobrietà di un popolo abituato alle feste della tavola come ai prolungati digiuni. La ciambella, dal buco stretto, è fatta di farina integrale o bianca; infornata e cotta, viene tagliata in due in senso orizzontale e riposta in forno a biscottare. Per prepararla ci vuole poco: basta immergerla in acqua fredda e, quand’è bene inzuppata, si condisce con olio, sale, pepe; facoltativa l’aggiunta di pomodoro e cipolla.

Se i pomodori, di piccola taglia, tondi, lucidi, rossi, appesi a grappoli ai muri imbiancati a calce, sono un altro simbolo della regione, la cipolla impone la sua presenza, in particolare nella varietà dei lampascioni. Simili per globosità e grossezza ai loro nobili cugini, gli scalogni, hanno l’aspetto dei parenti poveri per colpa dei residui di terriccio che restano loro tenacemente appiccicati. Se ne consiglia un lavaggio breve, affinché non perdano l’amaro. Qui, a Bari, questi cipollacci selvatici si fanno lessi e accomodati in insalata, arrostiti sulla brace o in agrodolce con il vincotto. Si adoperano anche per comporre una gustosa tiella, segno della dominazione spagnola in Puglia, ossia tegame al forno di lampascioni, patate e funghi. Ma la composizione delle tielle non è legata a regole fisse, e piuttosto viene affidata all’estro della massaia, potendo introdurre o levare ciò che si vuole. Però le patate non devono mai mancare.

Tra i primi piatti merita un elogio l’antichissima ‘ncapriata, una specie di minestra di fave secche, sgusciate e cucinate in acqua corretta di sale. A cottura avanzata vengono razzolate, cioè tramenate e battute con il cucchiaio di legno in modo da ridurle in purea, si condiscono con olio crudo e si accompagnano con un contorno di cicoria amara, cime di rapa, peperoni al pomodoro o lampascioni. Il piatto, a seconda dei luoghi, prende nomi diversi, ma su tutti predomina quello di favi e fogghi.

Con molta semplicità la cucina popolaresca non si è mai posta il quesito: primo o secondo piatto? L’importante era poter mettere in tavola una scodella ben piena e, se c’erano soldi, mangiare anche dell’altro. Le fave, infatti, essiccate e conservabili, erano risorsa dei villici e dei popolani durante l’inverno e, fin dagli aurei giorni della Magna Grecia, fornitrici di proteine vegetali per il Sud, come al Nord lo erano i fagioli.

Se le verdure sono protagoniste indiscusse della gastronomia, esse si accoppiano spesso con i piatti di pasta. Sebbene l’incalzante pubblicità stimoli al consumo del prodotto industriale, non poche massaie, specie nei piccoli centri, continuano a preparare in casa svariati tipi di pasta, cavatieddi e orecchiette in primis, ai quali corrisponde una nutrita schiera di condimenti.

Il più popolare dei ragù di pesce è invenzione barese: si chiama ciambotto e si ottiene mescolando varie specie ittiche, da cui il nome di “miscuglio”, appunto.

Con un po’ d’olio e mandorle tostate e spezzettate in accompagnamento alle fettuccine, ne esce un primo succulento che nel barese chiamano le sbreffate.

Un condimento più complesso è riservato alla specialità delle grandi occasioni: le lasagne di San Giuseppe, piatto di rito per la festa del santo che, per un giorno, rompeva il regime di astinenza quaresimale e induceva al piacere delle tavole imbandite. Si tratta di un pasticcio di lasagne condite con due salse: una a base di pomodori, l’altra di acciughe, mandorle e pane tostato.

A san Giuseppe è dedicato pure un dolce, le sfogliate, nobilitazione della pasta dolce con l’uva sultanina e le locali mandorle.

La carne che domina la gastronomia pugliese è ovina, dalla bontà indiscussa. Entrando in una qualsiasi macelleria di paese, accanto al frigorifero si trova – cosa insolita – un vero e proprio forno di pietra in cui arrostire le tacche, i pezzi di agnello, e mandarle a cottura, infilzate sugli spiedi, senz’altro condimento che un po’ di sale.

Oltre a questo sistema semplice e sbrigativo, eccone altri più elaborati. Uno per tutti: carducci con l’agnello. L’agnello, ridotto a tranci e posto a rosolare nell’olio in compagnia dell’aglio, viene coperto di cardi, unitamente a filetti di pomodoro, uova, formaggio pecorino e aromi vari per dare vita a una caratteristica pietanza pasquale.

Foto © paolo airenti

Foto © paolo airenti

La grande quantità di greggi fa prosperare l’arte casearia. Di largo consumo è la ricotta fresca con i suoi derivati: la ricotta forte e quella tosta, o cacioricotta, da grattugiare. La ricotta forte, in dialetto scant, si ottiene manipolando la fresca con una spatola di legno ogni giorno per un mese, dandole piccole dosi di sale e talvolta di peperoncino in polvere; nasce una crema giallina o rossiccia, piccante, da spalmare sul pane o da inserire in pizze o minestre.

Apice di bontà, la tradizionale burrata. Questa saporosa mozzarella è sempre più difficile da reperire, sia per l’aumento della richiesta sia per la diminuzione delle mandrie di bufale, molto diffuse prima della bonifica del Tavoliere. Questi animali, infatti, sopportano bene l’aria pesante delle plaghe infestate dalla malaria…

Il mare barese offre poi pesci dal sapore superlativo: polipetti che si possono mangiare crudi, splendide orate e sogliole, dentici sopraffini e scampi. Per ognuno esistono più ricette, ma è soprattutto un “trattamento riservato”, rivolto a ottenere il meglio, che incuriosisce. I polipetti, per esempio, bisogna batterli in terra o contro gli scogli; a tale operazione i pescatori baresi ne fanno seguire una seconda: li arricciano scuotendoli energicamente entro cesti di vimini e bagnandoli con acqua marina. Battuti e arricciati possono essere consumati crudi o fritti, infornati o lessati senz’acqua e fatti in insalata. La casseruola di polipetti costituisce un caratteristico ragù a base di olio, cipolla, vino bianco secco, pepe, salsa o pomodori freschi e prezzemolo. Serve per inzupparvi il pane o per condire la pastasciutta.

A questo punto un po’ di dolcezza non guasta di certo, anche se dobbiamo solamente ricordare la bontà dei gelati al forno, una famosa specialità dei primi anni del Novecento creata dal pasticciere barese Felice Lippolis. Consistevano di due fette di pan di Spagna appaiate a sandwich, farcite di gelato, coperte di mantecato e frutta candita; prima di servirli, li si passava brevemente in forno. Morto Lippolis, questi gelati scomparvero.

Tra gli ottimi dolci attuali: zeppole, carteddate, castagnedde, taralli ecc.; molti sono comuni alle cucine campana, calabrese e lucana.

Sotto Natale, a Bari è d’uso approntare le carteddate, da carteddatu, gibboso, curvo. Si tratta di strisce di pasta ottenuta intridendo farina con olio e vino bianco. Tagliate larghe almeno due centimetri, pizzicate in modo che si pieghino a barchetta e arrotolate a chiocciola, si possono cuocere al forno o friggere in padella. Nel primo caso si passano nel vincotto e si cospargono di cannella, nel secondo, imbibite di miele, si spolverizzano di zucchero cannellato.

Proviene infine dal vincotto il panvinesco, che viene preparato con il semolino per ricavarne dolcetti tipici della vendemmia, e che si può tuttavia ottenere anche dal cotto di fichi.