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Osservai la ragazza con maggiore attenzione e lei ricambiò con un'occhiata insolente. Daniel aveva avuto di sicuro un motivo per scegliere Miss Tess Parsons, scontrosa ragazza londinese, come mia possibile aiutante. Sarei stata più contenta se si fosse consultato con me, mi avesse avvisata, o almeno le avesse affidato un messaggio da consegnarmi, tuttavia era abituato ad agire in base ai suoi tempi e ai suoi scopi.

«Capisco» dissi con freddezza, rendendo più acceso il lampo di sfida nello sguardo di Tess. «Non mi avete spiegato cosa sapete fare. Che genere di lavoro avete svolto in passato?»

«Pulivo pavimenti.» Gli occhi castani esprimevano determinazione. «Però ormai ho smesso. Se mi insegnate a cucinare, avrò un posto migliore.»

Daniel si era davvero rimbambito. Cosa credeva che potessi combinare con quella permalosa?

Strizzai le palpebre. «Occorre chiarire un punto, cara ragazza. Questa è la mia cucina. Non importa se Lord Rankin è il padrone di casa o se la zia della sua defunta moglie la gestisce per adesso. Qui dentro comando io. Voi farete quello che vi dirò, quando ve lo dirò. Inteso?»

Lo sdegno esplose nella sua espressione. Era una giovane donna pronta a sfidare il mondo intero. Apprezzavo quell'atteggiamento e in parte lo condividevo, tuttavia non aiutava se occorreva mettere a tavola un pasto.

James le assestò un'altra gomitata e lei mi rivolse un riluttante cenno di assenso. «Ho capito, missus

«Mrs. Holloway» la corressi. «Vi permetterò di aiutarmi a preparare la colazione e, se andrà tutto bene, chiederò alla signora di riflettere sull'opportunità di assumervi. È tutto.»

Da come avvicinò le sopracciglia, pensai che stesse per girare sui tacchi e uscire a passo di marcia, con il naso in aria. Invece, quando James si schiarì la gola, si esibì in un'altra maldestra riverenza. «Sì, Mrs. Holloway.»

«Bene. Innanzitutto appendete soprabito e cappello, poi andate nel ripostiglio della biancheria a prendere un grembiule pulito. Non toccate nient'altro. E, prima di iniziare, lavatevi le mani nel retrocucina. Sul tavolo c'è una ciotola di uova. Spezzatele in un'altra scodella. Non voglio trovare frammenti di guscio e nemmeno uova marce insieme alle buone. Quelle guaste vanno in una tazza a parte, da svuotare nel secchio dell'acqua sporca.»

Tess si inchinò ancora una volta, con un movimento simile a uno schiaffo in piena faccia. «Sì, Mrs. Holloway» disse con tutta la superbia di cui era capace. Si sbottonò quindi il soprabito, se lo sfilò, vi cacciò in tasca i guanti e, insieme al cappellino, lo appese a un piolo fissato alla porta del retrocucina. Infine si guardò in giro. «Dov'è il ripostiglio?»

Io emisi un profondo sospiro. «James, mostraglielo.»

Il piccolo impudente mi scoccò un sorriso e guidò la ragazza attraverso la cucina, fino al passaggio che portava agli altri locali del seminterrato. Dopo che le ebbe indicato la direzione, lo presi da parte.

«Ne è sicuro?» gli domandai sottovoce.

«Papà non fa mai niente senza un motivo, Mrs. H.»

No, in effetti. Il giorno prima avevo accennato alla mia frustrazione e Daniel mi aveva mandato Tess. Mi chiedevo come fosse riuscito a trovarla in così poco tempo e se avesse persone di riserva in tutta Londra, in caso di necessità. Mi domandai anche se considerasse me una di queste.

Tess uscì dal ripostiglio della biancheria, scuotendo un grembiule. Si fermò quando vide me e James sulla soglia. «Va bene?» si informò infilandoselo dalla testa e annodando i nastri dietro di sé. «Devo occuparmi delle uova.»

James sorrise radioso per avere compiuto la missione. Si sfiorò il cappello. «Buona fortuna, Mrs. H.» mi augurò, poi attraversò il retrocucina e uscì dalla porta di servizio.

«Uno stronzetto sfacciato, eh?» commentò Tess, seguendolo con lo sguardo. «Suo padre non è molto meglio.»

Con un notevole sforzo, mi trattenni dal chiederle come mai conoscesse Daniel e la guardai accigliata. «Evitate i termini scurrili mentre vi trovate sotto questo tetto» le ordinai. «Altrimenti Mr. Davis, il maggiordomo, vi caccerà via all'istante. È una dimora rispettabile.»

«Oh, scusate» rispose altezzosa. «Siete proprio la Regina d'Inghilterra, eh?»

«Nella mia cucina, sì» confermai. «Adesso preparate le uova. La colazione va servita subito.»

Dopo avere mandato in sala i piatti coperti tramite l'elevatore per vivande, dovetti ammettere che Tess imparava in fretta. Era stata svelta a versare le uova nella scodella, senza pezzetti di guscio, e aveva trovato soltanto un uovo guasto, identificandolo dall'odore ancora prima di romperlo.

Io sbattei le uova a schiuma e preparai una serie di frittatine, ognuna dal gusto un po' diverso: alcune con erbe aromatiche, altre con pancetta sminuzzata e dadini di formaggio, e tre con frutta e crema. La gente del piano di sopra avrebbe avuto di che scegliere. I Bywater avevano un sano appetito, del che ero grata, e sapevo che tutte le omelette sarebbero sparite.

A queste aggiunsi pancetta rosolata a fuoco vivo, quindi presi dal forno una teglia di funghi con burro e pepe e li versai nel piatto di portata che Tess mi porgeva. Notai con piacere che lo teneva ben fermo, persino quando le spruzzai le mani di burro caldo. Si lasciò sfuggire un'imprecazione, ma io scelsi di ignorarla come premio per non avere lasciato cadere i funghi.

Lei mi aiutò a sistemare i piatti di portata nell'elevatore e io le spiegai come azionare il meccanismo.

Infine Tess tirò il fiato e si asciugò la fronte. «Uff, è fatta. Cucinare è una bella fatica, eh?»

«Non abbiamo ancora finito, ragazza mia» l'avvisai con un certo compiacimento. «Adesso prepariamo la colazione per il personale e cominciamo ad approntare il pranzo.»

Lei gemette, ma poi si girò a guardarmi.

Le mostrai il funzionamento del fornello, con cinque piastre per cuocere più una sul retro per scaldare, e dei due forni, uno su ogni lato della caldaia. Ero piuttosto orgogliosa della mia cucina, benché non avessi alcun merito nella scelta; avevo la possibilità di infornare un filone di pane, arrostire la carne allo stesso tempo e, intanto, rosolare parecchie pietanze.

Tess osservava con scarso interesse, però assimilava. Quindi ruppe altre uova per la colazione della servitù. Io vi aggiunsi un po' di funghi e di pancetta e qualche dado di patate per farne un tortino. Affettai io stessa le patate ? non intendevo cedere i miei coltelli migliori a una ragazza che conoscevo appena da un'ora ? però lei, senza difficoltà, spezzò i funghi e sbatté le uova secondo le mie istruzioni.

Una volta preparato il tortino, ne lasciai una parte nella saletta della servitù e vi sistemai accanto una pila di piatti. C'era sempre tanto da fare al mattino, soprattutto in quel periodo, dunque i domestici non si sedevano insieme a tavola per la colazione e mangiavano qualche boccone quando potevano.

Quindi portai nella stanza della governante due piatti coperti, uno con il resto del tortino e uno con pane tostato, chiedendo a Tess di seguirmi con le stoviglie. Dopo averli posati sul tavolo, mi sedetti con piacere e indicai alla ragazza di servirmi una porzione. Lei buttò qualche cucchiaiata di uova, pancetta, funghi e patate in un piatto e lo spinse verso di me, poi ne riempì uno per se stessa, senza aspettare il mio permesso.

Decisi di non ammonirla, poiché aveva già svolto molto lavoro senza la promessa di una paga e neppure di un impiego. Potevo almeno concederle un pasto caldo.

Tess prese con la forchetta una piccola quantità di tortino e l'avvicinò alle labbra, dubbiosa. Poi, con un guizzo della lingua, si mise in bocca un po' di uova e patate. Lo rigirò per qualche istante e infine cambiò espressione e fece sparire l'intera forchettata. Non aveva nemmeno inghiottito quel boccone che ne addentò un altro.

Io mi soffermai a guardarla. A capo chino, lei trangugiava il cibo a gran velocità, come un cane timoroso che gli venisse portato via.

«Piano, cara» la esortai con gentilezza. «Rischiate di stare male.»

Tess alzò lo sguardo, cacciandosi in bocca un pezzetto di patata rimasto sulle labbra. «È buono, missus» commentò mentre masticava. Quindi deglutì e si raddrizzò, rossa in volto, vergognandosi forse della disperazione con la quale si era abbuffata. «Scusate, Mrs. Holloway.»

«Grazie» risposi con la modestia abituale. «È un piatto semplice.»

Lei annuì e tornò a magiare. Allungò una mano per prendere una fetta di pane imburrato e la ingollò dopo l'ultimo boccone di uova.

Senza dubbio era affamata. Era magra, quasi ossuta. Era facile immaginarla per strada che si cacciava in bocca gli avanzi che trovava, a testa bassa per difenderli da chiunque minacciasse di sottrarglieli.

Venni mossa a pietà. La sua diffidenza nasceva dall'orgoglio e dalla paura, compresi. Una giovane sveglia, che si era ritrovata in brutti frangenti. Non era insolito a Londra, ammisi con tristezza. Mi ripromisi di estorcere la sua storia a Daniel.

I suoi aspetti più spinosi potevano essere smussati, decisi. Avrei chiesto a Lady Cynthia di consentirmi di tenerla come aiutante.

Secondo quanto aveva affermato Lady Cynthia, saremmo andate dalla sua amica Clementina, Lady Godfrey, appena terminata la colazione, invece rimandammo la visita a dopo il pranzo. Nei suoi piani, non aveva tenuto conto che, anche se a lei piaceva alzarsi alle otto e, dopo mangiato, andare a cavalcare al parco, la maggior parte delle signore restava a letto fino al pomeriggio. Mrs. Bywater era abituata a fare colazione a tavola insieme al marito, invece che nella propria camera, tuttavia non era una tipica abitante di Mayfair.

Fummo pronte per uscire alle due, ma questo mi mise in agitazione, poiché avevo bisogno di rientrare presto per iniziare a preparare la cena.

Spiegai a Tess quali ingredienti radunare e che verdure pelare e tagliare; non tutte, però, perché il sapore di alcune era migliore se si affettavano all'ultimo momento. A quest'affermazione, lei corrugò la fronte perplessa, tuttavia non potevo trattenermi per accertarmi che avesse compreso.

Sir Evan Godfrey e la moglie Clementina abitavano in Park Lane, appena dopo Upper Grosvenor Street, accanto alla Grosvenor House, una delle residenze più lussuose di Londra. La dimora di Sir Evan non aveva il grandioso colonnato di quella vicina, ma in compenso era nascosta da una macchia di alberi, intorno a cui girava il viale di accesso, e sembrava una villa di campagna nel cuore di una delle zone più trafficate della città. Si ergeva isolata ed era più moderna di quelle affacciate sulle piazze di Mayfair. Progettata in un curioso stile indiano, aveva archi a sesto acuto e cupole a cipolla, forse un tentativo di somigliare al famoso Taj Mahal.

Cynthia raccolse le gonne ? per l'occasione aveva indossato un vestito ? e saltò giù dalla carrozza appena si fermò, con costernazione del lacchè di Sir Godfrey, che aveva sistemato uno sgabello imbottito sotto la portiera e teso la mano per aiutarla a scendere.

Rimase ancora più sconcertato quando mi vide in abito da lavoro grigio e modesto cappellino in tinta. Gli scoccai un'occhiata feroce, che risvegliò all'istante il suo rispetto, e gli consentii di offrirmi assistenza: avevo bisogno di un appoggio e di una mano ferma. Lady Cynthia, snella ed energica, si stava già dirigendo all'ingresso a passi decisi.

Non ero abituata a entrare nelle case di lusso dalla porta principale, ma lei proseguì senza indugi. Io la seguii con le mani ripiegate sulla borsetta, mascherando l'imbarazzo.

Lo stile orientale continuava anche all'interno. Il vestibolo aveva un soffitto altissimo piastrellato di azzurro, rosso e arancione, dal quale pendeva una grande lanterna traforata, che sarebbe stata bene in un harem. Un arco a punta dava accesso al corridoio principale, adorno di alti vasi decorativi, drappi di seta, piume di pavone fissate alle pareti e un'incredibile quantità di fiori. Erano tutti tropicali, alcuni di un vivo color arancio, simili a uccelli, altri scarlatti, a forma di enormi papaveri, altri ancora blu e gialli. I costi per sostituirli ogni pochi giorni con boccioli freschi, provenienti da una serra, dovevano essere esorbitanti. Quand'anche Sir Evan li avesse coltivati dietro la dimora, avrebbe dovuto sostenere spese spropositate per mantenere piante abituate al caldo del subcontinente.

La balaustra dello scalone sembrava di marmo, ma io immaginai che fosse di gesso dipinto, poiché la pietra sarebbe stata troppo pesante. Un maggiordomo anziano e solenne, in attesa ai piedi della scala, salutò Lady Cynthia e ordinò alla cameriera appena comparsa di prendere in consegna il nostro vestiario.

Dopo avere consegnato scialle e cappello, Lady Cynthia salì con leggerezza i gradini, poiché conosceva la strada. Io preferii tenere la corta giacca e il cappellino per non mostrarmi troppo disinvolta a casa di un nababbo. Non era un posto per me, quindi era meglio lasciare intendere che mi sarei trattenuta poco.

Rivolsi al maggiordomo un cenno cortese e lo ringraziai chiamandolo per nome: Mr. Brampton. Io non lo conoscevo, ma Mr. Davis sì, e mi era nota la cuoca di casa. Non aggiunsi altro; sarebbe stato inappropriato, poiché ero ospite della sua signora. Lui annuì in risposta, con gli occhi acquosi che esprimevano sconforto e comprensione.

Lady Godfrey ? Clementina ? ci ricevette in un salottino libero dalle decorazioni esotiche del resto della dimora. Un sofà dallo schienale squadrato faceva coppia con una poltrona Morris, di quelle moderne dalla spalliera regolabile. Sembrava molto usata, poiché il rivestimento di velluto era lustro e liso e in fondo al cuscino del sedile si notava un piccolo strappo, seminascosto. Un secretaire verticale in quercia lucida, con l'avvolgibile aperto, lasciava in mostra una serie di nicchie e mensole zeppe di carte.

Alle pareti erano appese fotografie. Si vedevano bambini dagli occhi sbarrati, un gruppo di una dozzina di persone con espressione annoiata e un ritratto della stessa Clementina in una posa artificiosa: seduta in poltrona, con la testa girata da un lato, si chinava con eleganza sul mazzo di fiori che teneva tra le braccia. Un bel quadretto, però immaginai che rimanere immobile a quel modo, in attesa che la luce impressionasse la lastra, doveva essere stato un tormento.

«Clemmie.» Lady Cynthia le tese le mani mentre la padrona di casa ci veniva incontro.

Lady Godfrey doveva avere la stessa età dell'amica, poco meno di trent'anni, ed era snella come andava di moda tra le classi superiori. I capelli castano chiaro creavano un complesso insieme di treccine e riccioli avvolti intorno al capo, secondo uno stile molto più formale di quello rilassato del ritratto, dove erano raccolti in una morbida crocchia, con un lungo boccolo che ricadeva su una spalla. La fotografia doveva essere stata scattata parecchi anni addietro, forse poco dopo il debutto della donna, poiché la morbida freschezza del volto era ormai scomparsa.

Era ancora assai graziosa, con zigomi alti e occhi azzurri. Questi, però, erano circondati da rughe sottili; avevano inoltre l'aspetto tipico di chi aveva passato momenti strazianti. Mi chiesi cosa fosse capitato a una signora ricca e viziata, abituata al lusso, perché le si fosse impressa sul viso un'espressione simile, tuttavia avevo appreso, lavorando nelle dimore dei privilegiati, che nemmeno per loro la vita era sempre felice. Il denaro era utile per soddisfare i bisogni primari ? garantiva il cibo e un posto caldo in cui dormire ? ma la ricchezza e il potere provocavano a volte tanto dolore quanto ne alleviavano.

La padrona di casa sfoggiava un lezioso abito azzurro pallido, adorno di pizzi e nastri. Cynthia, in contrasto, indossava un sobrio abito grigio scuro, dal corpetto aderente, con abbottonatura rigida, bottoncini rotondi e colletto dritto di taglio maschile. Il sellino della sua gonna era piccolo e discreto, a differenza dell'ampia piattaforma di Lady Godfrey, sovraccarica di gale e merletti.

A mio parere Cynthia era la più bella delle due, con la sua semplice crocchia, tanto diversa dall'elaborata acconciatura dell'altra. La defunta sorella era piuttosto pallida e sbiadita, invece lei, a volte, assumeva un avvenente colorito rosato e le brillavano gli occhi se provava interesse per qualcosa.

Le due amiche si baciarono sulle guance, dichiarandosi tanto felici di vedersi, anche se Clementina era venuta a cena solo due sere prima. Si tennero a lungo le mani, lanciando esclamazioni, finché non ebbero concluso il rituale dei saluti.

«Ho portato Mrs. Holloway» annunciò infine Cynthia, indicandomi. «Ti avevo parlato di lei, ricordi? È di un'intelligenza straordinaria.»

Io rivolsi una riverenza alla signora di casa e tentai di mostrarmi rispettabile, anziché brillante. Lady Cynthia aveva la tendenza a esagerare.

Questa si lasciò cadere nella poltrona Morris, mentre Clementina si abbassava con grazia sul sofà. Io scelsi la sedia più semplice della stanza, dallo schienale arrotondato, con il sedile ornato da un motivo ricamato azzurro.

«Spiegale» Lady Cynthia esortò l'amica. «Le ho fornito qualche dettaglio, tuttavia non sono bene informata. Non temere, puoi parlare in piena libertà con Mrs. Holloway. È discretissima.»

«Mio marito crede di sapere cos'è accaduto» dichiarò con rabbia Clementina. «È convinto che io abbia preso dai muri quei vecchi dipinti e li abbia venduti per saldare i debiti. È vero che ne ho, però non sarei in grado di togliere dal chiodo un grosso quadro, completo di cornice, e smerciarlo dalla porta di servizio, no?»

«Esatto» concordò Cynthia. «Perché commettere un furto così evidente e non dare l'impressione che siano entrati ladri in casa? E comunque i debiti sono rimasti, giusto?»

L'altra divenne di un rosso spento, che non le donava molto. Il viso era a chiazze, gli occhi umidi. «In realtà sono stati pagati.»

Lady Cynthia si appoggiò allo schienale. «Buon Dio, da chi? Non da tuo marito.»

«No, infatti.» Clementina scattò in piedi e corse quasi fino al campanello. «Dov'è quella sciagurata con il tè?»

Poiché, a quanto sapevo, non lo aveva ordinato, non poteva insultare la cameriera per non averlo ancora portato. Tuttavia era chiaro che si era mossa per tentare di coprire l'improvvisa confusione.

Lady Cynthia prese fiato per rivolgerle una domanda, ma io scossi piano la testa senza farmi vedere dalla padrona di casa. Poiché era tutt'altro che stupida, lei inarcò le sopracciglia e chiuse la bocca.

Clementina strattonò il cordone come per chiamare i pompieri, provocando di sicuro un tintinnio assordante nella stanza della servitù. Rimase dov'era per qualche momento, come per calmarsi, e quando si girò aveva ripreso un colorito normale. Tornò a sedersi, lanciò un sorriso a Cynthia e si mostrò di nuovo cordiale. Intanto apparve la cameriera con il vassoio del tè.

La signora lo versò con grazia, cosa che parve calmarla ancora di più. Mi chiese come lo gradissi ? con lo zucchero, senza panna ? e mi porse la tazza quasi fossi stata un'ospite d'alto lignaggio.

Io bevvi un sorso, poi mi schiarii la gola. «Scusate, milady, ma sono scomparsi altri beni?»

«No» rispose lei con un lieve sussulto. «Non dopo l'ultimo dipinto.»

Lady Cynthia trangugiò una lunga sorsata, quindi ripose la tazza sul tavolino dalle gambe sottili, in mezzo a noi. Una ribalta del tavolo era segnata da un graffio. Era stata girata verso una sedia vuota nella speranza di nasconderlo, ma io lo notai lo stesso. «Dille tutto, Clemmie» la incalzò. «Per questo l'ho portata.»

La donna mi scoccò un'altra occhiata dubbiosa, tuttavia era evidente che si fidava di Cynthia, poiché posò la tazza, unì le mani e si lanciò nel racconto. «In totale mancano tre quadri, di notevole valore. Non me ne intendo molto di arte, però conosco i nomi famosi. Un Gainsborough di proprietà della famiglia di Sir Evan da secoli, un Rembrandt e un'opera di un pittore italiano, che però non ricordo. So che valgono migliaia di migliaia di ghinee. Sono scomparsi. Uno in gennaio, subito dopo Capodanno, uno in marzo e il terzo la settimana scorsa.»

Uno ogni due mesi, come se i ladri avessero agito secondo un programma. «A quanto mi ha riferito, Lady Cynthia, non ci sono segni di effrazione» ricordai. «Ne siete sicuri? Voglio dire, magari non ci sono tracce evidenti, come un vetro rotto o un chiavistello spezzato. Ma nel seminterrato era tutto a posto? La porta di servizio non era rimasta aperta per sbaglio? Oppure una finestra del solaio? I malfattori potrebbero anche avere scassinato le serrature.»

«L'ingresso principale ha una sbarra di ferro...» dichiarò con decisione lei, «... robusta e pesante, che viene tirata ogni sera da Mr. Brampton, il maggiordomo. È da decenni al servizio di mio marito e della sua famiglia e non si sognerebbe mai di lasciare la porta aperta di notte. Ed escludo che sia il responsabile dei furti. Ormai è decrepito, poveretto, e sarebbe incapace di levare un quadro pesante dal muro.»

Assentii con un cenno. In ogni caso non avevo sospettato del maggiordomo. Lo sconcerto era sincero nel suo sguardo e in effetti era quasi piegato in due dai reumatismi. Certo, avrebbe potuto assoldare altri per svolgere il lavoro fisico, tuttavia Mr. Davis ne parlava bene, e questo contava molto. «Anche la porta del retrocucina è sprangata?» chiesi.

«Cielo, non ne ho idea» ammise Clementina. «Mi informerò.»

Avrei provveduto io stessa, ma tenni a freno la lingua. «Mi sarebbe possibile, milady, vedere il posto dove erano appesi i dipinti? Magari potrei capire qualcosa in più riguardo ai furti.»

«Be', non vedo come potrebbe aiutare.» Guardò Cynthia per cercare conferma.

Questa scattò in piedi, scostando con un calcio l'orlo della gonna. «Certo che sì. Tuo marito vuole recuperare quelle dannate tele, no?»

«Sì, d'accordo.» Clementina arrossì mentre si alzava a sua volta. «Non imprecare davanti a Evan, per favore, altrimenti non ti lascerà più entrare in casa.»

Cynthia alzò le sopracciglia. «È qui? Credevo fosse impossibile trascinarlo via dalla City, almeno finché la Borsa è aperta.»

«Aveva appuntamento con il primo ministro e ha deciso di non spingersi oltre Whitehall, per oggi. È tornato per pranzo e da allora non è più uscito.» Il nervosismo di Clementina era evidente.

Io ricordai il giorno in cui mi ero accorta di detestare mio marito. Ero uscita a fare la spesa e quando ero rientrata nel nostro minuscolo alloggio, avevo scoperto che era a casa, invece che al lavoro. Avevo sentito il cuore sprofondare al pensiero di passare con lui il resto della giornata, oltre alla notte.

In quell'istante avevo compreso di non amarlo, di non apprezzarlo nemmeno. Prima la mia mente era stata annebbiata dall'entusiasmo e da idiozie sentimentali, che mi avevano impedito di vederlo davvero.

L'espressione di Clementina era simile, penso, a quella che avevo avuto io quel giorno: sgomento, infelicità, rassegnazione.

Ci condusse in fretta fuori dal locale, seguita da Lady Cynthia. Io rimasi dietro di loro.

Scendemmo lo scalone, sotto gli archi a punta e le piastrelle colorate. La carta da parati, al di sopra del rivestimento in legno, aveva un motivo blu e cremisi, piuttosto bello, anche se fuori moda da una ventina d'anni. Arrivammo al primo piano ed entrammo in una grande sala rischiarata da ampie finestre, affacciate sulla strada.

La nostra ospite si avvicinò a passo deciso al camino e indicò la parete. «Il Gainsborough era qui. Ho fatto appendere questa fotografia per coprire il vuoto, dopo la sua scomparsa.»

Era il ritratto di un uomo in divisa da ufficiale, accanto a un arco simile a quelli della dimora. Rigido sotto una palma, teneva un piede sulla testa di una tigre, ormai ridotta a un tappeto, povera bestia.

«Piuttosto truce» commentò Cynthia, osservandolo. «Un pukka sahib, un vero colonialista.»

«Sir Evan quando era in India» spiegò Clementina. «Nel Punjab. Era spaventoso, a quanto ho capito.»

Avevo sempre pensato che le tigri vivessero nel Bengala, però non ne ero sicura, quindi non dissi nulla. Alzai lo sguardo su Sir Evan, con i capelli biondi, i baffoni, i folti favoriti e gli occhi duri come diamanti. Anche se non ero così certa riguardo agli occhi; forse erano stati induriti dalle luci intense usate in fotografia, soprattutto vent'anni prima. Quelli della tigre avevano lo stesso scintillio.

La cornice era pesante, dorata, adatta al ritratto del padrone di casa. Più vecchia della foto, pensai. Doveva essere stata presa da un'altra immagine per svolgere una nuova funzione.

«Il Rembrandt era là.» Clementina indicò un rettangolo dove la tappezzeria, dello stesso blu e cremisi, aveva tinte più accese. «Una scena biblica. Non mi è mai piaciuta, però mio marito ne andava tanto fiero. Non mi permette di appendere altro, poiché spera con tutto il cuore di recuperare il quadro. L'italiano ? vorrei tanto ricordarne il nome ? era laggiù.» Indicò un punto sopra la finestra, dove si notava un altro rettangolo, in questo caso orizzontale. «Sir Evan si augura tanto che torni anche quello. Il suo amico Mr. Harmon, il curatore finanziario, sostiene che potremmo ottenere il rimborso dall'assicurazione, però non ne è sicuro.»

Andai a turno sotto i due spazi vuoti e li osservai. Non mi dissero molto, tranne che la carta da parati intorno era parecchio sbiadita, il che non era strano. La sporcizia di Londra distruggeva tutto.

«Canaletto» dichiarò una voce severa dal vano della porta. «Un dipinto del ponte di Westminster.»

«Davvero, caro?» Il tono di Clementina passò nel giro di un istante da incerto e preoccupato a gaio e vivace, con un sottofondo di nervosismo. «Non ci ho mai prestato molta attenzione.»

Sir Evan le scoccò un'occhiata sprezzante e ne riservò una un po' più rispettosa a Cynthia. «Lady Cynthia» la salutò con un rigido cenno.

Puntò quindi lo sguardo su di me, con evidente perplessità sul viso affilato. Non mi ero sbagliata riguardo ai suoi occhi: taglienti, acuti e penetranti, non in modo rassicurante. Capivo perché Clementina fosse scontenta di averlo a casa.

Questa arrossì e si preparò a spiegare la mia presenza, ma venne preceduta da Lady Cynthia.

«Ho portato la mia cuoca» annunciò come sfidandolo a chiedersi che altra follia stesse per commettere. «Era venuta per chiacchierare con la vostra, ma poi Clemmie mi ha raccontato che avete subito un furto. Volevamo vedere cosa è stato rubato. Emozionante.»

«Più che altro è una bella seccatura» sbottò lui. «Clementina, senza dubbio Lady Cynthia gradirebbe un tè. E la cucina è nel seminterrato, non nel mio salotto.»

«Ebbene, lo sappiamo» ribatté Cynthia imperturbata. «Ho trascinato qui io la poveretta. Non prendetevela con lei.» Guardò oltre Sir Evan. «Ehi, laggiù. Sì, voi, nel corridoio.» Rivolse un cenno imperioso a un lacchè. «Mostrate alla mia cuoca la strada per le cucine. Immagino ne abbia abbastanza dei piani superiori.»

Mi inchinai con tutta l'umiltà che mi era richiesta e uscii senza fretta dal locale. Evitai di guardare Sir Evan negli occhi mentre arretrava per consentirmi di aggirarlo, tuttavia non occorre fissare dritto in faccia una persona per conoscerne l'animo. Percepii parecchie cose mentre lo studiavo con la coda dell'occhio. La prima era che non incolpava me perché ero entrata nella sua sala, e nemmeno Lady Cynthia. Accusava invece la moglie. La seconda era che non era adirato con Lady Cynthia per i suoi modi insolenti. Al contrario, colsi nel suo sguardo ammirazione, simpatia e persino qualcosa di più.

Santo cielo. Di sicuro lei non ricambiava. Come sapevo, la sua lealtà verso le amiche era incrollabile, inoltre era chiaro che non sapeva che farsene di un uomo così.

Seguii il lacchè oltre una porta e giù per le scale di servizio. Era assai curioso nei miei confronti, ma il mio sguardo severo lo zittiva.

Avevo voglia di parlare con Mrs. Martin, la cuoca, che conoscevo da qualche anno, ma solo per trovare conferma ai miei sospetti. Ero piuttosto sicura di sapere chi avesse rubato i dipinti e perché.