Gli occhi castani di Tess erano sbarrati per l'ansia, le mani aggrappate alle mie maniche.
«Che cosa, bambina?» le domandai sbalordita e allarmata.
«Quello che avete detto, non so cosa. Non voglio che Mr. Davis se ne vada. Non per una come me. Pulirò i cessi, mi vestirò da maggiordomo a tavola, tutto quello che volete, però non mi mandate via.»
Strinse la presa, sgranando gli occhi con terrore. Era spaventata dall'idea di tornare dove stava prima, ovunque fosse, nel caso fosse stata licenziata.
Mr. Davis alzò gli occhi al cielo. «Non siate ridicola, ragazza.» Ci volse le spalle ed entrò nel suo ripostiglio, sbattendo la porta dietro di sé.
Io presi per mano Tess e la condussi in cucina. «Smettete subito di frignare» le intimai. Il tono fermo era ideale per calmare l'isteria, come avevo sempre notato. «Mi dovete aiutare a preparare la colazione. Nessuno ha intenzione di scacciarvi. Non lo permetterò. Anzi, ho ancora più bisogno di voi.»
Tess inghiottì un singhiozzo mentre le lacrime inondavano il volto pallido. «Davvero?»
«Davvero. Adesso sciacquatevi la faccia e mettete a bollire l'acqua. Ci sono le uova da cuocere e siamo in ritardo.»
Lei prese fiato, ansimante. «Avete ragione» ammise con voce strozzata e si diresse nel retrocucina. Un attimo dopo sentii sbattere il bollitore contro il fondo del lavello.
Mentre prendevo la pancetta affumicata dalla dispensa e l'affettavo per disporla in una padella di ferro, mi chiesi come mai Tess avesse tanta paura di essere accusata di qualche malefatta. Forse era solo consapevole di non avere niente nella vita, a parte quella casa, ed era terrorizzata dall'idea di tornare per strada. Al suo arrivo era dubbiosa, ma ormai era determinata a restare. Mi riproposi di rifletterci, oltre che di informarmi con Daniel sui suoi trascorsi.
Nel frattempo riempii con una dozzina di uova la pentola d'acqua portata da Tess. Le spiegai come sorvegliarle e come calcolare il tempo per cuocerle a puntino. Il tuorlo troppo duro era secco e insapore; troppo morbido, diventava un pasticcio quando si spezzava il guscio.
La lasciai al suo posto mentre saltavo le patate, sbollentate la sera prima, e ripensavo alle affermazioni di Mrs. Bywater riguardo a Cynthia.
La signora aveva insinuato che eravamo diventate amiche e che questo avrebbe limitato le possibilità della nipote... Sul mercato matrimoniale, ovvio. Una giovane nobildonna che si sentiva a proprio agio in cucina, con la cuoca, invece che in salotto a ricevere visite, non attirava gentiluomini in cerca di moglie. Inoltre una dipendente convinta di ricevere favoritismi in nome del legame di amicizia, rischiava di montarsi la testa e smettere di lavorare come dovuto.
Facile, da parte sua, affermare che stare al proprio posto rendeva felici. In effetti era vero, se questo posto comportava soldi in abbondanza, una grande casa, molto tempo libero e il rispetto della società. Invece tutti noi eravamo costretti a faticare per ottenere quello che avevamo.
Decisi di non ignorare l'avvertimento di Mrs. Bywater. Se Cynthia mi considerava un'amica, ne ero onorata. Se era più contenta seduta nella mia cucina piuttosto che nel salotto a sistemare fiori, la colpa era della famiglia, che non la faceva sentire accettata e benvoluta ai piani superiori.
Dopo essermi messa il cuore in pace riguardo alla questione, tornai a riflettere sulla porta di servizio aperta.
Al principio, quando mi era stata indicata da Charlie, avevo temuto che Cynthia avesse trascurato di chiuderla nella fretta di rientrare, ma la sua evidente confusione, all'arrivo, l'aveva scagionata dalla responsabilità. Non ne aveva saputo nulla finché non mi aveva chiesto cosa fosse accaduto.
Il mio pensiero successivo fu che Daniel, per motivi suoi, si fosse intrufolato in casa, trovando la porta sbloccata. Tuttavia sapevo che non avrebbe mai lasciato tracce. Quand'anche, per entrare, avesse forzato la serratura, l'avrebbe di sicuro richiusa.
Inoltre non mi sarei stupita se fosse stato in possesso della chiave. Quando aveva lavorato qui in marzo, aveva forse colto l'occasione per appropriarsi di una copia, oppure per farla duplicare. Più lo conoscevo, più lo credevo capace di tutto.
Comunque una cosa era certa: se Daniel avesse varcato quella soglia, non lo avremmo mai scoperto.
Questo mi lasciava priva di idee. O qualcuno si era insinuato dentro dall'esterno ed era scappato in fretta e furia, senza assicurarsi che il battente fosse chiuso, oppure una persona era uscita, sempre senza bloccare la porta come dovuto. Charlie non aveva visto nessuno ed era parso davvero allarmato. Tuttavia chiunque avrebbe potuto scendere nel cuore della notte e andarsene, passando dal retrocucina. Magari una cameriera o un lacchè che avevano appuntamento con l'amante.
Oppure eravamo stati svaligiati e il ladro era stato molto scaltro. Ma per quale motivo tenere segreto il furto e poi lasciare la porta spalancata?
Mi crucciavo sulla questione perché ero stata io a trascurare di sprangarla. In caso contrario, avrei interrogato il personale finché non avessi scoperto chi era stato così stupido da non tirare il paletto. Senza dubbio il mio silenzio smascherava la colpa.
Tess e io terminammo la colazione. Una volta superato il panico, lei aveva lavorato sodo. Mi aveva aiutata a preparare tutto quanto e a mandarlo al piano di sopra in modo che i lacchè potessero disporre i piatti sul buffet all'ora esatta. Mr. Davis passò in cucina per avvisare che, in base al controllo effettuato dai domestici, non mancava niente. Ogni oggetto d'argento e ogni bottiglia di vino erano ancora al proprio posto. A quanto pareva, non eravamo stati derubati.
Quella mattina non vidi Cynthia e non udii alcun genere di alterco ai piani superiori, quindi immaginai che fosse riuscita a infilarsi in camera sua, indossare un vestito e scendere per colazione, come sempre.
Allo stesso modo non ricomparve nemmeno Daniel. Non ne trovai traccia quando uscii dalla porta di servizio e controllai sotto la scala. Non si vedevano nemmeno le briciole della cena che gli avevo offerto la sera prima. Se non altro, c'era più pulizia del solito.
Poiché era lunedì, la mia mezza giornata libera, sgombrai in fretta la cucina dai resti della colazione e preparai, per il pasto di mezzogiorno, costolette di manzo in salsa di funghi, cipolle e vino rosso, accompagnate da patate novelle e dagli asparagi rimasti dalla spesa fatta insieme a Tess. Poiché i gambi cominciavano ad avvizzire, li affettai e li saltai con burro e pepe. Dopo colazione avevo anche infornato un po' di panini dolci, che mandai nella sala insieme al resto.
Una volta servito il pranzo, mi dedicai alle torte che avrebbero concluso la cena e infine andai a prendere il cappello e il soprabito primaverile. Il clima era cambiato e la temperatura era un po' aumentata.
Tess era terrorizzata perché uscivo.
«Torno alle sei» le assicurai, spazientita dalle sue scene. «Infornate il pane dopo che si è alzato di un pollice sopra il bordo della teglia. Sminuzzate le cipolle a dadini e poi qualche carota. Sistematele in scodelle separate, coperte, e riponetele nella dispensa. Lavate e asciugate la lattuga e mettete anche questa in dispensa. Mostratevi indaffarata per l'intero pomeriggio, altrimenti Mr. Davis vi affiderà qualche compito. Se tenta di costringervi a lustrare l'argento, rifiutatevi. Non voglio che tracce del preparato vadano a finire nel cibo. Mangiate un panino dolce, se avete fame. Lasciate il vassoio sul tavolo per gli altri, però vi consiglio di tenere da parte i migliori, se no spariscono subito.»
Mentre parlavo, appuntavo il cappellino e controllavo allo specchio che i capelli fossero in ordine.
Tess annuì a tutte le mie indicazioni, bianca in volto. «Ci proverò. Mrs. H.»
«Non vi limiterete a provarci» risposi convinta. «Ve la caverete bene. Se non mi fidassi di voi, non uscirei.»
Non era proprio vero, poiché non ero disposta a rinunciare alla compagnia di Grace. Ma se avessi dubitato di Tess, avrei incaricato qualcuno di sorvegliarla. Era una ragazza sveglia, che fino ad allora aveva imparato tutto in fretta.
Non ero mai felice come quando uscivo dalla cucina, nelle giornate di riposo. Quel giorno avevo davanti a me parecchie ore di libertà, e alla fine della traversata di Londra c'era mia figlia.
Per la nostra escursione abituale, Grace e io percorremmo a piedi Cannon Street fino all'hotel di Cannon Street Station, per bere il tè come grandi dame. Mentre guardavamo entrare e uscire signore e gentiluomini, fingevamo di essere ricchissime, senza una sola preoccupazione al mondo. Ammiravamo i vestiti, oppure sussurravamo critiche, sorridevamo delle coppie sposate che dimostravano di amarsi e ridevamo dei giovanotti troppo zelanti che tentavano di compiacere le ragazze per corteggiarle.
Il tè non era ideale, la torta di semi di cumino era troppo secca e la cagliata al limone troppo liquida, ma condividerli con Grace li rendeva simili all'ambrosia.
Tornammo indietro con la maggiore lentezza possibile, così da assaporare ogni istante trascorso insieme. Un giorno e mezzo di libertà era generoso per una cuoca, ma per me era troppo poco da dedicare alla bambina che amavo con tutto il cuore.
L'abbracciai stretta quando ci salutammo e lei mi baciò sulla guancia.
«Non piangete, mamma» mi raccomandò, allegra come sempre. «Giovedì arriverà senza che ce ne accorgiamo. Mancano solo due giorni.»
Due lunghe giornate e tre notti, nelle quali mi sarei ammazzata di lavoro per servire da mangiare a una famiglia più di quanto non potesse consumare, mentre tanti bambini poveri giravano per strada, felici delle briciole che riuscivo a elargire di tanto in tanto. Quei monelli mi rammentavano perché stavo a servizio, nascondevo il mio passato vergognoso e ricevevo con gioia la paga. Grace non sarebbe diventata una di loro, non avrebbe mai conosciuto la miseria e il bisogno.
Dopo averla lasciata, decisi di tornare a Mayfair passando da Fleet Street e dallo Strand. Scesi dall'omnibus a Charing Cross e, con noncuranza, passeggiai fino al banco dei pegni dove Daniel aveva aspettato l'arrivo dei reperti rubati.
La bottega era immersa nel buio e una tenda avvolgibile era abbassata fino a metà della vetrina. Fingendomi curiosa, mi chinai per spiare attraverso la parte inferiore del vetro polveroso e, allo stesso tempo, tastai la maniglia della porta.
«È chiusa» mi avvisò una voce roca, accanto al mio gomito.
Io mi raddrizzai con un sussulto. L'uomo al mio fianco era il tizio di nome Varley, che era entrato nel negozio il pomeriggio in cui avevo trovato Daniel. In quell'occasione non ero riuscita a vederlo bene, malgrado gli sforzi, tuttavia ricordavo la voce.
«Già» confermai, assumendo un tono da cliente indispettita. «Avete idea del perché?»
«No» ringhiò lui.
Io finsi di non essere innervosita dalla sua corporatura massiccia e dal suo sguardo sospettoso. Ero soltanto una passante, una donna che si chiedeva come mai non potesse entrare in una bottega per comprare quello che desiderava.
«Pazienza» conclusi con una scrollata di spalle. «Tornerò un altro giorno.»
Quando mi girai per andarmene, Varley si parò di fronte a me, sovrastandomi. Compresi i timori di Daniel. Era molto alto e robusto. Le mani non erano grosse come quelle dell'uomo all'obitorio, ma poco meno. Gli occhi mi fissavano con più intelligenza di quanta gliene avessi attribuita e un ciuffo di capelli neri unti spuntava da sotto il berretto piatto.
Mi osservò con attenzione, tentando di decidere se fossi una ladra come lui, una donna pronta a correre alla polizia, oppure una semplice curiosa, seccata perché non poteva entrare nel negozio.
Assunsi una posa compita e lo guardai irritata, come avrebbe fatto una signora ignara della sua identità e delle sue possibili motivazioni.
«Questo posto resterà chiuso per molto tempo, missus.»
«Sì?» Inarcai le sopracciglia. «Lavorate qui?»
«No» negò in tono secco. «Vi conviene andarvene, donna.»
«Ne sarei lieta, se mi lasciaste passare, sir» sbottai altezzosa. «E non chiamatemi donna. È davvero sgarbato.»
Mi osservò di nuovo con occhi scintillanti. «Ebbene, scusate.»
Si fece da parte e, con un ampio gesto, mi invitò a passare. Mentre lo superavo, mi sussurrò un epiteto molto più scortese di donna, ma io preferii proseguire a testa alta e a passo di marcia in direzione di Charing Cross, come se fossi stata soltanto indispettita dall'arroganza.
In realtà le ginocchia minacciavano di cedermi: sapevo che Varley era un pericoloso malvivente. Mi aveva avvisata Daniel, che temeva ben pochi individui. Avvertii dietro di me il suo sguardo insistente e continuai a tremare finché non girai l'angolo di Trafalgar Square.
Mi soffermai sotto il monumento di Nelson per riflettere. La stazione ferroviaria di Charing Cross era a pochi passi di distanza. Di là avrei potuto prendere uno dei treni sotterranei diretti a nord, scendere a Bloomsbury, nei pressi di Bedford Square, e cercare il pub nominato da Daniel e Mr. Thanos. Mi ripetevo che ero solo curiosa di vedere il locale in cui si incontravano gli studiosi, poiché avevo ancora un po' di tempo prima di dovere rientrare.
Mi ritrovai a camminare verso la stazione, frugando nella borsetta in cerca di una moneta per il biglietto. Magari volevo solo identificare il posto, nel caso avessi dovuto rintracciare Daniel o Mr. Thanos in futuro.
Tuttavia l'idea che Daniel potesse essere là, senza panni da mendicante e intento a godersi un pasto decente, si impossessò di me e mi impose di andare.
Non mi piacevano i treni sotterranei, anche se alcuni, in città, percorrevano parecchi tratti all'aperto. Come potessero infilarsi in quelle lunghe gallerie senza che i passeggeri soffocassero per il fumo o che le scintille dei macchinari dessero fuoco alle travi di sostegno era per me incomprensibile. Meglio non pensarci.
Emersi dal treno in Tottenham Court Road e camminai fino a Bedford Square. Non avevo idea di come identificare il locale giusto nelle strade laterali senza infilare la testa in ogni pub. Potevo solo sperare che non ce ne fossero molti nei dintorni, ma quella era Londra, pericolosamente vicino a St. Giles. Malgrado il vigoroso impegno del movimento per la temperanza e dell'Esercito della Salvezza, i londinesi potevano trovare da bere a ogni angolo della metropoli.
Un rispettabile locale pubblico era diverso da una taverna per ubriaconi, ribattevo spesso alle dame che tentavano di porgermi opuscoli contro l'alcolismo. Anche se non amavo molto la birra, troppo amara per i miei gusti, sapevo che non era dannosa, purché la si bevesse con moderazione. Allo stesso modo il vino era destinato a deliziare il palato, non a ottundere i sensi. Di tanto in tanto gradivo anche un goccio di brandy nel tè, a fini medicinali. Ero d'accordo che andassero vietati i liquori forti come il gin, una vera rovina per chiunque li consumasse.
Scelsi un vicolo a caso e mi preparai a imboccarlo. In quell'istante una carrozza si fermò dietro di me e venni chiamata da una voce ben nota.
«Mi sembrava di avervi riconosciuta, Mrs. H.» gridò Lady Cynthia. «A quanto vedo, siete anche voi curiosa. Ottimo. Vi ha mandata la provvidenza per difendere la mia reputazione.»