Manuela Ricci

 

 

CHIEDIMI

DI

Restare

 


 


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Illustrazione – Foto manipolazione –

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Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell’autrice e hanno solo lo scopo di rendere la narrazione più veritiera.  Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone vive e scomparse, è puramente casuale .

 

 

 

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CHIEDIMI DI

RESTARE

“The Tigers Series”

di Manuela Ricci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A tutti i miei lettori

che mi seguono dall’inizio di questa avventura.

Siete importantissimi per me.


 


Agli amori un po’ folli, quelli dai mille brividi,

quelli un po’ incerti che ti fanno perdere il controllo.

Questa storia è per voi.


 


 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente Prologo

 

Come ogni giovedì posteggio di fronte all’edificio di mattoni a quattro piani che si erge dinnanzi a me.

Guardo l’ultimo piano, le grandi vetrate a specchio riflettono il cielo limpido di una delle tante giornate di fine settembre.

Faccio un respiro profondo e, non appena l’orologio dell’auto indica le tre del pomeriggio mi decido a trascinarmi fuori dall’abitacolo.

Chiudo l’auto che mia madre mi ha prestato, una vecchia Toyota singhiozzante che miracolosamente mi ha portata a destinazione.

Attraverso la strada che mi divide dall’ingresso, con la solita inquietudine nel petto, come un macigno che preme sempre più forte contro un cuore che ormai fatica a battere, da quando me lo hanno strappato, per poi restituirmene i brandelli di ciò che ne è rimasto.

Entro nella hall, di fronte a me quattro ascensori divisi per i vari piani e uffici del palazzo.

Raggiungo il mio, quello centrale, aspetto che le porte automatiche di acciaio si aprano e non appena le varco, premo il tasto numero 4.

Quando la corsa si arresta, mi sento il cuore in gola, mentre percorro il lungo corridoio.

I piedi calpestano la moquette di un bianco candido, ma più cammino e più mi sembra che la porta verso la quale sono diretta si allontani sempre più.

Una volta di fronte, osservo la targa affissa al legno pregiato, leggo più volte, non il suo nome, ma la professione che svolge: Psichiatra

Il buco nero che è comparso all’improvviso, ha iniziato a cibarsi della mia anima giorno dopo giorno.

Fino a quando, ho deciso che avrei dovuto prendere in mano la mia vita, o quello che ne restava, per rimetterne insieme i pezzi.

Busso, in attesa che la sua voce rassicurante mi inviti a entrare.

   «Salve», mi sporgo oltre la porta.

   «Harley, la stavo aspettando, si accomodi», cordiale, mi invita a prendere posto in una delle poltrone disposte di fronte alla sua scrivania di legno pregiato

Il dottor Miller, è un uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati, occhi di un nocciola caldo, contornati da un accenno di rughe.

Il suo studio rispecchia a pieno la sua fama, riconosciuta in gran parte dello stato della Florida, a Jacksonville, ha uno dei tanti studi sparsi per il paese per il quale si divide nell’arco della settimana.

   «Come ti senti oggi?», prende posto sulla sua poltrona di pelle bordeaux, un blocco tra le mani e la penna d’oro con le sue iniziali che inizia a graffiare contro la carta.

   «Credo…credo bene», rispondo titubante.

Perché la verità è, che non riesco più a comprendere quali sono i miei stati d’animo.

Mi sento completamente svuotata, come se mi avessero privato di qualcosa.

Come se la stessa aria che respiro mi fosse stata tolta e me l’avessero restituita poco per volta, facendomi sentire affamata.

Il mio mondo, in una sola notte si è capovolto, ciò che mi circonda adesso appare ai miei occhi sotto una luce diversa, senza suscitarmi alcuna emozione.

   «Ti va di riprendere da dove eravamo arrivati l’ultima volta?» mi osserva attraverso la montature delle lenti visive che le scivola lungo il naso.

È la mia sesta seduta, un mese e mezzo in cui racconto a un perfetto estraneo la mia vita, e adesso, è arrivato il momento di raccontargli che cosa mi è realmente successo quella sera.

Inizio a sentire le mani sudare, le strofino contro il tessuto dei jeans che indosso, mentre la salivazione si arresta sulla lingua.

Il cuore sembra lottare contro la carne, come se volesse schizzarmi fuori dal petto.

La testa inizia a essere un insieme di immagini disconnesse che ho l’esigenza, il bisogno di riordinare.

   «Va bene…era un venerdì sera di fine luglio…», inizio col dire e la mente si riempie di ricordi sfuocati, annebbiati da Dio solo sa cosa, che ogni volta cerco sempre di reprimere, di spingere più a fondo, in quella parte di me che forse, un giorno, ne avrebbe dimenticato l’esistenza, per il timore di cosa avrebbero rivelato.

   «Continua», il dottor Miller, mi invita con un gesto della mano a proseguire.

Inizio a fare ordine e riprendo da quell’esatto momento in cui la mia vita era ancora normale…

 

 

***

 

 

Due mesi prima

 

Quella sera non avrei dovuto essere di servizio allo Yacht Club, ma Sarah, una mia collega, mi ha chiesto un cambio turno.

Il suo ragazzo, in licenza dall’esercito, sarebbe arrivato proprio quel giorno, dopo un anno che li ha tenuti divisi.

Non potevo certo dirle di no e così, ho preso servizio alle sette di sera.

Indosso la mia divisa, una gonna nera leggermente sopra al ginocchio, una camicia bianca e delle scomode ballerine che mi massacreranno i piedi.

Esco dagli spogliatoi e mi reco nella sala bar all’aperto, vicino a una delle tre piscine della struttura, dove dovrò servire i clienti del club.

   «Preparati, stasera ci sarà da correre», Cristopher, il barman della postazione esterna, mi avvisa, mentre il tramonto inizia ad abbracciare con i suoi colori il campo da golf poco distante.

   «Come sempre», cero di ricordare un solo giorno dall’inizio della stagione estiva, in cui non sono rientrata a casa completamente distrutta.

Lavoro lì da ben tre anni, da quando ho compiuto i miei sedici anni.

Volevo essere indipendente, ma soprattutto, volevo contribuire alle spese familiari.

Siamo sempre state solo io e mia madre, mio padre, non so neanche che volto abbia e, tra le quattro mura di casa è ormai un argomento tabù.

   «Tavolo cinque», mi porge il vassoio carico di drink, lo prendo poggiando il palmo sotto per tenerlo in equilibrio e mi dirigo verso il tavolo dei clienti.

Sette figli di papà stanno ridendo a crepa pelle quando li raggiungo, non si accorgono neanche della mia presenza, mentre li servo da bere, evitando di far cadere qualche bicchiere sulle loro prestigiose camice firmate.

   «Chiediamolo a lei», uno di loro mi indica, mi volto verso il ragazzo dagli occhi color dell’ambra, capelli castani sparati in tutte le direzioni, un ghigno malizioso a increspargli le labbra carnose.

   «Posso esservi utile?», poso l’ultimo cocktail, cercando di rendermi disponibile e cordiale, come faccio sempre verso qualsiasi cliente.

   «Lasciala stare», si intromette un altro ragazzo del gruppo, non posso fare a meno di voltarmi verso la sua direzione, attirata dal suono della sua voce, così bassa e roca, come qualcosa di graffiante che mi percorre da capo a piedi facendomi stringere tra le spalle.

Nell’esatto momento in cui il mio sguardo inciampa nel suo, un senso di inquietudine mi si appiccica addosso.

I suoi occhi color cobalto sembrano quasi urlarmi contro, mentre io non riesco a fare a meno di perdermi nei lineamenti del suo volto cesellato come se fosse un diamante scolpito.

I capelli, di un nero corvino, sono legati in una piccola crocchia disordinata, dalla bocca carnosa compare una piccola sfera di un rosso intenso che scivola da destra verso sinistra lungo le sue labbra.

Deglutisco a fatica ammaliata da quel gesto, mentre lui si sporge in avanti, la camicia bianca gli fascia alla perfezione le spalle possenti, intravedo dei tatuaggi, lungo le braccia lasciate scoperte dal tessuto arrotolato fino ai gomiti che premono contro un jeans nero strappato.

   «Credo che tu qui abbia finito», scandisce lentamente, come se si stesse rivolgendo a una bambina che ha da poco imparato a parlare.

Mi riscuoto dallo stato di trans nel quale ero precipitata e, con il vassoio contro il petto giro sui talloni e mi allontano.

   «Sei il solito guastafeste», sento dire oltre le mie spalle e poi, la sua voce sembra quasi rincorrermi.

   «Lei non va bene».

Per cosa non andrei bene?

La curiosità mi lambisce come una seconda pelle, per poi, farmi crollare nel solito sconforto.

Le mie curve sono più accentuate rispetto a quelle delle mie amiche, i capelli non vedono un parrucchiere da anni, di fatti li porto sempre legati in una coda alta, la sola cosa che mi piace sono i riflessi biondi naturali.

Per il resto, non potrei mai rientrare nella lista delle ragazze più quotate di Jacksonville.

   «Tutto bene?», Cristopher mi osserva con aria interrogativa.

   «Sì», prendo la seconda comanda e mi precipito a servire il prossimo tavolo.

Non so perché me la sto prendendo tanto.

Rimprovero a me stessa, in fin dei conti non me n’è mai fregato niente di quello che pensava la gente o quell’ammasso di muscoli senza cervello dei loro figli viziati con la puzza sotto al naso.

Eppure, mentre continuo a svolgere il mio lavoro è come se sentissi un paio d’occhi corrermi sulla pelle scoperta della gambe, lungo le braccia, fino a raggiungere il collo, le labbra d’istinto si ritraggono in una linea sottile e, solo quando sollevo il capo dal tavolo che sto servendo, ho la conferma di ciò che sento.

Lui mi sta guardando.

Senza ritegno.

Sfidandomi.

Bruciandomi sulla pelle.

   «Conosci quei ragazzi?», poggio sul bancone il vassoio, con i bicchieri che ho appena ritirato da un tavolo che si è liberato.

   «Sono tutti quarterback della Ivy League», Cristopher prepara qualche cocktails, scoccando un’occhiata nella loro direzione.

   «Ivy League?»

   «È il titolo che raggruppa le otto Università più importanti di tutti gli Stati Uniti, dedite al grande football, dove solo i più talentuosi giocatori riescono a essere ammessi»

   «Non capisco granché di sport», ammetto, spolverando il piano in marmo del bancone, in attesa che qualche altro cliente sollevi la sua mano per attirare la mia attenzione.

   «Puoi anche dirmi che non ci capisci niente, resterà un segreto tra me e te», Cristopher mi strizza l’occhio e io lo colpisco con lo strofinaccio contro il braccio, lasciandomi sfuggire una risata.

   «Vorremmo ordinare, se non vi è di troppo disturbo svolgere ciò per cui siete pagati», impietrita, guardo il ragazzo dagli occhi color cobalto, il labbro inferiore inghiottito dalla morsa dei denti perfettamente dritti e bianchi, dove il piercing rosso sembra essersi incastonato proprio lì, nel mezzo.

   «Arrivo subito, mi scusi», mi affretto a prendere il mio block notes e raggiungo il loro tavolo.

Detesto il modo in cui si è permesso di attirare la nostra attenzione, anche se non posso negare che, per quello che ogni socio paga alla Yatch Club hanno pieno diritto di essere serviti in tempi celeri che non inciampino in stupide attese.

   «Cosa posso portarvi?»

   «A me andrebbe bene anche solo la tua presenza, come ti chiami?», lo stesso ragazzo di prima mi squadra da capo a piedi, dietro le mie spalle sento una presenza, un profumo intenso e speziato che mi avvolge e quasi mi droga i sensi per quanto è forte.

   «Avevate sete o no?», mi volto, un solo respiro a separarmi da una cascata di muscoli che, malgrado la camicia che indossa, riesco a scorgerne i lineamenti contratti, i miei occhi corrono lungo al suo petto, fino a soffermarmi sul tatuaggio che porta sul collo, mezzo teschio con tre peonie che sputano di lato.

   «Mai visto un tatuaggio?», mi riscuote dai miei pensieri.

   «Scusi», mi volto verso gli altri ragazzi e cerco di ricordarmi che sono a lavoro e che sono pagata per questo.

Ma che diamine mi sta succedendo?

Non è di certo il primo bel ragazzo che vedo aggirarsi per il Club, ma il problema sono i suoi occhi che mi rendono quasi schiava a ogni sguardo che mi piove addosso come gocce di lava incandescente.

   «Dopo andiamo a una festa, ti va di unirti a noi?», domanda uno dei ragazzi.

   «Irvy!»

   «Rilassati Nowell è solo una festa, cosa mai potrebbe succedere?»

Nowell.

Nowell

Nowell.

Il suo nome sembra tatuarmisi addosso, ogni lettera graffia la mia pelle che rabbrividisce e senza che me ne renda conto, senza che abbia il tempo solo di rifletterci, come un’incosciente mi trovo a dire: «perché no».

Perché no?

Ci sono un milione di motivi per cui non dovrei recarmi a una festa con dei ragazzi che non ho mai visto prima, ma un solo motivo tra tutti che mi spinge a farlo: gli occhi color cobalto che non lasciano i miei quasi sfidandomi mentre accetto l’invito.

 

 

 

 

 

 

***

 

  «Harley, cosa è successo a quella festa?».

Guardo il dottor Miller e lui guarda me, in attesa che prosegua il mio racconto, mentre tremo e, ogni dannato flashback mi riempie la mente.

Ogni ricordo, un’ombra che mi striscia dentro continuando ad annidarsi in quella parte di me che si ostina ad aver il timore di ricordare.

   «Harley?»

   «Credo di aver perso la mia verginità in quella festa», alla mente vedo me stessa, nuda, risvegliarsi in un groviglio di lenzuola sgualcite, attorno al letto king size una miriade di bottiglie di alcolici vuoti sono riverse a terra.

   «Come fai a non ricordarlo con certezza?», indaga, il suono della penna che continua a graffiare contro la carta diventa insopportabile.

   «Ho bevuto più del dovuto e…e non ricordo altro, solo io che mi risveglio in un letto di una delle suite dello Yatch Club».

La sensazione che continuo percepire addosso è quella di sporco, come se mi avessero privato di qualcosa.

Perché se non sono in grado di ricordare cosa è successo, di certo non ero in grado neanche di rendermi conto di cosa stavo facendo.

L’idea che qualcuno mi abbia toccata, baciata, che mi abbia vista nuda mi provoca un conato di vomito.

   «Bevi, ti farà bene», prendo il bicchiere d’acqua che il dottore mi porge e lo svuoto.

   «Non sei riuscita a rintracciare quei ragazzi o chi c’era alla festa per chiedergli che cosa era successo?»

Mando giù tutta l’acqua, come se avessi appena camminato lungo il deserto e in parte è così, ho percorso il terreno arido di ciò che mi è rimasto cucito addosso.

   «L’indomani mattina nessuno dei ragazzi era presente, non risultavano neanche nell’elenco dei clienti registrati», come se fossero stati dei fottuti fantasmi comparsi solo nella mia esistenza per tormentarmi.

   «Non c’è proprio altro che ricordi?»

Sento la pelle palpitare proprio in quel punto preciso, con le dita che tremano sollevo appena la maglia che indosso e gli mostro il segno che porto: una stella a sette punte marchiatami a fuoco al centro della pancia, poco sotto all’ombelico.

 

 

 

 

 

 


 

 

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Harley

  

   «Piano con quelli», mia madre si destreggia tra i vari scatoloni che riempiono il salotto, dando ordini agli addetti del trasloco.

Stento ancora a credere che stia realmente succedendo.

Recupero gli ultimi due scatoloni dalla mia camera e li porto al centro del salotto insieme agli altri.

Mi passo il dorso della mano sulla fronte, malgrado sia metà ottobre, qui a Jacksonville, è come essere ancora in pieno agosto, con il suo caldo rovente e irrespirabile.

   «Hai preparato tutto?», mia madre fa avanti e indietro per la stanza, il ticchettio delle décolleté che indossa mi sta consumando i neuroni.

La osservo, i capelli di un biondo cenere sono raccolti in uno chignon curato, indossa un abito verde acqua che fa risaltare lo smeraldo screziato dei suoi occhi, con una leggera giacca in cotone bianca, intonata alle scarpe e in tutto questo mi domando dove ho iniziato a perdere i pezzi della sua vita.

Fino a qualche settimana fa lavorava in una rinomata boutique nel centro della città e adesso si atteggia a prossima first lady della White House.

Tutto questo perché, in un modo a me del tutto ignaro, porta al dito l’anello di fidanzamento di un uomo che non ho mai visto, del quale non ho mai sentito parlare e dal quale stiamo per trasferirci.

   «Farebbe qualche differenza se dimenticassi qualcosa?», la sfido, «dal momento che mi sembra che della mia opinione ti importi ben poco».

Non sopporto che mi obblighi a cambiare le mie abitudini, la mia vita, a lasciare tutto quello che ho, solo perché lei ha deciso che deve essere così.

Espira rumorosamente, come se fosse esasperata, mentre mi si avvicina, mi prende il mento con due dita come se mi vedesse per la prima volta.

   «Siamo sempre state solo io e te, Sugar ».

Zuccherino.

Mi ha sempre chiamata così da che ne ho memoria, diceva che ero la sola nota di dolcezza in tutta la sua esistenza.

   «Lo so», incrocio le braccia al petto, perché non voglio cedere, voglio che comprenda che il passo che mi sta spingendo a fare è troppo grande per entrambe e se qualcosa andasse storto?

   «Non vuoi che anche io finalmente sia felice?», i suoi occhi diventano lucidi, lacrime nascoste restano in bilico sul filo dell’emozioni.

   «Certo che lo voglio».

Onestamente, non l’ho mai vista in compagnia di un uomo.

Non mi ha mai presentato qualcuno che frequentava o raccontato di qualche d’uno che l’aveva fatta sorridere almeno una volta.

   «Adesso sono felice, Sugar. Vedrai, Rufus ti piacerà», sorride come una liceale alla sua prima cotta.

Provo a mettere da parte il mio disappunto per questa situazione assurda che è piombata nelle nostre vite, afferro il mio trolley e insieme ci accingiamo a raggiungere il taxi che è appena venuto a prenderci.

Scivolo sul sedile e mi volto a guardare oltre il finestrino la casa della mia infanzia, dove sono nata e cresciuta, il solo posto in cui potevo sentirmi protetta e al sicuro dal resto del mondo.

Il mio rifugio.

Mi chiedo come potrò sentirmi nuovamente così in una casa che non mi appartiene, colma di ricordi non miei.

   «All’aeroporto», la voce di mia madre mi fa voltare verso di lei che, trepidante indica al tassista dove portarci.

   «Dovrò trovarmi un altro lavoro», sbuffo, pensando allo Yatch Club.

   «Potresti prendere in considerazione un’altra opzione», sistema la borsetta sulle ginocchia, senza incontrare il mio sguardo, mentre il suo è nascosto dagli occhiali da sole, «come quello di riprendere gli studi».

Guardo mia madre come se, all’improvviso le fosse spuntata una seconda testa.

Dopo il liceo, ho completamente accantonato l’idea di andare al College, le tasse di iscrizione e annuali erano troppo alte per potercele permettere, quello statale era troppo lontano da casa nostra e gli orari non coincidevano con il mio lavoro al club.

   «Hai per caso vinto alla lotteria e non me lo hai detto?», sdrammatizzo scuotendo il capo incredula che lo abbia solo potuto pensare.

Anche se con poco preavviso, sono riuscita a mandare un paio di curriculum in alcuni club privati della città di Monroe, dove ci stiamo trasferendo.

   «Ne parleremo una volta che ci saremo sistemate», batte delicatamente il palmo della mano aperta contro il mio ginocchio, non proferisco parola, almeno non per il momento.

Non so che cosa si sia messa in testa, ma per adesso cerco solo di godermi il panorama della mia città natale, chiedendomi quando potrò mai ritornarci.

 

Dopo quasi cinque ore di volo atterriamo all’aeroporto della città.

Io vado dritta al ritiro bagagli, mentre mia madre sembra in preda a una crisi isterica.

   «Sto bene?», con le mani si alliscia il tessuto del vestito, «avrei dovuto indossare qualcos’altro».

Afferro i nostri bagagli e gli porgo il suo, «sono già meravigliata di questo che indossi, anzi, mi chiedevo se dalla boutique ti hanno liquidata con un nuovo guardaroba».

   «Non essere sciocca, ho solo comprato qualcosa di carino da indossare».

Le porte automatiche del Gate si aprono e noi ci apprestiamo a uscire.

Una volta fuori, un uomo in completo scuro, di quelli che solitamente usano i maggiordomi o gli autisti, sorregge tra le mani un cartello con su scritto: Charlotte Jones , il nome di mia madre.

   «Lei deve essere Steve», l’uomo abbassa il cartello e fa un inchino verso mia madre, «per servirla signora Jones».

Mi guardo attorno, solo per avere la certezza di non essere atterrati in un’altra epoca e dopo che, “Steve per servirla” ci prende le valige, lo seguiamo fino all’uscita, dove ad attenderci c’è una lussuosa limousine.

Non ci sono mai salita, neanche per il ballo di fine anno, dove solitamente i ragazzi le affittano per andare a prendere le loro compagne e portarle al ballo.

Peccato, che nessuno per l’occasione mi aveva invitato.

I sedili sono morbidi di pelle color cammello, ci potrebbero stare dentro almeno dieci o dodici persone e mi domando che senso abbia avere un auto così grande.

   «Per voi», Steve dalla sua postazione del lato guida preme un tasto e dal centro dell’auto uno scomparto si apre offrendo ai nostri una bottiglia di Champagne e un biglietto intestato a mia madre.

   «Anche se non si è degnato di venirci a prendere si accerta che tu non muoia di sete», commento indispettita per il comportamento di questo Rufus.

Steve solleva il divisorio tra noi e lui, uno spesso vetro oscurato, mia madre ripone il bigliettino nella borsetta con un gran sorriso stampato sulla bocca.

   «È un uomo molto impegnato, ha una riunione è per questo che ha mandato Steve, ma ci sta aspettando a casa».

   «Be’, deve essere senz’altro un uomo molto impegnato se può permettersi una macchina del genere», le faccio notare.

   «So che non sei abituata a tutto questo, neanche io lo sono, cosa credi? È tutto così nuovo, è come essere la protagonista di una favola», gli occhi sognanti che vagano ovunque.

   «Ti ricordo che le favole esistono solo nei libri, mamma».

Pronto? Terra chiama spazio in cui mia madre si deve essere appena drogata.

   «Per una volta voglio credere che possano esistere anche nella vita vera».

Tra me e lei è sempre stato così, sono io l’adulta e lei l’adolescente.

Io la mamma e lei la figlia.

E anche questa volta non è diverso.

Osservo la città aprirsi al nostro passaggio, mi rendo conto che Monroe sembra più un grande centro residenziale composto solo da grandi ville, negozi fuori dalla mia portata e altre strutture che gridano tutto il loro potere.

Mi chiedo se esista la classe media in questo spazio di terra.

   «Dato che non mi hai mai parlato di lui, puoi dirmi di cosa si occupa?», mia madre prende lo specchietto dalla borsa e si incipria il naso voltando il capo da destra a sinistra e viceversa, come se un qualche fotografo le stia per immortalare il suo profilo migliore.

   «Allena la squadra dei Tigers, all’inizio, quando l’ho conosciuto non avevo la minima idea di chi fosse».

Perché adesso ce l’hai?

Da quello che ho capito si sono frequentati per un paio di mesi, mentre lui era in vacanza nella nostra città.

   «E quindi, fa l’allenatore?», sorride come se le avessi appena raccontato una barzelletta che, ovviamente fa ridere solo lei.

   «No, quello lo fa per hobby, in realtà è un noto imprenditore. Vedi, questa città è stata interamente costruita dalla sua famiglia».

Osservo ancora ciò che ci circonda e il senso di inadeguatezza mi si tatua sulla pelle, sbattendomi in faccia che io, con questa vita non ho niente a che spartire.

Sono cresciuta con il timore che i soldi non ci potessero bastare fino a terminare il mese.

Andavo a scuola con i jeans rattoppati, con la borsa che aveva qualche buco, perché non potevo permettermene un’altra e adesso, sono seduta su una limousine a sorseggiare dello Champagne.

Poco dopo, l’auto rallenta quasi a fermarsi, mi sporgo appena, notando un grande cancello dorato in ferro battuto, al centro le iniziali RW sembrano intrecciarsi, per poi, allontanarsi non appena inizia ad aprirsi lasciandoci il passo.

Le ruote della limousine scricchiolano contro la strada sdrucciolevole, mentre una serie di alberi si stagliano ai lati del sentiero abbracciandolo.

Superiamo campi verdi, giardini che sembrano essere stati estrapolati da una qualche rivista, fino a scorgere quella che non ha le sembianze di una comune casa, ma di una reggia a tutti gli effetti.

Steve si ferma e io, attratta da ciò che per la prima volta vedono i miei occhi, scendo dall’abitacolo, quasi stregata da tanta magnificenza.

La struttura è divisa su tre piani, ha la forma di tre cerchi che si intrecciano tra loro, come se fossero tre torri indipendenti, le pareti sono stondate rivestite di pietre antiche che ricordano quelle degli antichi castelli Europei.

Piante di edera si arrampicano come se volessero nasconderla, proteggerla, dal resto del mondo.

Noto un’altra struttura, rettangolare e lunga che continua lungo il fianco destro della casa, il sole la illumina alle spalle, lasciando il centro dell’ingresso completamente all’ombra.

   «Quelli sono i box delle mie auto», mi volto e un uomo compare lungo le gradinate di accesso alla dimora.

   «Rufus», mia madre gli si getta al collo come in una di quelle scene da film.

Steve prende le nostre valige e le porta dentro.

Rufus bacia con passione mia madre e io mi trovo costretta a guardarmi attorno per tutto il giardino che avvolge l’intera tenuta.

   «Scusaci, tu devi essere Harley», mi viene incontro, porgendomi di seguito la mano che stringo presentandomi.

   «Scusate se non sono riuscito a liberarmi per venirvi a prendere», si scusa.

Devo ammetterlo, mia madre ha buon gusto, Rufus ha un aria di George Clooney, capelli brizzolati portati corti ma non troppo, quel tipico sguardo da sciupa femmine e un corpo perfettamente in forma.

   «Non si preoccupi»

   «Dammi del tu, ti prego, altrimenti mi fai sentire più vecchio di quello che sono».

Vecchio?

Avrà al massimo cinquantacinque anni.

   «Va bene», annuisco e non appena ci invita a entrare lo seguiamo all’interno.

L’atrio è enorme, sembra quasi la hall di un hotel a cinque stelle.

Il marmo rosa pregiato riveste lo spazio dove ampi tappetti lo adornano, quadri incastonati come pietre preziose in cornici color oro, rappresentano strane figure.

Uomini mezzi nudi con ai loro piedi animali feroci che si prostrano al loro cospetto.

   «Non farti intimorire, sono solo vecchi cimeli di famiglia», ne indica uno, «mio padre, affascinato dal mondo, dalla sua storia, da ciò che spesso non viene del tutto raccontato li fece creare da un pittore italiano».

Ne conto sette, sto per chiedergli che cosa rappresentano, quando veniamo interrotti.

   «Hai intenzione di presentarci o ci terrai banditi nella torre Est?»

Sollevo lo sguardo verso le scale imperiali, fino a raggiungere il corridoio aperto del piano superiore, dove due ragazzi sono in piedi con le mani strette alla balaustra.

   «Scusateli, spesso dimenticano le buone maniere», si scusa Rufus, per poi volgere il suo sguardo ai due ragazzi.

Suppongo siano i figli, piccolo dettaglio che mia madre si è accidentalmente dimenticata di menzionare, in fin dei conti cosa vuoi che sia convivere con dei perfetti estranei.

   «Volete scendere, per favore».

Entrambi si scoccano un’occhiata complice, ammiccando un ghigno quasi malevolo.

   «Non verremo da nessuna parte» , mi paralizzo, i piedi piantati al suolo, le mani che prendono a tremare, il cuore che sembra impazzito, mentre lo spazio all’interno del torace è solo una gabbia troppo stretta dalla quale vuole evadere.

E lo vedo.

Lui.

Lui, in piedi che compare dietro agli altri due ragazzi.

Lui, che fa crollare con violenza i suoi occhi nei miei.

Lui, che sembra furioso di vedermi lì.

Lui, che si morde il labbro, giocando con il piercing che ha sulla lingua, mentre quello sguardo, ancora su di me, sembra spogliarmi da tutti i miei segreti più nascosti.

Lui che non rivedo da quella maledetta sera, dove, solo una stella incisa sulla pelle, come se fosse caduta da un cielo dimenticato dal mondo, è rimasta a tormentare ogni mio singolo giorno.

Lui.

Nowell.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nowell

 

Mi sono appena svegliato, giro completamente nudo per la mia stanza, quando una delle nostre cameriere al nostro servizio entra per servirmi la colazione.

Afferro la vestaglia di seta nera, posata sopra a una delle poltrone, vicino all’ampia vetrata ancora coperta dalle spesse tende in stile veneziano.

   «Dormito bene?», Tara, sistema il vassoio sopra al tavolino centrale, mi siedo e le sorrido.

È al nostro servizio da sempre.

   «Più o meno», mi porge l’I-pad, la schermata è già aperta sulle notizie sportive, in ordine, sulle pagine salvate ci sono le principali notizie riguardanti: Yale, la Brown, la Columbia, Dartmouth, Corbell e Harvard.

Sorrido beffardamente contro un articolo in particolare, in cui, Irvy Black, quarterback della Brown si è fatto fotografare fuori da un locale in pessime condizioni.

   «La sua vasca idromassaggio è quasi piena».

   «Grazie Tara, puoi andare».

Come sempre, prendo uno dei miei soliti bigliettini e glieli faccio scivolare nella tasca del grembiule non appena mi passa a fianco.

   «Ma signorino Walker, ne abbiamo già discusso», il suo sguardo so che mi è grato, ma riesco a leggerci anche il timore che io possa pensare che se ne stia approfittando.

   «Appunto, ne abbiamo già discusso. Adesso vai».

So che è ben retribuita per le mansioni che svolge alla villa, ma siamo pur sempre quattro uomini viziati da sopportare in tutte le loro esigenze, qualche compenso in più è oltremodo meritato.

Ingollo il mio succo d’arancia, leggendo l’ultima notizia sulla prossima partita tra noi, i Tigers di Princeton e i Bears della Brown.

Sento già la vittoria in tasca, non potrebbe essere diversamente con un quarterback alla deriva come Irvy, sfoga sempre la sua rabbia nei momenti meno opportuni e poco privati.

Sto per andare a godermi il mio bagno caldo prima dell’inizio della giornata, una delle più importanti della mia esistenza, quando mio fratello Neil, il mezzano della famiglia, fa il suo ingresso nella mia stanza.

   «Non si usa più avvisare?».

Io, essendo il maggiore, sono quello che cerca di coordinare al meglio le redini della famiglia, dal momento che nostro padre è sempre super impegnato con i suoi investimenti all’estero.

   «Volevo parlarti di quella faccenda», si siede sul divano vicino al grande camino.

Neil è quello che mi somiglia di più, ha i miei stessi colori, i capelli corvini, quello sguardo perso e smarrito che entrambi ci trasciniamo dietro, insieme all’aria da cattivo ragazzo.

   «Ti ho già detto che farò in modo che niente cambi», si riferisce alla nuova conquista di nostro padre, ignaro che sono stato proprio io a spingerlo tra le braccia di quella donna.

   «Lui non è mai in casa e lei proverà a comportarsi come…come», le mani si serrano in due pugni, le spalle si abbassano e si sollevano a ogni respiro che emette.

   «Nessuno potrà mai prendere il suo posto», gli prometto.

La perdita di nostra madre è una ferita ancora scoperta per tutti noi, in me ha lasciato uno squarcio che non potrà mai rimarginarsi.

   «Sono preoccupato per Noha», si riferisce all’altro nostro fratello, il minore.

Noha, dopo quel giorno, non è più lo stesso.

La sua rabbia è un’arma che rischia di esplodere in qualsiasi momento e, spesso i farmaci non riescono a donargli quella pace e tranquillità che disperatamente cerca di trovare.

   «Penserò io a lui».

Neil annuisce debolmente e torna nel suo appartamento, sapendo che non potrei mai e poi mai abbandonarli.

La villa è suddivisa in tre torri che si incastrano fra loro come se fossero tre anelli intrecciati: la torre centrale, la torre est e la torre ovest.

Io e i miei fratelli occupiamo la torre est con i nostri appartamenti e le nostre sale personali che utilizziamo per feste e cose simili.

La centrale è quella che destiniamo agli ospiti, ricca di ogni comfort e che noi stessi utilizziamo per unirci nelle poche volte in cui nostro padre decide di dedicarci un po’ del suo tempo, come se fossimo una famiglia normale.

La torre ovest è occupata da mio padre, la utilizza per i suoi incontri d’affari e non solo.

Una volta solo mi sfilo la vestaglia di seta dinnanzi allo specchio, osservo il riflesso di ciò che negli anni sono diventato.

Ho solo ventitré anni, ma porto il peso di un uomo di mezza età.

Guardo i tatuaggi che ricoprono il mio corpo e mi soffermo sulla stella a sette punte sorvegliata dal pianeta di Venere, poi, il mio sguardo vaga verso il mezzo teschio che imbratta il collo, le tre peonie che quasi timidamente sporgono al lato di quel nulla che cerco di colmare da sempre.

Mi immergo nella vasca, le narici vengono invase dal profumo emanato dai sali da bagno, chiudo gli occhi e cerco di rilassarmi, ma in questa casa sembra impossibile.

   «Hai letto l’articolo su Irvy?», Maxime, il mio migliore amico, nonché quarterback dei Bulldogs di Yale, fa il suo solito ingresso teatrale.

Non si cura che ho il mio uccello all’aria e che magari per sedare un po’ la tensione avevo intenzione di menarmelo un po’, no, perché prende e si mette comodo sul marmo rosa italiano del lavabo.

   «Buongiorno anche a te».

   «Hanno scritto che ha rotto il naso a uno dei buttafuori del locale», continua a leggere la notizia dal suo i-phone, «questa volta l’ha fatta grossa».

Sogghigno, allargando le braccia lungo il bordo della mia Jacuzzi.

   «Era esattamente quello che stavamo aspettando. Inoltre, avrà le ruote sgonfie per la partita di sabato prossimo».

Maxime abbozza un ghigno compiaciuto.

Io e lui ci conosciamo dai tempi dell’asilo, le nostre madri erano migliori amiche e Loren, la madre di Maxime, si è presa molta cura di noi dopo la tragica scomparsa di nostra madre.

   «Pensi che il Guardiano lo estrometterà?»

Lo spero.

    «Probabile, anche se in questo periodo non credo rischi di fare una mossa del genere. Gli serviamo tutti, rimpiazzare Irvy, dopo tutti questi anni non sarebbe semplice».

Maxime conviene con me e dato che il mio bagno rigenerativo è andato a farsi fottere, esco dalla vasca, mi lego in vita un asciugamano morbido e ancora grondante mi dirigo verso la mia cabina armadio.

Scelgo un jeans strappato tra i tanti che collezione e che lo stilista a cui mi sono rivolto, crea solo per me, abbinandoli a una camicia nera, le maniche rivoltate fino ai gomiti, lasciando in piena vista la serie di serpenti che mi incatenano il braccio.

Solo uno ha gli occhi di un rosso vivo come il sangue.

Infilo le mie Adidas del quale sono lo sponsor e sono pronto per uscire dalla tana, dal buco nel quale trovo ancora un po’ di normalità.

   «Andiamo a tastare un po’ il clima che corre per il campus».

   «Non aspettavo altro»

   «Sì, ma nel primo pomeriggio dobbiamo essere di rientro», apro una delle cassette di sicurezza con la mia impronta digitale e prendo le chiavi della mia Maserati Levante, praticamente sono il solo al mondo a possederla, dato che il modello sarà in vendita ufficiale non prima di sei mesi.

   «Il pacco arriva oggi?»

Sorrido malizioso, ripensando esattamente a quello sguardo, alla forma di quegli occhi, così profondi, di un verde che non può esistere in natura.

Penso alla sua innocenza, così pura e priva di peccato, da farmi scatenare nella mente una tempesta di fantasie, che vorrei farle scoprire lentamente, quasi fosse una tortura, raggiungere il culmine per sfiorare quell’oblio così bramato e carico di lussuria, da farti quasi implodere in un milione di pezzi.

   «Sì», scocco un’occhiata al mio orologio, un Patek Philippe, acquistato a un’asta per soli trenta milioni di dollari, il più costoso al mondo, solo per rimarcare il concetto che a questo mondo non c’è niente che non posso avere.

   «A quest’ora si staranno dirigendo verso l’aeroporto».

Quella notte alla Yatch Club mi pervade la mente per una manciata di secondi, il tempo sufficiente a ricordarmi che sto facendo la cosa giusta.

Dopo mezz’ora, raggiungiamo il jet privato, il pilota è vicino alla scaletta di ingresso che ci attende.

   «Signore è tutto pronto».

   «Perfetto», io e Maxime ci accingiamo a prendere posto, solo un’ora e mezza di volo e ci troveremo a Providence, precisamente alla Brown, a far visita al nostro amico Irvy.

 

 

L’auto privata che abbiamo affittato ci conduce al Campus, è sabato e solo in pochi hanno lezione, per tanto riusciamo a passare inosservata o almeno così crediamo, finché non capitiamo nella stessa traiettoria di un gruppetto di ragazze che, sembra essersi imbattuta nei suoi idoli preferiti.

Non posso negare che i nostri nomi rappresentano un alto potere nella Ivy League, siamo i quarterback più forti che la storia di questa lega ha avuto nel campionato della NCAA.

Peccato, che non sappiano che, se li viene concesso di respirare tra questi corridoi è solo perché noi lo rendiamo possibile.

Strizzo l’occhio a una delle ragazze, mentre le passiamo vicino, Maxime fa lo stesso, ma in maniera più rimarcata, lo strattono per un braccio, prima che si metta ad attaccare bottone, abbiamo altro a cui pensare, per adesso dovrà tenere, quello che lui chiama pitone, ben stretto nei pantaloni.

Superiamo un altro corridoio prima di raggiungere il campo da football, dove siamo certi di trovare Irvy, di fatti, come ci troviamo dinnanzi alla rete che costeggia il perimetro lo scorgiamo in mezzo agli attrezzi di allenamento.

   «Ehi, ne hai combinata un’altra delle tue», i piedi calpestano il manto verde del campo, mentre lo raggiungiamo.

Ha il volto scoperto, indossa solo le protezioni per l’allenamento, sorride beffardamente quando ci vede.

   «Mi stavo chiedendo quanto ci avreste impiegato a portare le vostre chiappe d’oro fin qui», si sfila le protezioni delle spalle e le lascia rovinare al suolo.

Irvy è la classica testa calda, diciamo che è la mina vagante del gruppo.

   «Non è colpa nostra se il tuo nome continua a romperci il cazzo nel fine settimana», gli faccio notare in tono poco amichevole.

   «Cosa vuoi Walker», mi si piazza a muso duro, so cosa sta cercando e, malgrado le mani prudono dal desiderio di accontentarlo devo mantenere la calma.

   «Solo che la pianti con le tue stronzate, ci stai mettendo in cattiva luce».

Ognuno di noi ha fatto un giuramento preciso.

Ognuno ha un compito da portare a termine.

Ognuno ha uno scopo ben preciso da raggiungere.

Siamo come le pedine di un domino, se ne cade una, potremmo crollare tutti.

E questo non posso permettere che avvenga.

Perché?

perché ormai vivo, cammino e respiro solo per il potere.

   «Come se te ne portasse veramente qualcosa», scuote il capo, in parte ha ragione, in realtà delle sue serate brave non me ne fotte un cazzo, ma se queste interferiscono con i nostri piani potrei diventare una belva pronta a cibarsi della sua preda.

   «Basso profilo, niente stronzate», lo afferro dalla maglia attirandolo a un respiro dal mio volto, «le tue cazzate, messe sempre sotto ai riflettori potrebbero condurre i giornalisti anche sotto al nostro culo. Non mi importa se vuoi spaccare il mondo solo perché ti senti di farlo, a me frega del fatto che con la tua merda puoi immischiare ognuno di noi».

Il suo comportamento poco convenzionale ha solo un vantaggio, quello di potergli fare il culo in campo.

Malgrado abbiamo stretto un patto, ogni squadra sul campo gioca per vincere.

   «Cercherò di rimediare».

   «Potresti fare una donazione al buttafuori a cui hai spaccato il setto nasale, sono certo che poi, rilascerebbe una buona intervista che ti salverebbe il culo» è Maxime a parlare questa volta.

Irvy non sa cosa ribattere e, onestamente, non gli conviene tirare troppo la corda perché se osasse spezzarla, ciò a cui andrebbe incontro non sarebbe di certo una passeggiata.

Si limita ad annuire, come se fosse un bravo cagnolino e io e Maxime ci affrettiamo a levare le tende dal suo territorio.

   «Torniamo a casa», mi calco gli occhiali da sole sul volto, trepidante all’idea di ciò che troverò al mio rientro.

 

 

Quando arrivo alla villa, passo dal retro della torre centrale, salgo le scale che conducono al primo piano e arrivo nell’esatto istante in cui mio padre dice: «Volete scendere, per favore».

Entrambi i miei fratelli si scoccano un’occhiata complice, ammiccando un ghigno quasi malevolo.

   «Non verremo da nessuna parte» intervengo facendomi spazio tra loro, poi, i miei occhi, arrivano come una valanga che la travolge, quando si posano su di lei.

La osservo con rabbia e non perché me la trovi di fronte, perché, il piccolo e innocente angelo dagli occhi verdi non ha idea che si trova a casa mia solo perché io ho voluto che fosse così.

La mia collera è data dagli shorts di jeans che indossa e dalla maglia troppo aderente che le strizza il seno quasi a sbatterglielo sul mento, sono certo che se si voltasse, le sue natiche sarebbero scoperte, gridando e pregando di essere colpite più e più volte dal palmo della mia mano.

   «Nowell, non fare il maleducato e insieme ai tuoi fratelli scendi immediatamente a salutare Charlotte e sua figlia».

Mio padre pretende di potermi comandare, ma è ignaro che sono io ad aver comandato lui senza che se ne rendesse conto, al solo scopo che portasse qui quell’angolo di paradiso di cui ho un disperato bisogno.

   «Avresti dovuto riunire i tuoi figli e parlargli di quelle che sarebbero state le tue scelte future per tutti e non parlo di me, sai bene che non me ne fotte nulla di chi ti scoperai per i prossimi mesi».

Parlo, le braccia incrociate al petto, mentre non mi sfugge il modo in cui lei sembra quasi rabbrividire alla parola scopare.

Forse sta pensando a quella notte, si starà chiedendo che cosa le sia successo e penserà esattamente quello che io ho voluto che le si annidasse nella mente.

Che le strisciasse addosso come un serpente.

Che la spogliasse di ogni certezza.

Che la rendesse completamente vulnerabile al resto del mondo.

Pronta per essere plasmata dal solo e unico che potrà averla.

Me .

Mi appartiene senza saperlo.

   «Lasciali Rufus, sono certa che quando saranno pronti vorranno fare la nostra conoscenza», Charlotte posa le sue unghie laccate sul braccio di mio padre che sembra arrendersi all’idea.

Chiama Tara, seguita dalle altre cameriere che scorteranno la nuova dama della reggia e sua figlia nelle loro stanze.

Non immagina minimamente che lei, Harley, finirà nella torre est, precisamente in uno degli appartamenti confinanti al mio.

Ci dividerà solo una porta, della quale solo io avrò la chiave.

Paziente, come un predatore che attende il momento giusto per scagliarsi contro la sua preda, torno nei miei alloggi sotto lo sguardo di rimprovero di mio padre.

Si aspettava che facessi la mia parte da fratello maggiore, che prendessi le sue difese e spronassi i miei fratelli a fare ciò che lui voleva.

Ma non ha ancora capito che non può comportarsi come se i suoi figli non esistessero, non parlo di me, ma dell’anello debole della famiglia, di Noha.

Avrebbe dovuto parlargli dell’arrivo di Charlotte, invece che si è degnato di anticiparglielo solo due giorni fa.

In parte, mi sento responsabile per aver alterato i precari equilibri di mio fratello, ma veglierò su di lui più di quanto non abbia fatto fino adesso.

Resto nel mio appartamento giusto il tempo affinché, la nostra ospite sistemi le sue cose, anche se sarà la servitù a farlo per lei.

Mi prendo un paio di minuti per immaginare come entrare nuovamente nella sua esistenza e ribaltarla, facendola crollare nel buco nero delle giornate che le spettano.

Afferro il pomello dorato, al centro, l’intarsio con l’iniziale della nostra famiglia, una W stilizzata.

È come se, pur da questa distanza, riuscissi a percepire la sua presenza.

La serratura scatta e senza chiedere un permesso che non devo mi appresto a entrare nel suo appartamento.

È più piccolo del mio e io stesso mi sono premurato che venisse arredato con i colori che ama, tinte che partano dal lilla al viola, tutte mescolate a quella punta di oro della quale non posso fare a meno.

Al centro del tavolo, questa mattina ho fatto portare delle peonie di un rosso quasi scarlatto, il profumo ne riempie l’ambiente.

   «Spero che la stanza sia di tuo gradimento», sobbalza alle mie parole, lasciando cadere a terra un maglioncino che teneva stretto tra le dita.

   «Tara, puoi lasciarci soli?»

   «Certo signorino», aspetto che esca, prima di iniziare il mio gioco, la mia sfida, per raggiungere il mio premio.

Lei.

   «Io…io ti conosco», balbetta e retrocede a ogni passo che avanza verso di lei.

   «Non credo», prendo una peonia dal vaso in cristallo e me la porto sotto al naso.

   «Sì, tu eri al Yatch Club», sorrido, mentre percepisco tutta la sua paura.

È come una scarica di adrenalina che mi scorre letale nelle vene, una droga della quale non ne hai mai abbastanza.

   «Vero, sono stato lì con alcuni amici»

   «Allora perché dici che non ti conosco, mi ricordo perfettamente di voi», il terrore dipinge il suo sguardo, quando si paralizza sentendo la tenda della vetrata dietro le sue spalle.

   «Non ho negato questo», il bocciolo di peonia sfiora il profilo del suo volto, i miei occhi affamati ne seguono ogni contorno, «ho solo detto che non mi conosci ed è vero, non hai la più pallida idea di chi sono».

Voglio che abbia paura di me.

Voglio sentirla tremare a ogni mio respiro.

   «Cosa…cosa è successo quella sera?», inclino il capo di lato, i petali del fiore scorrono lungo il suo collo dove la osservo deglutire a fatica, come quando ha lasciato che la guardassi, che la toccassi con i miei occhi, che ci scopassi con il suo sguardo che non chiedeva altro.

   «Tu, cosa pensi che sia successo?»

Cerca di spostarsi dal mio corpo che incombe su di lei, è così indifesa sotto la mia ombra oscura, lei, con quegli occhi così confusi e già smarriti ormai nel mio mondo.

   «Ricordo solo di essermi risvegliata in una della suite del club», mi oltrepassa e raggiunge l’angolo bar della stanza di ingresso dell’appartamento, dove un ampio salotto si apre dinnanzi a noi.

La seguo, lasciandole un po’ di spazio, almeno per adesso.

   «Hai voluto andare a quella festa, malgrado io non volessi».

Ma lei mi ha sfidato, il timore le screziava lo sguardo, ma era quella curiosità impellente ad averla spinta a dire di sì.

   «Tu eri lì, tu puoi aiutarmi a ricordare», si porta le mani a perdersi tra la lunga chioma bionda che le carezza le spalle, le copre la schiena e le sfiora il fondoschiena pronunciato, «alle volte mi sembra di impazzire».

   «Ricordiamo solo ciò che vogliamo, Harley», la raggiungo alle spalle, dove poso le mani contro, i palmi diventano roventi a contatto con la sua pelle che rabbrividisce.

   «Io ricordo solo di aver bevuto e ballato con tutti, ma non volevo che…»

   «Cosa? Che fraintendessero il tuo atteggiamento?»

   «Io non volevo», ripete, si volta e mi lascia annegare un po’ nel suo sguardo e io resto lì senza respiro per un tempo che non so quantificare.

Forse aveva ragione Maxime, questa ragazza sarà la mia rovina.

   « Non volevi che io ti salvassi? Che io scegliessi te? Spiegati», aggrotta la fronte confusa, come se facesse fatica ad assimilare il senso delle mie parole.

   «Mi hai salvato?»

Mi siedo sul divano vicino alla vetrata che affaccia sul retro del giardino dove è situato un piccolo lago artificiale di acqua calda, con cespugli di peonie che lo adornano tutto attorno.

   «Ho evitato che finissi nelle mani sbagliate».

Harley si stringe nelle spalle e poi si siede nella poltrona di fronte a me, in bilico sul bordo, come se fosse pronta per scappare da un momento all’altro.

   «Ma mi sono risvegliata nuda nel…»

   «Mio letto», termino io la frase per lei, restituendole un pezzo di quel puzzle incompleto.

   «Eri nuda perché l’alcol ti ha reso disinibita. Una volta che, di peso ti ho portata via dalla festa, assicurandomi che ti riprendessi nella mia suite, hai iniziato a spogliarti. Dicevi che avevi caldo, che sentivi il corpo formicolare, le tue mani erano affamate e si muovevano ovunque lungo le tue curve».

Le guance le si colorano di un rosa intenso, l’imbarazzo che prova è l’ennesima conferma di come sia un diamante grezzo, ancora da scalfire, ancora ignaro di saper brillare.

   «Quindi io…noi non…»

   «Non è successo niente quella notte, Harley. Hai solo preso una sbronza colossale».

Mi alzo in piedi per poi sporgermi su di lei, le mani ad ambo i lati del suo corpo che premono contro i braccioli della poltrona.

   «Se fossi stato dentro di te, non te ne saresti potuta dimenticare», le sussurro contro l’orecchio, lasciando che le labbra sfiorino il lobo.

Mi scosto, scrutando l’effetto delle mie parole sul suo volto.

Non si rende conto che la punta della sua lingua lievemente sente la necessità di lambire il labbro inferiore come se lo volesse nutrire di un bisogno che non ha ancora avuto.

Mi desidera, lo so dal primo momento in cui è comparsa nel mio campo visivo e, adesso ne ho la certezza, perché non prende e scappa via, ma resta qui a un soffio da me.

   «Non hai più bisogno di sentire il tuo strizza cervelli», sto per uscire dal suo appartamento per lasciarla inghiottire dalla miriade di domande che inizieranno a vorticarle per la testa.

   «Come…come fai a sapere del dottor Miller?».

   «Io so tutto quello che mi serve sapere, Harley, non dimenticarlo. Mai».

   «Ho ancora una domanda da farti».

Le dita affusolate tremano contro il tessuto leggero della maglia che indossa, afferrano il bordo e leggermente sollevano la maglia mostrandomi ciò che già so.

   «Perché mi hai marchiato addosso una stella?»

Sbottono la camicia il tanto che basta per mostrarle il mio costato, dove lo stesso simbolo è marchiato nello stesso modo sulla mia pelle.

   «Perché imparerai ad appartenermi, Harley».

Perché sarai mia, in maniera totalizzante.

Perché non esisterà altro oltre noi.

Perché siamo parte di uno schema.

Frutto di un codice che dobbiamo rispettare.

Perché sei la regina mancante della scacchiera della mia esistenza.

   «Adesso sai perché sei qui».

Senza darle il tempo di aggiungere altro, esco dalla sua stanza con la consapevolezza di aver appena messo radici nella sua anima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 3

Harley

 

  «Non volevi che io ti salvassi?»

«Che io scegliessi te?»

Fisso la grande porta a due battenti che sfiora il soffitto, dalla quale è uscito, con quelle parole che continuano a strisciarmi addosso.

Non riesco a capacitarmi di ritrovarmi proprio qui, con lui.

Nowell.

Lui che mi ha marchiato addosso questo simbolo, lo stesso che è inciso sulla sua stessa carne.

Senza rendermene conto lo sfioro con due dita, percependo i rilievi della pelle ancora rialzati.

Sono passati quasi due mesi da quella notte che ha messo in dubbio ogni mia certezza e, adesso, per lo meno, sembro avere la conferma di non essermi concessa a nessuno.

Sono stata una folle.

Una pazza.

Un’irresponsabile e, in parte continuo a esserlo restando ferma in quella che sembra essere una prigione di cristallo.

Eppure, non riesco a prendere le mie cose, ad andare da mia madre per raccontarle tutto, con la speranza che mi porti il più lontano possibile da qui.

Non lo faccio, perché la verità è che una parte di me, forse quella che non avevo previsto, quella che conosco meno, non vorrebbe essere da nessun’altra parte se non qui.

   «Imparerai ad appartenermi», la sua voce nella mia mente sembra ipnotizzarmi, mentre sento nuovamente quel formicolio che mi scorre forte e potente tra le cosce.

   «Se fossi stato dentro di te, non te ne saresti dimenticata» , serro le gambe più forte, mi mordo il labbro inferiore con la mano chiusa a pungo contro il tessuto della maglia che indosso e mi domando che cosa mi stia succedendo.

È come se Nowell, in così poco tempo, sia stato in grado di invadere i miei spazi più nascosti e renderli suoi in uno schiocco di dita.

Solo in una notte.

Solo in uno scambio di sguardi.

Senza parole.

Solo silenzi capaci di annidarsi.

I suoi occhi color cobalto sono un mare impetuoso, dove sei cosciente del fatto che, se solo ti immergessi in quelle acque, finiresti per annegare.

E io, io sento quasi il desiderio di sentirmi soffocata dal suo essere.

È malato.

È macabro.

È pericoloso.

Ma è anche eccitante.

La sua bocca carnosa è ancora qui, la sento sfiorarmi il lobo dell’orecchio e la immagino ovunque, domandandomi come sarebbe sentirla sulla mia pelle rovente.

Scuoto il capo, cercando di scacciare dalla mente ogni pensiero indecente e riprendo il controllo del mio corpo.

Faccio un respiro profondo e mi concentro su quella che sarà la mia nuova camera.

Certa che per adesso, sono troppo curiosa di scoprire perché sono qui.

Cosa vuole veramente da me?

Prendo le mie ultime cose dalla valigia, in attesa che arrivino gli altri scatoloni, entro nella cabina armadio, rendendomi conto che è grande quanto la mia vecchia camera da letto.

Mi ritrovo in un vero e proprio appartamento tutto per me.

L’ingresso si apre in un ovale, al centro, imperioso un tavolo rotondo dorato con sopra un altro vaso di peonie.

Mi avvicino e ne inalo il profumo.

Camminando per la stanza sfioro il divano viola scuro, curiosa raggiungo il grande camino, ne ho visto un altro anche in camera mia, poi scosto la spessa tenda della vetrata e mi godo il panorama che mi si staglia di fronte.

Il giardino sembra non avere confini, al centro un lago circondato da una moltitudine di cespugli di peonie di diversi colori, ne rimango quasi incantata.

Poco dopo, dall’angolo bar prendo un bicchiere e mi verso una spremuta d’arancia.

È tutto a mia disposizione e, sopra al banco in marmo nero c’è perfino un biglietto vicino al telefono: “ per qualsiasi cosa abbia bisogno non esiti a chiamare, al suo servizio Tara”.

Torno nella mia stanza, attraversando un piccolo corridoio composto da due ampie e alte librerie, resto quasi a bocca aperta, quando mi rendo conto che ogni titolo, è frutto di tutti i romanzi che ho letto nel corso di questi anni, mentre li prendevo in prestito dalla biblioteca comunale di Jacksonville.

Mi volto verso sinistra, costatando che dalla parte opposta, per ordine, sono disposti i titoli appena usciti degli stessi autori che avevo letto in passato.

Il profumo delle copertine rilegate e delle pagine mi investono come una boccata d’aria fresca e, per un attimo mi sento la protagonista di uno di quei romanzi che mi tenevano sveglia fino all’alba.

Decido di farmi una doccia, entro nel bagno ritrovandomi l’imbarazzo della scelta tra una vasca idromassaggio e una doccia enorme che funge anche da bagno turco.

Riempio la vasca, mi libero dagli indumenti e mi immergo, dopo aver scelto tra la selezione di bagnoschiuma profumati.

   «Vedo che non hai perso tempo ad ambientarti», strillo, coprendomi il seno con le braccia.

Il ragazzo di fronte a me è lo stesso che era affacciato alla balaustra quando sono arrivata, è uno dei fratelli di Nowell.

Ha i capelli di un castano chiaro, gli occhi di un nocciola caldo, ma il suo sguardo sembra privo di una qualsiasi emozione.

   «Chi sei?», scoppia in una fragorosa risata, si poggia con il peso del corpo contro lo stipite della porta aperta.

   «Siete tutte uguali», inizia a dire cose senza senso, prendendo a camminare avanti e indietro per il bagno, mentre io prego solo che se ne vada.

   «Pensi che non sappia che cosa avete in mente di fare tu e tua madre?», sbraita e, con un gesto della mano, getta a terra tutti i profumi che sono situati sul piano in marmo.

Il tonfo sordo delle boccette che si infrangono al suolo mi fa stringere nelle spalle, mentre il timore inizia a scorrermi nelle vene.

   «Noha!».

Nowell entra come una furia, afferra il fratello dalla polo che indossa e lo bracca contro la parete alle sue spalle.

   «Guardami!», gli ordina come se per un attimo la mente di suo fratello fosse altrove.

   «Ti fidi di me?»

Noha fa un cenno di sì con la testa, «non permetterò che accada nulla che non vorrai», gli promette, come se stesse parlando con un bambino di cinque anni.

Il fratello continua ad annuire e senza dire una sola parola se ne va.

Le spalle scoperte di Nowell si alzano e si abbassano freneticamente, come se l’aria che respirasse non gli bastasse.

Si volta verso di me, il dorso completamente coperto di tatuaggi sui i quali i miei occhi corrono cercando di capire i vari segni e simboli che hanno graffiato la sua pelle.

I pantaloncini da basket, calcati sui fianchi mostrano una V perfetta che si perde oltre il tessuto.

È muscoloso, ma non troppo, segno di anni e anni di allenamento.

Il suo corpo è un fuoco incandescente che può bruciarti, scioglierti, ridurti in cenere.

   «Non dimenticarti mai e poi mai di chiudere la porta a chiave», non me lo sto semplicemente chiedendo, ma me lo sta ordinando.

La mascella serrata e quello sguardo minaccioso che mi cola addosso travolgendomi.

   «Perché…»

   «Non ti è concesso fare domande sui miei fratelli o la mia famiglia, quindi, risparmia il fiato per altro», sorride malizioso e scompare dalla mia vista con lo stesso impeto con cui è comparso.

Non appena esco dalla vasca mi affretto a indossare un leggings nero e una maglia lunga senza maniche con una stampa astratta color argento al centro.

Infilo le mie Converse e decido di uscire fuori in giardino per chiamare il dottor Miller, ho bisogno di parlare con lui.

Esco dall’appartamento trovandomi nel mezzo di un corridoio troppo lungo.

Vetrate stondante si alternano lungo la parete di mattoni, lasciando che il sole illumini il pavimento di marmo rosa.

Cammino, completamente disorientata su dove mi stia dirigendo.

Quando Tara, la cameriera, mi ha accompagnato nella mia stanza, ero talmente sotto shock per essermi ritrovata davanti Nowell che non ho badato a guardarmi intorno per memorizzare la strada.

L’unica cosa che so è che mi trovo al terzo piano, quindi la cosa più semplice che posso fare e scendere le scale.

Le scorgo in lontananza e tiro un respiro di sollievo, iniziando a scendere gradino dopo gradino.

Solo, che una volta raggiunto il secondo piano, ho la certezza di essermi persa.

Un’ampia sala si apre di fronte a me, al centro una piscina, lo specchio d’acqua si dipinge in maniera alternata di colori differenti, la osservo, restandone incantata.

Non avevo mai visto niente del genere, se non in qualche film.

È tutto così fuori dalla mia portata che non posso fare a meno di sentirmi inadeguata a ciò che mi circonda.

Io, che fino a qualche giorno fa servivo le stesse persone che potevano possedere tutto questo, adesso sono qui per iniziare una vita che non mi appartiene.

Sfilo il cellulare dalla piccola tracolla che ho indossato, mi accerto che ci sia campo e, dal momento che non vedo nessuno nei paraggi, mi siedo su una delle comode sdraio a bordo piscina.

Di fronte a me una vetrata enorme quanto l’intera parete mi mostra l’altro lato del giardino.

Resto in attesa, mentre il cellulare squilla a vuoto.

   «Harley?»

   «Dottor Miller, la disturbo?», lo sento dire qualcosa a qualcuno e poi i suoi passi che rimbombano in quello che sembra un corridoio.

   «Dimmi tutto, stai bene?»

No, non sto bene, perché ciò di cui ho parlato in tutte quelle sedute si è materializzato di fronte ai miei occhi.

   «Ho incontrato uno dei ragazzi della festa».

   «Bene, sei riuscita a parlargli?»

No, sono riuscita a sprofondare ancora di più in quel suo mondo, che mi attira come una calamita, al quale non riesco a sottrarmi .

   «Mi ha detto che…che nessuno si è approfittato di me».

È la sola cosa che riesce a rincuorarmi.

Per tutto questo tempo, senza un ricordo permanente, ho creduto di aver perso una parte di me nel modo peggiore che potesse accadere.

   «È una cosa importante questa, Harley. Tutte le tue paure erano radicate in questo buco nero che non riuscivi a colmare».

No, la verità è, che tutte le mie paure erano e sono radicate in un perfetto estraneo dagli occhi color cobalto, con il quale condivido lo stesso tetto.

   «Sì, ha ragione».

  «Non hai più bisogno del tuo strizza cervelli».

Un brivido mi cosparge da capo a piedi, mentre mi domando quanto e cosa sappia della mia vita.

Una miriade di domande si sovrappongono una sull’altra, facendomi perdere l’equilibrio sulla mia esistenza.

   «Sei arrivata nella tua nuova città?»

Sto per rispondergli, quando il mio cellulare fa un volo dentro la piscina., dopo essermi stato strappato brutalmente.

Scatto in piedi, Nowell al mio fianco, con quell’aria di potere stampata in faccia.

   «Che diamine ti salata in mente», indico il fondo della piscina, dove il mio cellulare, ormai privo di vita, giace.

   «Ti avevo detto che non hai più bisogno del tuo strizza cervelli, dovresti imparare ad ascoltare, Harley», scandisce il mio nome con una certa enfasi, per poi, oltrepassarmi e dirigersi verso l’angolo della sala dove è situato un altro angolo bar.

   «Io non prendo ordini da te. Si può sapere che cosa vuoi da me?»

Scoppia in una risata che mi artiglia l’anima, così bassa e priva di emozioni che mi fa tremare le gambe.

   «Oh, tu farai esattamente tutto quello che ti dirò».

Si versa da bere e si volta verso di me, «e sai perché?».

Scuoto il capo, incrocio le braccia al petto sentendo il bisogno di coprirmi, di difendermi dalle sue parole, da lui.

   «Perché è esattamente quello che desideri dal primo momento in cui mi hai visto».

Deglutisco a fatica, come se d’un tratto avessi un intero deserto a colmarmi la bocca.

Dinnanzi a lui mi sento sempre come se avessi una sete che non riesco a placare.

   «E…e se non volessi obbedirti?», un’altra risata colma lo spazio circostante.

   «Vedi», le gambe sporgono da ambo i lati della seduta, i gomiti premuti contro le ginocchia e le mani che tengono stretto il bicchiere al centro della sua persona, non mi guarda, fissa il liquore ambrato, «lo farai, Harley e lo dimostra il fatto che sei ancora qui», si alza in piedi e mi raggiunge con ampie falcate, i muri sembrano quasi spostarsi al suo passaggio, così possente e imperioso.

   «Avresti potuto andartene», poggia il bicchiere su uno dei pouf bianchi, il dito medio si immerge in quel liquido per poi finire sopra la mia bocca, me lo sfrega forte, passando dal labbro superiore a quello inferiore, «invece sei ancora qui, di fronte a me, pronta a voler scoprire che cosa sarò in grado di farti. Non è quello che vuoi?»

A ogni suo movimento, d’istinto le mie labbra si schiudono abbracciando il polpastrello, assaporando l’amaro del liquore che si sposa con la sua pelle.

I nostri sguardi si incastrano fra loro in una danza bollente, i suoi mi penetrano dentro con prepotenza, con potere, sottomettendomi al suo volere, senza che abbia la forza di sottrarmi.

Il suo dito si spinge all’interno della mia bocca.

   «Succhia!», ordina e io esaudisco non un suo desiderio, ma un mio.

È dall’esatto momento in cui me lo ha sfregato contro la bocca che volevo farlo e adesso lo faccio.

Succhio avidamente il suo dito medio che ruota attorno alla mia lingua che lo lambisce, così, senza vergogna.

Senza pudore.

Senza che ci conoscessimo abbastanza per doverlo fare.

È come se mi sentissi completamente risucchiata da un vortice impetuoso che mi strappa dalla mia esistenza, per sbattermi con prepotenza in un mondo che ha il sapore del proibito, di un angolo di inferno, nel quale sento le fiamme lambire la mia anima immacolata ed è tutto così perverso.

E mi piace.

Nowell sfila il suo dito dalla mia bocca e se lo porta nella sua, succhiando forte il mio sapore.

Una scossa mi si insinua tra le cosce, inizio a sentirmi fremere dal desiderio che cresce sempre di più, mentre sono ammaliata dalla sua bocca carnosa.

   «Non è stato poi così difficile obbedirmi», mi scosta una ciocca, avviandola dietro all’orecchio, «so che ti è piaciuto, Harley e ti prometto che sarà sempre meglio».

   «Perché io?», mi prende il mento con due dita sollevandolo il tanto che basta a far sì che non sfugga via dal suo sguardo.

   «Lo capirai, lo capirai».

E con solo quelle parole, se ne va lasciandomi sola.

 

 

A cena mi dirigo nella torre centrale.

Tara, sicuramente mandata da Nowell, è venuta a recuperarmi nella sala piscina e, gentilmente mi ha spiegato come raggiungere le varie torri.

Certo, mi ci vorrà un po’ per memorizzare tutte le varie scale che portano in svariati punti delle tre torri, ma per lo meno non mi sono persa.

   «Sugar», mia madre mi viene incontro come se non mi vedesse da chissà quanto, «domani verrò a vedere la tua stanza», mi accarezza il volto.

   «È solo una stanza», minimizzo con poca educazione e prendo posto nella grande tavola rettangolare capace di ospitare almeno venti persone.

Peccato, che per la cena siamo solo noi tre, io al centro, mia madre da un lato del capo tavola e Rufus dall’altro.

Fortuna che ci sono i maggiordomi a servirci, altrimenti, per passarci le portate avremmo dovuto lanciarle a tutta velocità contro il legno lucido del tavolo.

   «Spero che ti piaccia la tua camera», Rufus cerca di intraprendere una conversazione.

Mi viene servito l’antipasto, ringrazio il maggiordomo.

   «Sì, non era necessario che fosse così grande».

   «Harley», mia madre mi riprende come se avessi appena detto un’eresia.

   «Qui, ognuno di noi è abituato ad avere i propri spazi, Harley. Vedrai, ti tornerà utile quando vorrai startene per conto tuo».

Non vedo come sia possibile, con una reggia simile, parlare di voler avere i propri spazi.

Credo che sia quasi impossibile riuscire a incontrarsi.

   «Hai già pensato a cosa farai?».

Addento il mio melone servito con del prosciutto crudo artigianale.

   «Domani ho un colloquio di lavoro a…»

   «Lavoro?», Rufus guarda mia madre con uno sguardo di disapprovazione.

   «Harley, ne abbiamo già parlato», interviene lei, lanciandomi un’occhiata di avvertimento.

Stento quasi a riconoscere la donna che mi ha messo al mondo e siamo qui solo da poche ore.

Certo, forse, dovrei essere l’ultima a dispensare giudizi, quando, poco fa avevo il dito medio del figlio di Rufus nella bocca mentre lo succhiavo voracemente.

   «Sì, appunto, ne abbiamo già parlato. Ho mandato alcuni curriculum a…»

E per la seconda volta Rufus non mi fa finire di parlare.

   «Harley», posa le posate sul piatto, le mani incrociate tra loro sotto al mento, «non posso permetterti di lavorare nella mia città. Ne andrebbe della mia fama. Cosa penserebbe la gente vedendo la figlia della mia compagna che lavora?»

   «Che lei vuole essere indipendente, forse?»

   «Avrai la tua indipendenza ugualmente, ti basterà solo portare ottimi risultati a casa riguardo agli studi».

Mi alzo dal tavolo senza aver terminato di mangiare e senza aver chiesto uno stupido permesso.

   «Io non frequenterò l’università».

Sto per uscire dalla sala da pranzo, quando la sento, la sua voce.

Nowell.

   «Lunedì, tra una settimana, avrai il primo incontro con gli insegnanti e sarò io ad accompagnarti».

Lo guardo da sopra la spalla e senza aggiungere altro decido di tornare nel mio appartamento.

Non posso credere che sia tutto deciso.

Sto per aprire la porta, quando la sua mano afferra il mio braccio strattonandomi, mi fa voltare in uno schianto, facendo aderire la mia schiena contro la porta, il suo corpo a sfiorare il mio.

   «Andrai alla mia fottuta scuola perché dev’essere così. Non vuoi? Non me ne fotte un cazzo», la sua stretta aumenta contro le mie spalle, mentre mi tiene immobilizzata, il suo respiro mi solletica le labbra.

   «Ci andrai perché io sarò lì e ti controllerò. Tutti sapranno che sei mia e a te piacerà questo, mentre gli occhi di chi ti guarderà, saprà di non poterti mai avere, perché mi appartieni».

   «Io non appartengo a nessuno», lo sfido, sentendolo respirare rumorosamente, un verso strozzato, come fosse un ringhio affoga nella sua gola.

Le dita a stringermi le guance.

   «Tu. Appartieni. A. Me», la mano libera si intrufola dietro la mia schiena, resto in attesa, aspettando chissà cosa, ma sento solo la serratura della porta aprirsi.

Nowell mi spinge dentro e si chiude la porta in faccia, lasciandomi nuovamente sola.

Io appartengo a lui?

È tutto così assurdo.

Come si può appartenere a qualcuno che non si conosce, verso il quale, certi sentimenti, non hanno avuto ancora il tempo di nascere.

Vado verso la mia stanza, intenta solo a sprofondare nel letto per abbandonarmi a un sogno senza sogni, quando un libro posato sopra al mio letto attira la mia attenzione.

Lo prendo e mi siedo, passando le mani contro la copertina di pelle invecchiata dal tempo, nessun titolo impresso sul davanti.

Lo apro e trovo un biglietto che mi scivola sul grembo:

“Leggilo solo quando ti sentirai pronta per capire”

Sfoglio la seconda pagina e gli occhi si spalancano per lo stupore, trovando inciso la stella dalla sette punte, la stessa che sia io, che Nowell, portiamo marchiata addosso.

Ma cosa significa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 4

Nowell

 

Indosso la divisa della Princeton, i colori della scuola, arancione e nero, riflettono anche quelli della mia squadra, i Tigers.

Butto giù l’ultimo sorso di caffè, afferro le chiavi della Maserati e senza neanche degnarmi di bussare mi intrufolo nella sua stanza.

Harley, non appena mi vede, sobbalza per lo spavento, si porta un asciugamano al petto per nascondermi le sue curve che ho ancora impresse nella mente da quella notte.

Me la prendo comoda e mi poggio contro una delle colonne della sua camera, ho lasciato che in questi giorni si ambientasse un po’ tra queste mura, in questa città

Ho saputo che lei e la madre sono andate in centro a far conoscere al resto dei cittadini la nuova conquista della famiglia Walker.

Loro.

   «Ho chiuso a chiave», sorrido di fronte alla sua ingenuità.

   «Io ho la chiave di tutto Harley, non dimenticarlo. Mai.»

I miei occhi corrono sulle sue gambe scoperte, i capelli ancora bagnati appiccicati alle spalle nude.

È una visione che mi brucia addosso, mentre le mie mani vorrebbero solo toccare ogni porzione del suo corpo ancora inesperto.

   «Finisco di prepararmi», tenta di rifugiarsi in bagno, di nascondersi dai miei occhi e solo per questa volta glielo concedo.

Devo entrare nella sua esistenza un passo alla volta, senza avere fretta di rovinare ogni cosa, non dopo essere arrivati fino a questo punto, dal quale non mi è più permesso tornare indietro.

Quando torna al centro della stanza con la divisa del campus addosso, mi rendo conto che non sarò l’unico a non staccargli gli occhi di dosso.

La gonnellina nera l’accarezza fino a metà coscia, la camicetta arancione, sembra una seconda pelle contro quelle colline morbide, la cravatta, dipinta a strisce alternate di entrambi i colori, non fa altro che farmela immaginare attorno ai suoi occhi, mentre la bendo e apro le porte della sua iniziazione.

   «Andiamo», prendo la borsa che le avevo preparato nella mia camera e gliela porgo.

   «Qui ci saranno parte dei libri di testo che ti serviranno per oggi, il resto li trovi nella biblioteca della nostra torre».

Se la porta su una spalla, iniziando a sbirciare al suo interno e usciamo dai suoi alloggi.

   «Sono tutti testi per…»

   «Letteratura», termino io la frase per lei.

   «Come…come facevi a sapere che se solo avessi potuto frequentare una qualsiasi università, avrei scelto questo, come corso primario?»

Non mi sfugge il suo sguardo screziato da un misto di confusione e gioia che si danno battaglia.

Percorriamo le scale principali fino a ritrovarci all’ingresso della torre centrale.

    «So molte cose sul tuo conto, Harley».

Tara, come ogni mattina in cui mi reco al campus, è vicino al portone per porgermi alcune, chiamiamole ricerche, che le avevo chiesto di farmi avere.

   «Grazie».

Usciamo nel cortile di ciottoli e raggiungiamo i box delle auto nello stesso istante in cui anche Neil e Noha si apprestano a farlo.

   «Non metterci in imbarazzo».

Noha fulmina Harley con lo sguardo, hanno la stessa età e questo significa che potrebbero seguire gli stessi corsi, per questo mi sono premurato che gli orari di Harley non potessero mai coincidere con quelli di mio fratello.

È parte di me, vivo per i miei fratelli, ma non posso negare a me stesso quanto lui possa essere meschino e pericoloso senza il minimo sforzo.

   «Non gli rispondere», l’avverto, mentre le porte dei box si aprono sotto ai nostri occhi.

Noi saliamo sulla mia Maserati, Neil prende la sua R8 nera metallizzata.

Ci scambiamo uno sguardo complice e ho la certezza che si occuperà di Noha, mentre io non potrò essere presente.

Usciamo dalla tenuta, il sole si riflette sul profilo di Harley, perso oltre il finestrino, mentre si gode il panorama che ci sfreccia a fianco.

   «Voglio sapere una cosa», non le rispondo, restando in silenzio attendo che parli.

   «Non so perché sono qui e, tanto meno riesco a capire quello che mi dici. Partendo dal fatto che mi hai scelto. Che mi hai salvata. Dici che ti appartengo e…»

   «E, malgrado tutto questo ti appare come una follia, sei esattamente dove non dovresti stare, secondo la tua razionalità, al mio fianco».

Deglutisce a fatica, le mani strette fra loro lungo il grembo.

   «Ti ho portato fino a qui per un motivo, è vero. Uno scopo che capirai nel tempo, ma non ti obbligo a restare. ti obbligo a eseguire i miei ordini solo nel mio contesto, ma nel momento in cui te ne andrai, se mai lo farai, io non farò niente per riportarti da me.

Significherà soltanto che tu non sei la persona giusta».

Guardo ora lei, ora la strada.

Mi eccita la confusione che riesco a creare nella sua testa, ma ciò che le ho detto è la verità.

Lei è qui perché l’ho voluto io.

Ma resta perché è lei a volerlo.

Restiamo in un piacevole silenzio fino al campus, lascio che tutti i suoi pensieri si riordino poco per volta nella mente.

Posteggio al mio solito posto, quello riservato a chi conta all’interno delle quattro mura che si stagliano dinnanzi a noi.

Princeton sembra un vecchio castello inglese risorto da una qualche favola.

La sua torre che svetta su tutta la tenuta a indicare il tempo.

I maestosi giardini abbracciano le mura antiche e i piccoli sentieri per spostarsi da un dipartimento all’altro.

Gli alberi secolari si ergono imperiosi sui vari prati di un verde smeraldo baciato dal sole.

   «Da questa parte», la prendo per mano, la sento titubante, ma poi le sue dita si incastrano alle mie, come due metà perfette che sono state disegnate e poi spezzate fino a questo momento.

Gli sguardi di tutti quelli che incontriamo sono puntati su di noi.

Le ragazze spettegolano fra di loro, i ragazzi comprendo il chiaro segnale.

Lei è off limits.

La scorto fino alla segreteria, dove l’addetta ha già gli orari dei suoi corsi pronti da essere consegnati.

Non perdiamo tempo, ci mettiamo in un angolo, lontano da occhi indiscreti.

   «Questa è la mappa del campus, impererai presto a destreggiarti tra i corridoi, non è così complicata», le mostro le vie più brevi per raggiungere le varie aule dove avrà lezione.

   «Questi sono i tuoi corsi con gli orari delle lezioni e i professori ai quali far riferimento».

Mi ascolta attentamente, la vedo, l’emozione che le lambisce lo sguardo, lasciando teso il suo volto, con quel sorriso timido che le si affaccia sulle labbra.

   «Ora ti accompagno alla prima lezione, da quel momento in poi dovrai cavartela da sola, ma per qualsiasi cosa tieni questo».

Sfilo dalla tasca un cellulare nuovo di zecca e glielo porgo.

   «Ho registrato tutti i numeri di cui potresti aver bisogno, il mio è il primo della lista e mi aspetto che tu lo utilizzi per qualsiasi evenienza».

   «Cosa mai potrebbe succedermi?»

mi fa incazzare il suo essere così innocente, senza alcuna malizia, eppure, ha servito per anni questo tipo di persone che adesso la circonderanno per troppe ore al giorno.

   «Tu, usalo!».

Senza attendere una sua risposta la riprendo per mano e l’accompagno alla sua prima lezione.

Alcuni ragazzi che incontriamo mi salutano, altri fremono dal desiderio di farlo, ma sono quello che è definito l’irraggiungibile e solo io decido chi merita la mia attenzione, non ho tempo da perdere.

   «Eccoci arrivati».

Non posso fare a meno di guardarla un’ultima volta, prima di lasciarla sola in mezzo al branco di squali che cercheranno solo di sbranarla.

Entriamo nell’aula magna e il professore di letteratura, che la seguirà per tutto l’anno, si alza in piedi non appena mi vede.

   «Prego».

   «Ho solo accompagnato la mia futura sorellastra», Harley si volta verso di me come se stesse cercando di assimilare il senso delle mie parole.

Forse ha dimenticato che se mio padre sposerà sua madre lei entrerà a pieno titolo a far parte della famiglia.

O forse, si aspettava che questo mio tenerla per mano significasse altro?

Non sono fatto per certe emozioni.

Non conosco certi sentimenti, non mi sono mai lasciato sfiorare dal loro calore.

Ho solo voluto conoscere il dolore.

Il mio essere protettivo, rimarcando il mio territorio, è solo un modo per accertarmi che nessun membro della mia famiglia rischi di essere preso di mira da qualche idiota, che vuole deliberatamente suicidarsi.

   «Prego, signorina Jones, la stavamo aspettando».

Prima che prenda posto nella prima fila, mi sporgo verso il suo orecchio, «fai la brava bambina», trattiene il respiro, le strizzo l’occhio ed esco dall’aula.

 

 

Dopo gli allenamenti sono diretto al solito posto, come ogni primo lunedì del mese.

Il mio jet privato è pronto al decollo, mi accomodo sulla poltrona e aspetto che Maxime mi raggiunga, è il solito ritardatario, constato osservando il mio orologio da polso.

   «Bellezza, portami una vodka liscia», si rivolge alla hostess di bordo.

   «Oggi non è giornata», si sfila la giacca di Yale e la lancia lungo il sedile a fianco, «quel coglione di Jordan non si è presentato agli allenamenti», si lamenta del suo defensive.

È particolarmente sotto stress per via della partita imminente contro i Leoni della Columbia.

Per noi, non sono semplici partite che vogliamo vincere per la nostra università, o per i nostri tifosi, o semplicemente per apparire i migliori agli occhi degli scout della NFC.

No, perché in queste partite si decide il futuro di ognuno di noi, scelte, azioni, sacrifici, ogni cosa viene messa in discussione, ogni equilibrio diventa precario e il potere è il solo obbiettivo da raggiungere.

   «Sono certo che ce la farai».

Maxime si scola d’un fiato la sua vodka, mentre io mando un messaggio ad Harley:

   “Stasera cenerai con me, nella mia camera!”

Non è quello che verrebbe definito in un invito galante, ma non rispecchierebbe la mia natura se lo fosse.

Arrivati a destinazione, scendiamo dall’auto presa a noleggio e ci addentriamo all’interno del palazzo, il prestigioso museo del Met di Manhattan.

Percorriamo i vari corridoio fino a dirigerci nella sala dei dipinti, dove spiccano le opere di prestigio degli artisti più famosi e celebri del mondo del passato.

Ci fermiamo di fronte a un’opera in particolare, dove una donna sembra fluttuare in balia dell’ignoto.

Mi basta guardare un punto in particolare del dipinto, verso la grotta oscura, affinché, la parete di fianco al dipinto diventi mobile.

Ci guardiamo attorno, certi che non ci siano persone che possano vederci, le telecamere di sicurezza per dieci minuti riprenderanno le stesse immagini a circuito chiuso, facendo in modo che nessuno possa scoprirci.

   «Andiamo», spingo la parete e poco dopo io e Maxime ci troviamo a percorrere una lunga scalinata fino al punto di ritrovo.

Una sala ovale, al centro la stella a sette punte, ognuno dei sette prende posto alla fine di ogni punta, in attesa che il guardiano, posizionato al centro di essa, inizi a parlare.

   «Ci sono parecchi punti da chiarire», il manto rosso che indossa si dirama al suolo, il capo, anche esso coperto da un cappuccio, il volto nascosto dietro una maschera bianca, con al centro disegnato il sole.

Nessuno di noi conosce la sua vera identità.

   «Il dominio, quello che chiamiamo potere, deve essere totalitario e mi sembra che, in alcuni dei vostri territori non sia del tutto così».

Siamo i sette prescelti nelle sette scuole della Ivy League solo ed esclusivamente per un motivo: decidere il futuro.

Noi muoviamo i fili all’interno e fuori dal campus, facendo in modo che ogni persona che si laurea al campus, guidata e scelta da noi, sia pronta a servirci senza riserve.

Avvocati, Giudici, Medici, ogni grado di laurea e specializzazione serve solo per avere le redini dell’intero paese.

Guidiamo le più importanti e illustre università della storia degli Stati Uniti d’America.

La maggior parte dei Presidenti che sono saliti a capo della nazione sono passati per queste università.

Noi ci occupiamo di scegliere i soggetti che, una volta fuori di qui, saranno pronti a giurare la loro fedeltà alla causa.

Noi.

Il loro torna conto? Semplice, nella vita faranno ciò che hanno sempre desiderato, senza aver dovuto faticato molto per ottenerlo.

   «Ho avuto qualche intoppo, ma sto provvedendo», Irvy Black, il Wrath della seconda punta della stella, cerca delle scusanti per aver perso un accordo che ci avrebbe fruttato milioni di dollari.

Perché alla fine, sappiamo tutti che ogni cosa gira attorno al Dio denaro.

   «Intoppo? Lo definisci intoppo, la perdita che ci hai fatto subire? Credevo di aver scelto la persona giusta, o forse, mi sono sbagliato?».

Irvy sbianca in volto, essere estromesso dall’ordine significa perdere ogni cosa.

Chi ha governato prima di noi gode ancora dei privilegi che l’ordine ha lasciato sul suo cammino.

   «Posso provare a rimediare», mi propongo, come al mio solito amo le sfide, ma soprattutto, mettere sotto al mio comando il prossimo.

   «E sentiamo, come pensi di fare?»

Caleb Scott, quarterback dei Lions della Columbia, il Greed della terza punta, nonché braccio destro di Irvy, mi sfida.

Abbozzo un ghigno compiaciuto per il suo coraggio.

   «Semplice, sono certo che se Bowell parlasse con qualcuno di più esperto accetterebbe senza riserve».

Bowell, è il figlio del Senatore dello stato di New York, si laureerà nei prossimi mesi in legge.

Dobbiamo portarlo dalla nostra parte per fare in modo che grazie all’influenza del padre, faccia esattamente ciò che vogliamo.

Ogni persona, nei diversi campus è semplicemente un carré di assegni che cammina.

Bisogna solo avere la fortuna di intascarne uno e il gioco è fatto.

Qualcuno potrebbe pensare che il figlio di un noto senatore non abbia bisogno del nostro aiuto per inserirsi nella società o cazzate varie.

Ma non sa quanto si sbaglia, perché spesso, questi ragazzi non sono così svegli come sembrano, anzi, diciamo che hanno letteralmente bisogno di qualche spinta.

   «Allora, dal momento che ti reputi tu l’esperto, lascio a te l’incarico di dissuaderlo, ma a una condizione»

   «Quale?», le mani serrate in due pugni, mentre incenerisco Irvy con lo sguardo.

   «Voglio essere io a occuparmi della prescelta».

Harley.

Il seme della rabbia mi corrode dall’interno.

Sono stato io a strapparla dalle sue viscide mani quella notte e non lascerò che la tocchi o che le si avvicini, almeno non per il momento.

   «La ragazza è già a casa mia, dovete solo darmi il giusto tempo affinché la inizi al nostro rito».

   «Manca meno di un mese all’allineamento dei pianeti, Lust», mi rammenta il guardiano, ricordandomi che per quella notte in cui ogni cosa sarà messa in equilibrio, noi, nel nostro mondo oscuro lo infrangeremo generando il caos.

È per questo che lei è qui.

Che è entrata nella mia vita.

   «Non deluderci, Lust», mi avverte Ethan Willson, quarterback della Corbell, il Pride della quarta punta.

Discutiamo di altri punti e Irvy torna all’attacco, proponendo quello che temevo.

   «Perché non ci giochiamo la bionda in campo?»

È sempre stato così, per tutte le volte che non raggiungevamo un accordo, le due squadre che si sarebbero scontrate, non avrebbero giocato solo una semplice partita, ma sarebbero arrivati a far pendere la bilancia verso la scelta migliore.

   «Nessun problema, fai conto di aver già perso».

Tutti ci ritiriamo dalla stanza ovale e torniamo alla vita normale, quella che si svolge alla luce del sole, dove nessuno minimamente immagina che cosa possa scatenarsi in un sottosuolo di un museo.

   «Quel bastardo vuole fartela pagare».

Maxime monta in auto con me, e io non faccio altro che pensare al guanto di sfida che mi ha lanciato Irvy.

 

 

***

 

 

Due mesi prima

 

 

Quest’anno, prima dell’inizio ufficiale della scuola siamo a caccia.

Alla ricerca della ragazza perfetta.

Quella che si unirà a noi.

Al nostro servizio.

Ai nostri giochi.

E la vedo, stretta nella sua divisa, mentre si aggira fra i vari tavoli dello Yatch Club.

   «Voglio lei!».

Gli altri si girano tutti verso di me e poi, osservano con il mio stesso interesse la ragazza dagli occhi verdi.

   «Potrebbe andare».

Irvy commenta con la sua solita aria da viscido bastardo.

   «Spetta a me la scelta», gli ricordo, riferendomi al rito a cui tutti prenderemo parte per la prima volta.

   «Oppure, semplicemente a chi riesce ad arrivarci prima».

Non perde occasioni di sfidarmi.

Ma non mi lascio di certo intimorire da lui e inizio a concentrarmi su di lei.

Sul suo corpo sinuoso, sui suoi capelli di un biondo intenso, sulle sue gambe scoperte e, nella mia mente inizia a fluttuare il desiderio di cosa vorrei farle.

Dopo essere stato nel suo sguardo, la ragazza, che scopro chiamarsi Harley, dalla targhetta spillata alla sua camicetta, torna al nostro tavolo per prendere un ordinazione.

   «Ditemi ragazzi, cosa posso portarvi?», sono dietro di lei che mi inebrio del profumo fruttato dei suoi capelli, mentre sento il calore del suo corpo che si propaga verso il mio.

Ha il sapore della droga, quella che sa creare solo dipendenza.

Quella che può mangiarti l’anima.

Annientarti i pensieri.

Ma la cosa che percepisco più di tutte è che lei sa di purezza.

Come un angelo bianco, ignara di precipitare nelle fauci dell’Inferno.

   «Dopo andiamo a una festa, ti va di unirti a noi?», domanda uno dei ragazzi.

   «Irvy!»

   «Rilassati Nowell è solo una festa, cosa mai potrebbe succedere?»

Quel bastardo ha fatto la sua mossa prima che io potessi compiere la mia.

Ma non glielo permetterò.

   «Perché no?», risponde lei, mentre il mio sguardo cercava di metterla in guardia, di ammonirla da una simile follia.

Quale ragazza si unirebbe a un branco di sconosciuti?

Dopo due ore, siamo tutti riuniti nella suite di Irvy, oltre a noi, ha invitato anche alcune ragazze che sono certo abbia pagato solo per non far sentire Harley, la sola ragazza che avrebbe partecipato a questa assurdità.

   «Gliela lasci a lui?», Maxime, il mio migliore amico si siede al mio fianco, mentre io l’ammiro ballare senza vergogna, senza pudore.

   «Lei è già mia».

La osservo senza perderla d’occhio, danza con le braccia sollevate verso l’alto, i fianchi ancheggiano a ritmo di musica e gli altri coglioni che sono con me non perdono tempo a metterle le mani addosso.

Porca puttana!

Impreco, senza riuscire a comprendere perché mi dia così fastidio.

Ma invece, lo so, lo sento.

È quella strana alchimia, quell’elettricità che ho percepito quando c’era solo un respiro a tenerci divisi.

In lei c’è un mondo che mi supplica di essere scoperto.

Ci sono desideri che non dovrebbero essere espressi.

Ma lei è il solo grido al peccato che voglio esaudire.

   «Non credi di aver bevuto abbastanza?», le tiro via il bicchiere mezzo vuoto dalle mani e lo poso su uno dei tavolinetti della stanza.

   «Ho solo voia…vogia…voglia di divertirmi», biascica cercando di coordinare le parole che cercano di fare capolino nella sua bocca carnosa.

D’istinto e senza alcun diritto la sfioro con il pollice, trattiene il respiro e schiude la bocca come se volesse di più.

   «Potrei punirti per questo».

   «Per…per cosa?», la curiosità screzia lo smeraldo del suo sguardo.

   «Per essere così sfacciata».

Prima che possa ribattere, Irvy la tira a sé con la scusa di un ballo.

Lo stronzo gli si piazza praticamente in mezzo alle gambe, strusciandosi contro il suo corpo.

Lei non sembra più rendersi conto di dove si trovi.

Potrei prendere e andarmene, fregandomene di ciò che potrebbe succedere, ma qualcosa dentro di me mi spinge a non farlo.

Senza dare il tempo a nessuno di rendersene conto la strappo dalle sue mani, Irvy spalanca le braccia invitandomi e io non mi faccio di certo reclamare.

Gli pesto un pugno in pieno volto, facendolo rovinare al suolo di fronte a tutto l’ordine.

Mi piego sulle gambe e lascio che il corpo di Harley si plasmi contro la mia spalla mentre me la carico sopra, imbocco la porta con ampie falcate come se stessi percorrendo delle lingue di fuoco pronte a lambirmi e forse è veramente così.

Arrivo di fronte alla mia suite, spalanco la porta quasi con un calcio dopo aver fatto scattare la serratura e la adagio al centro della stanza.

   «Perché sono qui?»

   «Perché io ho deciso che fosse così».

Si guarda attorno intontita e barcollante e poi, carezzando la belva che dorme dentro di me, inizia a privarsi di ogni indumento che sfiora la sua pelle, restando completamente nuda dinnanzi a me.

   «Ho caldo…», le sue mani corrono ovunque lungo il corpo, il seno prosperoso è pieno da farmi venire voglia di mangiarlo.

Le sue cosce sono morbide da volerci affondare la faccia.

Il suo sesso è liscio da volerlo leccare per tutta la notte.

Ma non posso, non quando non si rende conto di quello che sta facendo.

   «Devi dormire», la conduco verso il letto, premendo contro un punto in particolare del suo collo che la fa accasciare contro il materasso, la copro, mentre mi prendo qualche secondo per guardarla dormire beatamente.

Quando esco dalla mia stanza, Maxime è lì fuori che mi aspetta.

   «Suppongo che dormirai da me»

   «Supponi bene»

   «Irvy non te la farà passare liscia»

   «Dovrebbe importarmene?».

Anche se sono consapevole di aver sfidato l’ultimo dei sette contro il quale mi sarei dovuto mettere contro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 5

Harley

 

Detesto avere tutti gli occhi puntati addosso, ma non dovrei esserne sorpresa, se vieni definita la sorellastra di Nowell Walker.

Non avevo messo in conto questa prospettiva.

Dopo le tre ore di letteratura e una di matematica, seguendo la cartina del campus, mi dirigo verso la mensa.

Certo, camminare tra questi corridoi, è come essere catapultati nel film di Harry Potter e nel magico castello di Hogwards.

Superato l’ultimo interminabile viale alberato, seguo l’indicazione affissa a un palo dorato e trovo la mensa.

Il mio stomaco non la smette di brontolare, così non perdo tempo a estrarre la tessera che mi è stata consegnata alla segreteria e a dirigermi verso la vetrata per prendere un caffè e una ciambella al caramello.

Sto per consegnare la tessera alla signorina oltre il banco quando vengo urtata.

   «Oh, scusami», dietro le mie spalle sento ridere, mentre mi appresto a raccogliere i libri che si sono sparsi sul pavimento.

   «Sei per caso impazzita?», due anfibi slacciati entrano nel mio campo visivo, lentamente sollevo lo sguardo, fino a ritrovarmi la mano di Neil, il fratello di Nowell, di fronte a me.

   «Qual è il problema Neil? Il grande capo vuole che tieni d’occhio la piccola fiammiferaia?»

Mi sollevo in piedi e mi volto verso la ragazza alle mie spalle.

Lei, una bionda ossigenata che deve aver stipulato un contratto a lunga durata con la chirurgia estetica, mi squadra da capo a piedi come se fossi un parassita.

Negli anni in cui ho lavorato alla Yatch Club, mi sono abituata a questo genere di sguardi, quindi, faccio finta di niente, scrollandomi della finta polvere dalla gonna che indosso.

   «È stato solo un incidente», cerco di dire, attirando l’attenzione di Neil.

   «Ci puoi scommettere, che è uno stupido e assurdo incidente che abbiano ammesso un soggetto come te qui a Princeton».

La stronza, sembra non voglia ritirare le unghie laccate di bianco.

   «Trish, chiudi quella cazzo di bocca o…»

   «O? Cosa Neil? Nowell mi degnerà della sua presenza e verrà a sculacciarmi come tanto gli piace fare?»

Le amiche dietro di lei scoppiano in fragorosa risata, mentre qualcosa inizia a muoversi dentro di me.

È una sensazione che non sono in grado di definire, la sento solo strisciarmi addosso, causandomi una forte morsa alla bocca dello stomaco.

   «Attenta a te Trish, sai bene che non devi tirare troppo la corda. Esiste un solo motivo per cui ti è ancora concesso camminare in questi corridoi».

Sorride soddisfatta e prima di andarsene, passandomi a fianco non perde tempo a lanciarmi un ultimo avviso: «non finisce qui!».

Neil mi prende la borsa dalle mani, poi, paga con la sua carta il cibo che avevo precedentemente ordinato e mi scorta al primo tavolo libero.

Gli altri ragazzi presenti non osano fiatare, come se gli fosse stato ordinato tacitamente di non farlo.

   «Grazie».

  «Non devi ringraziarmi. Se mio fratello crede che sia giusto considerarti una di famiglia, io mi fido di lui».

Una di famiglia?

Neil sfila il cellulare dalla tasca e inizia a digitare qualcosa contro lo schermo dello smartphone.

   «Non credo di diventare mai parte della vostra famiglia».

Gli occhi azzurri di Neil si sollevano raggiungendo i miei, sono più chiari di quelli di Nowell, e non sono impregnati di quella nota malinconica di cui sono screziati quelli del fratello.

   «Perché?», si lascia scivolare lungo la spalliera della sedia, posando il suo telefono sul tavolo.

   «Non appartengo e non apparterò mai a questo mondo».

Mi guardo attorno e, malgrado il mio stato d’animo questa mattina era trepidante, all’idea di avere la fortuna di frequentare una delle più prestigiose università del paese, la realtà mi ha schiaffeggiata più forte del solito.

Nessuno, non credendomi all’altezza, ha osato rivolgermi la parola, perfino il professore sembrava a disagio nel rapportarsi con me.

Le voci, sulla reale provenienza mia e di mia madre, non sono sfuggite a nessuno.

Potrà fidanzarsi con un milionario, ma agli occhi di questa porzione di società, resteremo sempre delle arrampicatrici sociali.

E io non voglio essere questo.

   «Guardami, sono una ex cameriera di uno Yatch Club?», sorrido amaramente, anche se quel mio piccolo mondo mi manca, almeno era vero.

I rapporti con i miei colleghi lo erano.

Potevo essere me stessa, mentre servivo l’alta borghesia proveniente da ogni dove, mentre qui, solo dopo due giorni, mi sento quasi soffocare.

Il senso di inadeguatezza è una costante, come se fosse una seconda pelle che mi si è cucita addosso.

   «Non ha importanza chi sei adesso, ma chi vorrai diventare»

   «Il problema è che ancora non lo so».

   «Neanche io, cosa credi, ma al momento seguo la corrente, in attesa di scoprire dove mi porterà, dovresti fare lo stesso».

    «Suonano bene le tue parole», sorseggio il mio caffè ormai divenuto freddo.

Neil abbozza un lieve sorriso, il primo che gli noto da quando sono qui.

   «Non sono mie, ma di Nowell, è lui a riuscire mettere ordine nelle nostre vite».

Vorrei capire a cosa si riferisca, ma non faccio in tempo a chiederglielo che veniamo interrotti da un suo compagno.

   «Walker, andiamo, siamo in ritardo per gli allenamenti».

Dallo stemma sulla borsa del ragazzo, capisco che si tratta della squadra di Hockey di Princeton.

   «Steve verrà a prenderti tra poco», mi avverte Neil prima di sparire con il suo amico.

Di seguito, dopo aver fatto un altro giro per il campus, mi reco verso i parcheggi dove trovo ad attendermi Steve.

   «Prego signorina», mi apre la portiera per farmi accomodare.

Non sono abituata a tutto questo e credo di non essere il tipo di persona che potrebbe mai abituarsi.

   «Grazie», prendo posto scivolando sul sedile posteriore della limousine.

Mentre ci dirigiamo verso la “reggia”, non posso fare a meno di pensare a quello che è successo tra me e Nowell in piscina.

La parte di me, meno razionale, non fa altro che lasciarsi travolgere dal suo fascino.

Da quell’aria da cattivo ragazzo avvolta da un’ombra di mistero.

Dal suo fisico statuario e imponente.

Da quello sguardo color cobalto che mi ha fatto tremare le ginocchia sin dalla prima volta in cui ci sono inciampata.

Forse, è proprio questo il motivo per cui continuo a restare qui, tra le sue mani, in preda al suo controllo, schiava e desiderosa di spingermi verso un limite che non ho mai valicato.

Nowell ha il chiaro sapore del pericolo, eppure, non ho paura di farmi male.

Di sentirmi bruciare tra le fiamme del calore che emana il suo corpo quando mi si avvicina.

Di crollare in un baratro, dal quale non avrò la forza di riemergere.

Lui è l’ignoto in ogni sua veste.

E io, sono solo troppo curiosa per tirarmi indietro.

Il ronzio del cellulare mi desta dei miei pensieri, sfilo dalla borsa il cellulare che mi ha regalato Nowell questa mattina.

Non può essere altri che lui:

 

   NOWELL: Stasera, a cena nel mio appartamento.

 

Poche parole, concise e autoritarie.

Non so cosa aspettarmi, ma la sola certezza che ho è che non posso di certo sottrarmi.

Lui non me lo permetterebbe, il solo pensiero mi fa sentire un piacevole calore che si propaga nel basso ventre, è un formicolio che per un attimo mi fa trattenere il respiro.

   «Siamo arrivati signorina».

Sorrido a Steve attraverso lo specchietto retrovisore, assorta nei miei pensieri non mi ero resa conto.

   «Grazie Steve», mi sorride calorosamente e scendo dall’auto.

Non appena spingo il portone d’ingresso, sento la voce di mia madre echeggiare da qualche parte della torre centrale, cerco di seguirla e, man mano che cammino inizio a rendermi conto che sta dando precise disposizioni al personale.

   «Sei qui Sugar. Com’è andato il tuo primo giorno?».

La osservo fare aventi e indietro per la sala centrale, indossa un abito nero che non le avevo mai visto, i capelli sono in perfetto ordine, come se fosse appena uscita dal parrucchiere.

   «Vedo che ti sei ambientata rapidamente», osservo, vedendola atteggiarsi a grande padrona di casa.

   «Non essere sciocca».

Viene verso di me, dopo aver liquidato la servitù e con un gesto della mano mi invita a sedermi sul grande divano situato al centro della sala, di fronte al grande camino.

   «Tra un paio di settimane daremo una festa per il nostro fidanzamento».

Un paio di settimane?

Non credevo che la situazione potesse prendere una simile piega in così poco tempo.

   «Non credi sia il caso di valutare come andranno le cose? In fin dei conti siamo qui solo da un paio di giorni, tu e Rufus, dovreste prendervi del tempo per valutare se la convivenza vi condurrà a fare un passo importante come questo».

Mia madre scoppia in una fragorosa risata, «non essere sciocca Harley, io e Rufus non abbiamo niente da valutare. Renderemo ufficiale il nostro legame come è giusto che sia. Non siamo più due ragazzini».

Mia madre sembra essere stata risucchiata dal fascino scintillante di questo mondo.

   «Vedo che non posso fare niente per farti cambiare idea».

   «Come fai a essere così tanto ingrata? Sto facendo tutto questo anche per te, per il tuo futuro».

   «Vorrei essere io a decidere per me stessa».

Mia madre, quasi indignata dalle mie parole, si alza e se ne va impettita, lasciando che i suoi tacchi pestino con vigore il pavimento.

   «Signorina, sta bene?».

Tara, con una specie di cartella tra le mani, suppongo stesse prendendo appunti dettati da mia madre, mi osserva, nel suo sguardo una nota di dolcezza.

   «Credo di sì».

   «Vedrà che sarà una bella festa e che tutto andrà bene», sembra rincuorarmi, come se avesse letto nei miei pensieri ogni mia minima preoccupazione.

   «Nella sua stanza c’è qualcosa per lei», corrugo la fronte confusa e, spinta dalla curiosità mi precipito a vedere di cosa si tratti.

Una volta arrivata ho quasi timore di scoprire cosa si possa celare una volta varcato l’ingresso.

Malgrado sono qui da solo due giorni, se c’è una cosa che ho capito è, che Nowell è imprevedibile.

Afferro il pomello dorato e faccio scattare la serratura.

Il salotto è in perfetto ordine, le peonie al centro del tavolo sono state sostituite con un mazzo fresco, raccolto sicuramente dal giardino.

Attratta da tanta bellezza mi avvicino a inalarne il profumo soave, socchiudendo lievemente gli occhi.

Percorro il corridoio da me nominato: “il corridoio dei libri”.

Sono trepidante all’idea di poter continuare a leggere alcuni tra i miei autori preferiti.

Giunta sotto l’arcata della mia camera non mi sembra di notare niente.

Il letto è rifatto alla perfezione, le tende incorniciano le vetrate, il tavolino vicino al caminetto è sgombro, a parte per il secondo vaso di peonie situato anche qui, sul camino non spicca nessun tipo di oggetto.

Non mi resta che controllare nella cabina armadio e, non appena ci metto piede i miei occhi si sgranano per la sorpresa.

I miei vecchi vestiti sono situati su uno stand, affisso un biglietto: “passato”.

A piccoli passi mi avvicino al centro della stanza che forma un quadrato perfetto, gli occhi si posano sull’inizio del primo armadio, dove spicca un altro biglietto che attira la mia attenzione: “ futuro”.

Una miriade di colori e tessuti si rincorrono lungo il legno prezioso della cabina armadio.

Li sfioro con mani tremanti, con il timore di sgualcirli, di rovinarli e per un attimo ripenso alla frase di mia madre: «Per una volta voglio credere che le favole possano esistere anche nella vita vera».

Non ho mai avuto niente di superfluo che riempisse le mie giornate.

Ogni centesimo che entrava in casa era destinato a una bolletta o alla lista della spesa.

Ho trascorso compleanni senza regali.

Indossato abiti comprati al mercatino dell’usato.

Ho subito l’umiliazione di essere quella diversa.

Figlia di una madre single che veniva etichettata come una poco di buono, perché non aveva dato un nome o un volto al padre biologico di sua figlia.

Negli anni mi sono abituata a essere circondata da tanta cattiveria, dall’ostilità della gente, promettendo a me stessa che non mi sarei mai abbattuta per questo.

Eppure, adesso, mentre sono qui, avvolta dal lusso più estremo, una parte di me sembra aver intascato una piccola rivincita, per tutte le volte che venivo umiliata pubblicamente.

Mi volto al centro della stanza e sul cubo in legno al centro della stanza noto una scatola bianca con un nastro nero lucido.

Le dita afferrano le estremità del fiocco e lo tirano fino a scioglierlo, sollevo il coperchio, scosto la carta velina e lo sguardo viene rapito dall’abito color oro che giace sul fondo.

Lo estraggo dal suo involucro con estrema cautela, il corpetto è rivestito di strass, al centro una cerniera color oro è nascosta dagli stessi, è lungo fino a metà coscia, o per lo meno è quello che credo posandomelo contro il corpo e vedendo la mia immagine riflessa allo specchio.

Il tessuto continua come una coda, uno strascico fino a sfiorare il pavimento.

Sfilo l’ennesimo biglietto dalla scatola: “fammi vedere come si sposa con la tua pelle”

Deglutisco a fatica, imbarazzata da quelle parole e dal significato reale che si cela dietro di esse.

 

 

 

Alle otto di sera, Tara mi aiuta a indossare il vestito, dopo che una ragazza mi ha pettinato e truccato per la cena con Nowell, questo non era un suo ordine, ma un mio desiderio che Tara si è premurata di esaudire.

   «Sta benissimo signorina», mi sistema lo strascico, mentre io stento a credere all’immagine di me stessa riflessa nel grande specchio ovale della camera da letto.

I capelli sono raccolti in uno chignon ordinato ed elegante, il trucco è leggero, quasi tono su tono, giusto per dare un po’ di luminosità al volto, le labbra sono colorate da un rosa tenue che si abbina perfettamente al mio incarnato.

Il vestito, sembra essermi stato cucito addosso, come se fosse una seconda pelle.

   «Non so che scarpe indossare», mi liscio il tessuto della gonna che sembra brillare sotto la luce del lampadario di cristallo appeso al soffitto.

   «Credo che se il signorino avesse voluto che le indossasse gliene avrebbe regalato un paio abbinate all’abito».

Guardo Tara come se avesse appena detto un’eresia.

Dovrei presentarmi scalza nella sua camera?

   «Magari, potrei scegliere fra quelle che ci sono nella cabina armadio?»

   «Si fidi, lei sta benissimo così, non ha bisogno di altro».

Mi sorride nel suo solito modo caloroso e mi lascia sola.

Inizio a sentirmi nervosa, non so cosa aspettarmi oltre quella porta della quale solo lui ha la chiave, come se fosse quasi una metafora: come se possedesse già la chiave della mia anima.

Poco dopo sento la serratura scattare, la porta si apre quasi a rallentatore, le luci del mio appartamento si spengono ed è solo la luce fioca proveniente dalla sua stanza a indicarmi dove dirigermi.

I piedi scalzi camminano sopra i tappeti pregiati, rabbrividisco a contatto con il freddo del marmo e faccio un respiro profondo prima di comparire sulla soglia.

Credevo di trovarmelo di fronte, invece, noto solo una miriade di candele sparse sul pavimento che sembrano quasi dirmi: “seguici”, ed è quello che faccio, mi addentro nella sua camera, come se avessi appena messo piede nella tana del lupo.

Percorro il piccolo sentiero illuminato, fino a comparire nel suo salotto privato, Nowell è in piedi di fronte al camino dal quale lingue di fuoco ardono contro i ceppi di legno.

La schiena nuda è un tripudio di muscoli e tatuaggi che si danno battaglia, indossa solo un pantalone nero, i capelli sono raccolti in una crocchia disordinata ed è così dannatamente bello da fare male.

Quando si volta, i suoi occhi catturano i miei, li sento percorrermi da capo a piedi e in ogni punto del mio corpo in cui si soffermano più del dovuto percepisco l’innescarsi di un fuoco incontrollabile.

   «Avvicinati».

Obbedisco e lo raggiungo fino a trovarmi di fronte a lui, sollevo il capo per poter godere ancora dell’immensità del suo sguardo, mentre le mani, inconsapevolmente si chiudono a pugno contro la gonna dell’abito per il timore di cosa possa uscire fuori dalla sua bocca carnosa.

   «Non mi hai chiamato», il suo dito indice inizia a tracciare sentieri immaginari contro il mio profilo.

   «Perché avrei dovuto», trovo il coraggio di rispondergli, mentre mi sento quasi drogata dal suo tocco.

   «Perché so cosa ti è successo nella mensa del campus».

Ripenso a quella ragazza, Trish, al modo in cui mi ha trattata e alle sue parole: «Nowell mi degnerà della sua presenza e verrà a sculacciarmi come tanto gli piace fare?»

   «Chi è Trish?», le sue dita non smettono di toccarmi, sfiorandomi il collo dove d’istinto deglutisco a fatica.

   «Un errore, niente per cui valga la pena parlare».

   «Va bene».

Non ho intenzione di insistere se è lui a non volermene parlare.

   «Allora, perché non mi hai chiamato? Ti ho lasciato a posta quel cellulare».

   «Non c’era bisogno, Neil era lì e ha preso le mie difese, anche se non ho bisogno che lo facciate».

Nowell sorride in maniera sfacciate e prepotente.

   «Non sei a Jacksonville, Sugar », scandisce quasi digrignando i denti, «sei a Princeton, sei a casa mia e credimi se ti dico che avrai sempre bisogno di qualcuno che ti difenda».

Detesto quando mi chiama con il nomignolo che mi ha dato mia madre e, senza rendermene conto faccio un passo indietro sottraendomi al suo tocco.

   «Perché ci tieni così tanto a me?», un’altra risata colma lo spazio circostante dove è solo il crepitare del camino a fare da sfondo a questa assurda serata.

   «Credi che lo faccia per questo? Perché tengo a te?»

Ogni parola è come un pugnale che mi si conficca contro la carne e non so perché ci rimango male o forse lo so e fa solo male ammetterlo.

Non sono mai stata importante per nessuno, oltre che per mia mia madre e adesso inizio a dubitare anche del suo affetto nei miei confronti.

   «Allora per cosa lo fai? Nowell», questa volta sono io a scandire il suo nome con una certa enfasi, mentre il suo corpo in una sola falcata è nuovamente su di me che mi sovrasta, che mi piega, che mi contamina con la sua parte oscura.

   «Perché mi va, punto».

La sua mano afferra con vigore il mio volto, le dita premono contro le guancia dove le sento quasi tatuarmisi addosso, «e tu ti godrai tutto quello che sono disposto a darti e sai perché lo farai?»

Scuoto il capo, gli occhi incatenati ai suoi, li percepisco strisciarmi dentro come serpenti.

    «Perché è esattamente quello che vuoi anche tu».

Mi lascia andare oltrepassandomi, senza che riesca a muovere un solo muscolo, senza che abbia la voglia di dire altro, perché la verità è che ha ragione.

È come se sentissi il bisogno impellente della sola scarica di adrenalina che abbia lambito il mio corpo facendomi sentire viva.

Lui.

   «Tara, puoi servirci la cena», chiude la chiamata e torna da me con due bicchieri di Champagne.

   «Spero che ti piaccia il sushi», mi porge il mio calice, lo prendo e ne butto giù un generoso sorso.

   «Non l’ho mai mangiato».

   «C’è sempre una prima volta».

Si lascia cadere sul divano nero alle sue spalle e con un gesto della mano mi invita a fare lo stesso.

   «Rilassati Harley e ti prometto che non dimenticherai questa serata tanto facilmente», il dorso freddo del bicchiere strofina contro la mia spalla facendomi rabbrividire, fino a scendere lungo le cosce scoperte dalla gonna che si è leggermente rialzata come mi sono seduta.

   «Aprile».

   «Apri le gambe per me», aggiunge, tentenno ma poi lo faccio, le apro leggermente, il bicchiere ghiacciato si infila in mezzo strappandomi un gridolino, mentre Nowell lo fa salire sempre più su.

Più su.

Più su.

Fino a sentirlo a un soffio dalla mia intimità.

È una strana sensazione che non voglio lasciare andare, mentre tutto il mio corpo si irrigidisce, come se fosse pronto ad accogliere altro, come se involontariamente si stesse preparando a qualcosa che non conosco ma che desidero con ogni fibra del mio essere.

   «Mantieni sempre il controllo del tuo corpo».

Sfila via il bicchiere e si alza in piedi, scolandosi l’ultimo sorso, prima di dirigersi verso la porta d’ingresso, dove poco dopo compare Tara con un carrello colmo di piatti nascosti sotto a dalle cloche in acciaio.

   «Grazie Tara, puoi andare».

Nowell inizia a scoprire ogni piatto di portata, lasciando diffondere per la stanza il profumo fragrante del cibo orientale.

   «Il cibo è come il sesso, uno dei pochi piaceri della vita del quale un essere umano non potrebbe fare a meno. Sei d’accordo con me?».

Mi volge il suo sguardo, in attesa di una mia risposta, mentre sul tavolo situato al centro del salotto, posiziona, quasi in maniera maniacale, ogni singolo piatto.

   «Credo…credo di sì».

Non sono mai stata con nessuno, il mio ultimo bacio risale a uno stupido gioco tra le mura della palestra del mio vecchio liceo.

Non avevo tempo per conoscere dei ragazzi che realmente fossero interessati alla mia vita.

   «Tu credi?», il suo sorriso si allarga sempre di più, come se da un certo punto di vista si aspettasse una simile risposta da parte mia.

   «Hai mai viaggiato?», lo osservo, ancora comodamente seduta sul divano, tra le mani il calice di Champagne ancora mezzo pieno mentre, dopo quello che è successo mi sento già ubriaca di lui.

   «No, onestamente, questa cittadina è la mia prima vacanza. Patetico vero? Per uno che come te deve aver girato il mondo in lungo e in largo», butto giù un sorso generoso del vino bianco con le bollicine, che mi solleticano la lingua.

   «Si può viaggiare anche semplicemente con la mente».

Sistema un telo bianco lungo il tavolo, «tipo stasera ti porto ad Amsterdam e ti mostro come ho cenato l’ultima volta. Vieni qui».

Titubante, ma curiosa lo raggiungo, dopo aver posato il calice sul tavolinetto di cristallo.

Nowell è in piedi al lato del tavolo, le portate sono tutte messe per lungo sul bordo.

   «Adesso sdraiati», mi porge la mano, mentre non riesco a comprendere dove voglia arrivare.

   «Devo stendermi sul tavolo dove dobbiamo mangiare?»

   «Sì, ti aiuto io».

   «E…e se non volessi?».

   «Certa di quello che dici? Non vuoi scoprire che cosa ho in serbo per te?».

A disagio, mi mordo il labbro inferiore, per poi concedergli la mia mano.

Ha ragione, la curiosità è come una sete impellente che ha bisogno di essere assecondata.

Nowell mi aiuta a stendermi sul tavolo, mi osserva, mentre sono lì sotto di lui, stesa al suo volere.

   «Ti mostrerò il tuo primo viaggio, Sugar ».

Tra indice e pollice afferra la cerniera del corpetto che indosso, lentamente la fa scivolare verso il basso, ogni movimento mi strappa dai polmoni il respiro.

Le sue dita fredde si fermano all’altezza dell’ombelico, i polpastrelli a ritroso ripercorrono il mio addome, fino a soffermarsi a un soffio dal reggiseno di pizzo che indosso.

   «Ci sono montagne ancora da scoprire in certi luoghi», il suo dito indice carezza lievemente il seno destro, ancora imprigionato dal tessuto.

   «Respira profondamente», mi suggerisce, mentre di fronte al mio sguardo compare una lama affilata che per un istante riflette il mio sguardo.

Il freddo del metallo si insinua proprio lì, in mezzo ai miei seni, il respiro brucia veloce nei polmoni.

   «Cosa provi?».

   «Non…non lo so».

   «La prima cosa che ti viene in mente».

   «Paura».

Nowell, abbozza un altro sorriso soddisfatto, come se avesse appagato un suo bisogno attraverso la mia risposta.

   «La paura è un meccanismo di difesa che il nostro cervello attua come un campanello di allarme. Ma ognuno di noi è in grado di gestirla, ricordati, devi avere il controllo», e senza aggiungere altro, con un gesto netto, mi sento strattonare appena, mentre il coltello taglia il reggiseno lasciando che il mio seno si mostri al suo sguardo famelico.

Nei suoi occhi leggo il desiderio lambire le mie curve pronunciate.

Nella sua bocca, che viene inumidita dalla punta della lingua, ci vedo la sete di cibarsi della mia carne.

Nelle sue mani, che si chiudono a coppa contro le mie forme, percepisco il fuoco che sprigiona il suo corpo, con la consapevolezza che potrebbe ridurmi in un cumolo di cenere.

   «Nowell…».

   «Non sprecare le tue energie».

Sono completamente esposta, come non lo ero mai stata di fronte allo sguardo di un uomo.

Sì, perché lui non è solo un ragazzo di ventitré anni, no, nelle sue parole, nelle sue gesta si cela una virilità che non sono in grado di spiegare a parole, ma la sento strisciarmi addosso con ardore.

Con possesso.

Nowell afferra una piccola ciotola, lo posiziona sospesa sopra il mio addome, per poi inclinarla e lasciare che tutto il liquido ambrato mi coli sulla pelle.

   «È salsa di soia, viene usata per accompagnare il cibo giapponese», spiega, con due bacchette afferra una porzione di cibo e poi lo sento a contattato proprio lì, vicino al mio ombelico.

   «Questo si chiama nigiri, è un bocconcino di riso guarnito con del salmone», se lo porta alla bocca, per poi intingere l’altra metà sulla soia che cola ancora sul mio corpo e portarmelo alle labbra.

   «Mangia», lo assaggio, il sapore mi si sprigiona sulla lingua lasciandomi sfuggire un mugolio, non so se sia dovuto al sapore di quello che ho appena mangiato o al gesto che lo ha accompagnato.

Così sexy.

Così sensuale.

Così Nowell.

   «Questo è sashimi, filetti di pesce crudo».

Altra salsa di soia, questa volta, finisce contro il mio seno, rabbrividisco, Nowell sfrega le bacchette di legno contro i miei capezzoli che subito diventano turgidi.

D’istinto serro le cosce, mentre una scarica sembra percorrermi proprio lì, nella mia intimità che sento pulsare.

   «Cosa provi?», sento i capezzoli esplodere, le bacchette che continuano a disegnare cerchi immaginari.

   «Non lo so, ma…ma mi piace», confesso senza vergogna, completamente schiava di quei movimenti.

   «E adesso?», Nowell mi guarda, mentre si china verso di me, il mio sguardo precipita nel suo e socchiude le sue labbra carnose contro il mio seno.

Chiudo gli occhi, lasciandomi scappare un gemito, le mie mani si perdono nei suoi capelli che scompiglio.

La sua lingua lambisce il mio capezzolo, lo succhia, lo morde e io, come se sapessi esattamente come fare, accompagno quei movimenti, spingendo il suo capo sempre più verso di me.

Come se non mi bastasse, come se desiderassi qualcosa di più.

I denti strattonano la mia pelle che sento sempre più delicata a quel tocco, sembra fuoco che mi sfiora, bruciandomi poco per volta.

   «Sto ancora aspettando una risposta», adesso sono le sue dita a giocare contro il mio seno.

   «Non…non smettere», mi ritrovo a implorarlo, perché il desiderio che sento crescere è così imponente da farmi quasi male.

   «Scommetto che ti senti tutta bagnata», la mano libera percorre il mio addome, mentre l’altra è ancora impegnata a torturarmi il capezzolo, si ferma proprio lì, sul bordo della mutandina che indosso, la solleva appena e resto in attesa.

   «Cosa vuoi, Sugar? ».

La sua lingua lambisce ancora una volta il mio seno, strizzandoselo nel palmo come se lo volesse spremere.

   «Che…che mi tocchi».

Non provo vergogna nel dirgli esattamente quello che desidero, adesso che sento solo il bisogno urgente che lo faccia.

Che metta a tacere ogni cosa, liberandomi dal calore che sento diffondersi ovunque.

Le sue dita avanzano, ma poi si fermano ancora una volta, restando sospese contro la mia intimità che non cessa di pulsare, è quasi un dolore che mi serra la gola, lasciandomi completamente la bocca arsa.

   «Se vuoi di più. Se vuoi che io ti guidi verso il piacere più totalitario, allora devi iniziare a leggere il libro».

Si scosta da me, lasciandomi completamente svuotata e affamata di lui.

Mi tiro sui gomiti, frastornata da tutto quello che è appena successo.

   «Allora, perché hai fatto tutto questo?», con un gesto della mano, indico il caos del mio corpo semi nudo di fronte al suo sguardo, mentre lui si pulisce la bocca con un tovagliolo.

   «Perché per poter decidere se lo vuoi davvero, devi conoscere la dipendenza che può dare».

   «Dipendenza?»

   «Il sesso è la droga più potente a questo mondo».

Prende un piatto qualunque e, come se niente fosse, va a mettersi seduto sul divano di fronte al maxischermo che accende e mette sul primo canale sportivo che trova.

Lo guardo, ancora assetata di lui.

Con ancora il desiderio che mi striscia tra le cosce e forse, inizio a comprendere il suo senso di dipendenza, mentre adesso, che cerco di sistemarmi il vestito, ho solo il desiderio di riprendere da dove eravamo arrivati.

   «Vieni qui a sederti», si porta alla bocca una generosa porzione di cibo e faccio come dice, prendo un piatto qualunque e mi siedo di fianco a lui.

   «Non ti ho detto di rivestirti, o sbaglio».

   «Credevo che…»

   «Devi prendere possesso del tuo corpo, non lo conosci neanche, anche se ti appartiene da sempre».

E, malgrado le sue parole possano sembrare insensate, è esattamente così.

Non conoscevo simili piaceri, sensazioni ed emozioni prima che lui, me le svelasse e se penso che questo sia solo la punta di un iceberg, mi sento pronta a immergermi fino a scoprire che cosa si nasconda tra le acqua ghiacciate del mare impervio della sua anima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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6

Nowell

 

 

La mattina mi sveglio ancora eccitato dalla sera precedente. Il corpo di Harley così esposto su quel tavolo era un chiaro invito a cibarmene, ed è quello che in parte ho fatto.

Ho sentito il calore della sua pelle vellutata.

Ho avvertito la sua paura scorrermi sotto le dita.

Ho percepito il suo desiderio crescere.

Ho gustato il suo sapore dolce immaginandomi come lo sarebbe stata ancora di più in mezzo alle gambe.

Non resisto, i pensieri sono troppi e così mi prendo il cazzo in mano, lo sento pulsare, mentre cospargo il glande del liquido perlaceo di eccitazione.

Chiudo gli occhi e inizio a scoparmi la mano, mentre vedo solo lei su di me, sotto di me, in tutte le posizioni in cui la voglio punire.

In cui sento il bisogno di farla mia.

Il desiderio è quasi letale.

Sento il pericolo dietro l’angolo, ogni volta che resto solo con lei, per il timore di non riuscire a fermarmi.

Perché la voglia di farle male è troppo intensa.

Immagino le sue urla, mentre la penetro con vigore da dietro e continuo strappandole l’orgasmo migliore della sua vita, la sua bocca marchiata dal mio nome e così vengo, con quell’immagine di lei, lasciandomi inghiottire dall’oblio e riversandomi completamente sul palmo.

Non sono abituato a questo, solitamente scopo e basta in qualsiasi momento ne senta il bisogno, ma con lei, se voglio condurla per mano nella parte più oscura della mia esistenza, devo andarci piano.

È un diamante grezzo che chiede solo di essere scalfito nel modo che lo faccia brillare di luce propria, ed è quello che farò.

Il solo pensiero che sia ancora vergine, non fa altro che aumentare in me il desiderio di essere io quello che le mostrerà un mondo del quale non potrà più farne a meno.

Mi dirigo verso il bagno, apro il getto della doccia e mi metto sotto lasciando che l’acqua mi percorra lungo il corpo, chino la testa e una visione mi si materializza nella testa: è il sacrificio dell’ordine, una volta che tutti i pianeti saranno ben allineati, questo avviene ogni quarant’anni e questa volta sono io a portare loro la preda della quale nutrirsi.

Le mani, senza che me ne renda conto si serrano in due pugni, le unghie a conficcarmisi nei palmi.

   «Devo smetterla», il suono del mio cellulare mi desta dai miei pensieri, chiudo l’acqua, afferro un asciugamano e me lo cingo in vita.

   «Che problemi hai di prima mattina?», Maxime, scoppia in una fragorosa risata.

   «Spero che la biondina non ti abbia distratto talmente tanto da farti dimenticare che giorno sia oggi».

Faccio solo finta di dimenticarmene, ma non potrei mai scordarlo.

   «Ho talmente tante cose a cui pensare che proprio non so a cosa ti riferisci».

   «Ho capito», dal tono della sua voce sembra aversela presa.

   «Almeno che, tu non stia parlando di un certo compleanno che si festeggia proprio oggi».

   «Sei il solito coglione».

   «Fino a questa mattina posso ancora confermarlo. Comunque, tieniti pronto per le tre del pomeriggio, mando Steve a prenderti».

Senza attendere una sua risposta chiudo la chiamata, mi appresto a vestirmi e a scendere nella sala della torre centrale, dove mio padre sembra aver indetto una colazione di famiglia.

L’ultima risale a poco prima che la mamma morisse.

Forse, agli occhi della sua nuova conquista, vuole mostrarsi per lo uomo che non è mai stato.

Quando raggiungo la sala, Noha e Neil hanno già preso posto nel grande tavolo.

Questa casa è troppo grande, ma forse, per contenere tutti i segreti che sono graffiati contro queste mura è meglio che sia così.

Mio padre, quando ce la mostrò la prima volta, insieme a nostra madre, diceva che era il suo regalo per noi.

Tre torri, come tre erano i suoi figli.

Tre, come passato, presente e futuro.

Tre come il giorno in cui conobbe nostra madre.

Non so se oltre a questo ci fosse qualcos’altro, ma una cosa era certa, trasferirci in quella reggia, comportò solo una serie di strani e inspiegabili eventi che portò la nostra famiglia a scheggiarsi come se fosse un cristallo divenuto ormai troppo affilato.

   «Buongiorno Nowell».

Mio padre mi saluta e io, senza ricambiare il gesto prendo posto vicino alla ragazza che mi ha tenuto sveglio quasi tutta la notte.

   «Ragazzi, Charlotte ha una notizia da darvi».

   «Non aspettavamo altro», commenta Neil, lasciandosi scivolare annoiato contro la sedia imbottita.

   «È proprio necessario?», interviene anche Noha, ultimamente il suo pessimo umore sembra peggiorato, dovrò ricordare a mio padre che suo figlio ha bisogno di vedere il medico di fiducia, altrimenti, se non sarà in grado come al suo solito me ne occuperò io.

   «Adesso basta», il grande Walker pesta il pugno contro il legno del tavolo, «voglio che portiate rispetto alla…», il suo sguardo saetta un po’ ovunque prima di concludere la frase, «alla mia futura moglie».

Moglie?  

Accidenti, mio padre, contro ogni probabilità sembra essersi preso una bella sbandata per questa donna.

Certo, non posso negare che non sia attraente, sembra la copia esatta di Harley, con i suoi anni in più e meno cervello di quanto abbia la figlia.

   «Sposerai questa donna?», Noha scatta in piedi, lasciando che la sedia alle sue spalle rovini al suolo.

   «Siediti», gli ordino, prima che lo faccia mio padre.

   «Non posso credere che tu sia d’accordo con lui!», la collera nel suo sguardo non promette niente di buono e, quando lo vedo che prende e imbocca l’arcata della sala per dirigersi fuori nel giardino, non posso fare altro che seguirlo, come avevo fatto anche in quella notte maledetta.

   «Noha!», gli sono dietro, mentre si addentra nel bosco che costeggia il lago.

   «Fermati, dannazione!» e alla fine, lo fa.

Si volta, gli afferro la testa tra le mani portando la sua fronte a premere contro la mia.

   «Perché è tutto così difficile», so perfettamente a cosa si riferisce, anche se il reale dolore che prova non sono neanche in grado di immaginarlo.

Alle volte, mi domando se nostra madre, oltre a donarci i suoi colori, non ci abbia lasciato in eredità il seme della sua follia.

   «Non ti lascio solo. Mai», so che gli bastano quelle parole per calmarsi, perché è la verità, non l’ho mai fatto e mai lo farò per nessuna ragione al mondo.

   «Torniamo dentro. Anche se si sposerà, non permetterò che niente cambi in questa casa».

Noha, sembra riprendere il controllo di sé stesso e ci avviciniamo all’ingresso principale, dove scorgo Harley in piedi lungo le scalinate, le braccia incrociate al petto e quell’espressione preoccupata che le dipinge il volto.

Quando le passo a fianco, non mi domanda niente, fa solo un debole cenno di assenso come se avesse capito che per il momento è tutto a posto e insieme rientriamo dentro, dove la colazione di famiglia è andata a puttane.

   «Neil», mio fratello, senza che aggiunga altro, si preoccupa di accompagnare Noha nella sua stanza. Non credo sia il caso che si presenti a scuola in questo stato catatonico.

   «Tu sei pronta? Dobbiamo andare o arriveremo in ritardo», Harley prende la sua borsa dalla panca imbottita vicino all’ingresso e se la calca in spalla.

Sfilo le chiavi della macchina dall’auto e raggiungiamo i box.

Mi aspetto di essere tempestato di domande su Noha, ma lei, come succede ogni volta che è nei pareggi mi stupisce, restando in silenzio.

   «Stasera è il compleanno del mio migliore amico, Maxime».

Non so se si ricorda di lui, di certo, era il più simpatico del gruppo che ha alloggiato allo Yatch Club.

   «Viene a scuola con noi?»

   «No, lui va a Yale, a mezz’ora di auto da qui. Siamo cresciuti insieme. Stasera lo porterò nella città del peccato, dove tutto è possibile».

Non mi sfugge il modo in cui alla parola, peccato le sue cosce si stringano una contro l’altra, quasi a voler trattenere un bisogno che grida di voler uscire.

So perfettamente che cosa vorrebbe e di cosa ha bisogno.

Ma voglio che il suo corpo si adatti al piacere, a ciò che può generare e al potere che può avere, poco alla volta.

   «Andrete fuori città?»

   «Andiamo», la correggo.

   «E la scuola?»

   «Non la sposteranno in nostra assenza, sarà sempre lì quando rientreremo, inoltre c’è uno sciopero, per cui non devi preoccuparti, non perderai alcuna lezione e domani, nel tardo pomeriggio saremo già di ritorno».

Sembra convincersi delle mie parole anche se noto come qualcosa che sferza il suo sguardo, sto per chiederle che cosa sia, ma credo che per oggi abbiamo parlato abbastanza.

Posteggio al solito posto e quando sto per scendere dall’auto Trish, la mia ex ragazza mi si piazza di fronte alla portiera, incastrandomi nel mio stesso abitacolo.

   «Che cosa vuoi?», non so essere più cordiale con nessuno e con lei la cosa mi viene ancora più naturale.

Trish è la classica serpe insana, che si ciba delle tua essenza senza che tu te ne renda conto.

   «Semplice, un posto in prima fila sul tuo jet per questo pomeriggio».

Merda.

Qualcuno dei pochi invitati alla festa deve aver aperto troppo la bocca, svelando i miei piani per la serata.

   «Non è possibile, mi spiace, siamo al completo», spingo con forza la portiera facendola spostare da davanti.

   «Ne sei davvero sicuro?», cerca di provocarmi, lei è la sola a sapere che cosa mi è successo, dove ho terminato i miei studi e perché.

All’epoca ero solo un ragazzo come tanti, prima che l’oscurità mi prendesse come ostaggio.

Mi fidavo di lei, era la mia ragazza, al liceo eravamo la coppia dell’anno, ma lei era solo un’arrampicatrice sociale e voleva solo una cosa, mettere le unghie sui soldi della mia famiglia.

   «Ti ricordo che non sono più disposto a stare al gioco delle tue stronzate».

Harley scende anche lei dall’auto e mi affianca, sembra quasi sfidare con lo sguardo la stronza che il giorno prima ha provato a metterla in imbarazzo.

   «E tu cosa vuoi? Sentiamo».

   «Nowell, dobbiamo andare o arriverai in ritardo», intreccia la sua mano alla mia, sotto lo sguardo attonito di Trish e, senza permettermi di dire altro, mi trascina via.

Per una volta, un singolo momento, sono io a lasciarmi guidare da lei.

   «Perché lo hai fatto?», ci fermiamo vicino alla caffetteria del campus.

I ragazzi entrano ed escono con i loro caffè stretti tra le mani, mentre si affrettano a recarsi nelle loro aule per l’inizio delle lezioni.

   «Ho pensato che avessi bisogno di aiuto», sorrido, ma non per deriderla ma per l’ingenuità che nascondono i suoi gesti.

Le nostre mani sono ancora unite e lei, rendendosi conto lascia scivolare via la presa.

   «Vado, ci vediamo dopo» e, mentre sta per voltarmi le spalle, l’afferro per il braccio strattonandola.

Il suo corpo collide con il mio e sento una scarica elettrica lambire i nostri corpi da capo a piedi, percepisco il suo respiro consumarsi lentamente sulle labbra che si schiudono per la sorpresa di trovarsi così vicina.

Così pericolosamente tra le mie braccia

   «Stasera voglio mostrarti un altro pezzo di mondo», dal modo in cui il suo sguardo penetra nel mio, comprendo che ha capito benissimo a cosa mi sto riferendo.

Annuisce debolmente, come se avesse perso le forze per fare qualsiasi cosa.

   «E, questo mondo come sarà?», tenta di fare quella sicura di sé, quando la verità è che è completamente ignara di cosa ho in serbo per lei.

   «Peccaminoso», soffio contro le sue labbra a un centimetro dalle mie che quasi si sfiorano e senza attendere oltre, la lascio libera dalla mia stretta, le volto le spalle e mi dirigo verso il campo da football.

   «Sei in ritardo», mi ricorda il coach non appena i miei piedi calpestano il manto erboso.

Ho iniziato a giocare a football quando ero solo un bambino di sei anni e da quel momento non ho più smesso.

Un giorno, sognavo la NFL, le grandi squadre, il Super Bowl, ma questo era molto tempo fa, prima che qualcosa dentro di me mutasse, rendendomi la persona che sono adesso.

   «Vado ad allenarmi», mi unisco agli altri, non ho voglia di discutere con il coach, non posso permettermi di non essere in campo sabato contro la Brown, devo mettere al tappeto il culo di Irvy o non rischierò solo di perdere una semplice partita.

Mi avvicino ai miei ragazzi e dopo averli spremuti per bene per un paio d’ore con degli allenamenti suicidi, iniziamo la nostra amichevole.

Ci dividiamo in due gruppi, io comando il primo, Jarred, il mio braccio destro in campo il secondo gruppo.

Tutti ci allineiamo sulla linea di scrimmage, li offensive linemen si piazzano davanti, il centrale dietro di loro pronto per lo snap.

Io ho le mani aperte a coppa tra le gambe del mio uomo che aspetta solo il mio segnale per dar vita all’azione.

Guardo verso la mia destra, dove, il migliore dei Tight End della squadra è pronto a prendere questa maledetta palla e a correre come se non esistesse un domani.

   «Hut one. Hut two», guardo i miei avversari del momento e decido di fare una finta, «Hut me», mi scanso, il mio centrale effettua lo snap e la palla finisce, inaspettatamente, tra le mani di uno dei miei running back, i fulmini più cazzuti che esistono al mondo.

Sfrecciano sul campo come saette, piroettando attorno agli avversari che cercano di placarli.

Li seguo sulla seconda linea, superati le trenta yards siamo pronti a concludere il gioco.

La palla, in una parabola perfetta squarcia il cielo contro le nostre teste, con uno slancio mi stacco da terra per prenderla, uno dei miei TE imita le mie gesta facendo da scudo contro gli avversari che mi vogliono atterrare e io, con il pallone stretto al petto, come se fosse la cosa più preziosa al mondo, corro per altri dieci yards superando la linea di meta e segnando un touchdown.

   «Ed è lui il solo e unico, Nowell Walker», Maxime, dalle gradinate del campo, le mani a coppa di fronte alla bocca, attira l’attenzione di tutti i presenti, facendoli scoppiare in una fragorosa risata, tutti tranne il coach.

   «Fammi indovinare, Walker. Hai un emergenza famigliare», sorrido beffardo, con la consapevolezza che dopo il numero messo in atto sul campo, non potrebbe fare altro che baciarmi i piedi.

   «A quanto pare sì», scrollo le spalle e mi dirigo dal mio migliore amico.

   «Che cazzo ci fai qui?»

Si alza in piedi, sgrullandosi la polvere dai preziosi jeans che indossa, «non avrai mica pensato che il giorno del mio compleanno lo avrei passato tra i noiosi banchi di scuola di Yale?».

A due a due scende i gradoni e mi raggiunge.

Maxime è alto quanto me, ma i suoi muscoli sono più accentuati per via degli estrogeni che assume.

Ha quella che io definisco: la sindrome del cazzo piccolo.

Altrimenti, perché concentrarsi così assiduamente su qualche altra parte del corpo, se non per compensare il difetto di un’altra?

   «Dammi il tempo di una doccia».

Venti minuti più tardi siamo entrambi diretti verso la mia Maserati, le quattro frecce si illuminano disattivando l’antifurto e, una volta dentro, mando un messaggio a Neil.

NOWELL: Controlla la mia cenerentola per me.

NEIL: Siamo già al mia , devo preoccuparmi?

NOWELL: Te ne ho mai dato modo?

NEIL: No.

NOWELL: Allora chiudi quella cazzo di bocca e fa come ti ho detto.

NEIL: Fottiti.

 

Sorrido, contro la sua emoticon con il dito medio alzato, è il nostro modo di dirci che ci siamo l’uno per l’altro.

   «Tutto okay?».

   «Come sempre», innesto la marcia e ci immettiamo sulla strada principale, diretti in uno dei nostri posti preferiti, il Country Club di Monroe, una mia proprietà.

Arrivati lì, dopo aver posteggiato nel parcheggio a mio nome, ci dirigiamo all’interno.

I maggiori uomini di affari della città, si riuniscono qui per rilassarsi dal aumento incalzante dei loro conti in banca.

Stressante la vita, non trovate?

Ognuno di loro, come è ben facile pensare, ha creato la sua ricchezza nel modo meno convenzionale possibile e continua a farlo come se ormai fosse quasi una dipendenza, ed è esattamente così, il potere è qualcosa che di gran lunga supera la droga.

   «Signor Walker», Patty, la receptionist ci accoglie con un caloroso sorriso, forse si ricorda ancora come l’ho scopata forte contro la parete del magazzino delle bibite del bar.

   «Patty, siamo nella sala biliardo e non vogliamo nessuno, grazie», un chiaro messaggio per indicare che fino a quando ci andrà sarà solo ed esclusivamente a nostra completa disposizione.

Alcuni uomini d’affari, nel vedermi, si apprestano a un saluto con un cenno del capo che ricambio.

Certo, non è facile da mandare giù, il fatto che un ragazzo della mia età, possa essere più potente di loro e che potrebbe bastarmi un cenno, per far crollare le loro imprese, i loro castelli e ridurre in polvere i loro conti azionari.

Molti di loro, un tempo, facevano parte dell’ordine, i loro nomi sono custoditi in cartelle di cuoio, ben conservate in una cassaforte su un’isola al largo della costa californiana, nel caso si dimenticassero come hanno creato la loro fortuna.

   «Come va con la bionda?», Maxime, una volta entrati nella sala, che di sicuro, è stata sgomberata da chi la occupava prima del nostro arrivo, sistema il triangolo al centro del tappeto verde e inizia a sistemare le sfere con i numeri.

   «Perché me lo chiedi?», mi servo da bere, dall’angolo bar a nostra disposizione, mentre fisso le ampie vetrate che si affacciano sul campo da golf.

   «Perché manca poco al rito».

Le dita si stringono contro il bicchiere di vodka liscia che mi sono appena versato e questo, non sfugge al mio migliore amico.

   «Che ti prende?».

   «Niente, giochiamo!», quasi ordino, volendo solo accantonare quel pensiero, almeno fino a quando mi sarà possibile.

   «Io le mezze», inizia Maxime, inforcando la sua stecca e puntandola contro la sfera bianca che spaccherà il triangolo, lasciando che le altre sfere si sparpaglino lungo il tavolo da gioco.

Giochiamo per gran parte della mattinata, Maxime vince tre partite su tre e finiamo a stravaccarci sul divano, con in mano altri drink con cui dissetarci.

   «Credo che tu si sia preso una responsabilità troppo grande», esorta poco dopo, ingollando tutto il contenuto del bicchiere.

   «Parli ancora di lei?»

   «Sì».

So che ha ragione, ma non posso fare altrimenti. Non è concepibile tradire e non mantenere fede all’ordine.

   «Sai bene, che alla fine di tutto, sarà lei a decidere di sua spontanea volontà, nessuno la obbligherà a fare niente».

Alla mente, le immagini di cosa ci attende si materializzano come fulmini che spaccano in due parti il cielo, dove sembra che le nuvole, dipingendosi di diversi colori, lo dividano tra bene e male.

   «Nessuna ragazza sana di mente potrebbe mai accettare».

   «La storia ci insegna che non è così. Quart’anni fa è esistita chi si è concessa senza indugi».

   «È quello che ci è stato detto, fratello. Ma se non fosse così? Noi non eravamo presenti per constatarlo».

Ho bisogno di bere un altro goccio.

   «Hai dei dubbi sul nostro ordine?».

   «Non sto dicendo questo, è solo che, alle volte, ci spingiamo oltre un confine che non dovremmo valicare».

Butto giù l’ennesimo bicchiere di vodka e, stanco della piega che ha preso la nostra conversazione, decido che è arrivato il momento di levare le tende.

   «Adesso, preoccupiamoci del tuo compleanno, l’ordine e i suoi problemi può aspettare a domani».

 

 

Mezz’ora dopo, sono nuovamente di fronte al campus di Princeton, le lezioni sono quasi terminate e aspetto solo che Harley compaia lungo la gradinata che si affaccia sui parcheggi.

E, alla fine, la vedo al fianco di Neil, entrambi vengono verso la mia direzione.

I capelli brillano baciati dal sole, il suo volto, completamente privo di un qualsiasi trucco, sprigiona tutta la sua purezza, la stessa della quale, poco per volta, senza averne alcun diritto, mi sto cibando.

   «Pronta per il decollo?».

Harley corruga la fronte confusa, forse si è dimenticata della mia promessa, o forse, credeva che stessi semplicemente scherzando.

   «Quale decollo?».

   «Non sei curiosa di conoscere quella parte di mondo del quale ti ho parlato questa mattina, Cenerentola », scandisco con una certa enfasi.

Non sono di certo uno che legge o che abbia mai letto delle stupide favole, ma per sentito dire, questa Cenerentola si cuce alla perfezione alla sua esistenza che, in uno schiocco di dita è cambiata per mio volere, solo, che io non sono il principe azzurro dal quale verrà salvata.

   «S-sì, ma…ma devo avvisare mia madre», con un cenno di assenso del capo, le concedo di fare la telefonata, mentre Maxime e Neil confabulano alle mie spalle.

   «Cenerentola, eh?», mi fa il verso il mio migliore amico che liquido subito con un imperioso dito medio che si innalza a mezz’aria.

   «Credo che non decollerà con noi», aggiunge poco dopo mio fratello, indicando Harley con un cenno del mento, mi volto e sembra che stia discutendo con la madre.

Mi avvicino, infischiandomene della telefonata madre figlia.

   «Che succede?», le mimo con le labbra, perché Charlotte non possa sentirmi.

   «Non posso venire…», mima a sua volta, ma non ho intenzione di ascoltare altro, così le strappo di mano il telefono e mi allontano da lei.

   «Charlotte?», il discorso che aveva intrapreso con Harley si arresta, rendendosi conto che la figlia non è più dall’altro capo del telefono, ma che ci sono io.

    «Nowell, mi spiace ma non posso farti portare mia figlia chissà dove e…».

   «E cosa? Vuoi tenerla con te alla reggia, mentre io la sto solo portando a una festa di compleanno? Credevo che ci tenessi al fatto che trattassimo tua figlia come una di famiglia. Credevo che volessi che ci fidassimo di te, ma come potremmo se sei tu a non fidarti di noi».

   «Non è questo è solo che…»

   «Credo sia meglio, se non vuoi problemi, il giorno della tua festa di fidanzamento, che lasci Harley venire con me. Domani pomeriggio saremo di ritorno. Almeno ché, tu non preferisca che dissuada mio padre, vista la reazione di Noha, a far slittare di qualche settimana questa stupida festa».

Il silenzio di Charlotte è la sola risposta che mi occorre, per chiudere la comunicazione.

Torno dagli altri, restituisco il cellulare ad Harley.

   «Forza, abbiamo un Jet che ci aspetta».

   «Come hai fatto a convincerla», mentre gli altri entrano in auto, afferro il volto di Harley con tre dita, portandomelo a una vicinanza troppo pericolosa.

   «Io posso tutto, non dimenticarlo mai».

Si inumidisce appena il labbro inferiore con la punta della lingua, mentre io vorrei solo conoscerne il sapore.

Il desiderio mi si diffonde nelle vene, come se fosse un veleno che mi logora sempre di più, mandando a puttane tutte le mie terminazioni nervose che fremono dall’idea di averla sotto di me, contro la mia erezione che inizia a premere attraverso il tessuto dei jeans.

 

 

Appena quattro ore di volo e atterriamo al McCarran di Las Vegas.

Le scalette del mio Jet toccano suolo, permettendoci di scendere, sulla pista, una limousine bianca dai vetri oscurati ci attende.

   «Non posso crederci», Maxime mi salta quasi al collo, capendo benissimo di essere appena atterrato a Las Vegas, «sei il solito figlio di puttana», le nocche chiuse sfregano forte contro il mio cuoio capelluto.

   «Non hai ancora visto niente», gli strizzo l’occhio e saliamo in auto.

Con noi, oltre ad Harley e Neil, ci sono anche il fratello di Maxim, Leo e il cugino Trevis.

All’interno dell’abitacolo, ci sono già quattro ragazze latino Americane pronte a divertirsi.

Harley le guarda, l’imbarazzo le si legge in faccia, mentre si siede avvicinandosi il più possibile a me.

Le ragazze stappano la bottiglia di Champagne, lo versano nei bicchieri e lo passano a tutti noi.

I loro minivestiti non lasciano niente all’immaginazione e, quando prendono a muoversi a ritmo di musica, mentre si sporgono dal tettuccio apribile dell’auto, neanche la biancheria che indossano è più un mistero.

Maxime, non si fa di certo pregare, infila le sue mani sotto la gonna di una delle ragazze, lei allarga maggiormente le gambe e lui la massaggia proprio lì, nella sua intimità.

Malgrado la musica che si diffonde per tutto l’abitacolo, i mugolii di lei sono ben udibili da tutti i presenti, soprattutto da Harley che si irrigidisce all’istante di fronte a quella scena.

Trevis, afferra la bionda e se la mette sulle cosce, con irruenza le scopre il seno che straborda dalla scollatura come se glielo stesse servendo dritto sulla lingua, che non tarda ad assaggiare quei capezzoli scuri.

La bionda inarca la schiena e senza vergognarsi di nulla lascia che la sua mano si insinui proprio tra le gambe massicce di Trevis, dandogli un assaggio della sega che gli aspetta una volta che si sarà calato i pantaloni.

   «Ti piace guardare?», le sussurro all’orecchio e la osservo deglutire a fatica, senza emettere alcun fiato.

Neil, afferra la mora dalla coda alta e la invita a inginocchiarsi ai suoi piedi, si tira fuori il pene eretto e glielo sbatte praticamente in faccia un paio di volte, prima che la mora inizi a lavorarglielo per bene con la bocca.

Leo prende a giocare con la rossa, che lo sta praticamente cavalcando attraverso il tessuto dei pantaloni, che ancora per poco, li terrà separati.

   «Allora, ti eccita quello che vedi?»

Harley sembra ipnotizzata, da tutto il caos che in pochi minuti si genera sui sedili della limousine, mentre ognuno di loro si scopa voracemente la propria dama di compagnia per la serata.

   «Credo…credo di sì», ammette un po’ titubante, mentre la mia mano si posa sul suo ginocchio per poi scivolarle in mezzo alle cosce a constatare che le sue mutandine sono completamente bagnate.

   «Lo credo anche io», mi prendo gioco di lei, spostandogliele appena, mentre come se fossimo di fronte a un comune film porno, inizio a massaggiarle il clitoride in piccoli cerchi circolari.

All’inizio, cerca di chiudere le gambe, impedendomi di proseguire, ma il suo respiro e la mano che artiglia il mio braccio mi dicono l’esatto contrario.

   «Nessuno si accorgerà di noi», proseguo, lasciando scivolare l’indice in mezzo alle sue labbra per raccogliere i suoi umori e portarmeli alla bocca.

Gli occhi di Harley si incatenano ai miei e, quando torno a saziarla si sgranano per la sorpresa, nel sentire il mio dito penetrarla.

La sua presa attorno al mio braccio si intensifica.

Osservo mio fratello prendere la mora, piegarla a novanta e riempirla senza ritegno, con stoccate forti e decise.

E aumento il ritmo dentro la fighetta stretta di Harley, pompo forte facendole scoprire un nuovo mondo, un nuovo piacere che il suo corpo non conosceva.

   «Ti prego», le sfugge dalle labbra che richiedono la mia attenzione, ma che non l’avranno in questo momento.

Così, prendo con il pollice a sfregarle il clitoride, mentre continuo a entrare e a uscire da dentro di lei.

Maxime esplode sulla bocca della sua ragazza, Leo fa lo stesso su quella della sua compagna, Neil si riversa sulla schiena della mora e Trevis le riempie le chiappe del suo sperma e, nell’esatto momento in cui il film a luci rosse sembra tirare su i titoli di coda, levo la mano dalle cosce di Harley, lasciandola completamente insoddisfatta, mentre l’orgasmo la stava per travolgere.

Le sistemo la gonna lungo le gambe e premo la mano aperta contro il suo ginocchio che ancora trema.

Il suo respiro è così forte e irregolare da fottermi il cervello, non so cosa sarei stato in grado di fare se fossimo stati solo io e lei e, da una parte è meglio che non sia così.

   «Brindiamo!», esulata Maxime dopo il suo orgasmo, le ragazze si rivestono e tutti si comportano come se non avessero appena scopato di fronte ai miei occhi, forse, perché non è la prima volta che accade.

La limousine si ferma, segno che siamo giunti a destinazione, mostrando al mio migliore amico il suo secondo regalo, il Caesars Palace.

Uno degli hotel casinò più cari e prestigiosi di tutta Las Vegas, la struttura con le sue colonne e le sue statue è un chiaro omaggio all’antica Roma.

   «Tutti pronti?», urla Maxime.

Gli altri si uniscono a lui in una danza stile Hawaiana, di quelle che ultimamente girano sul famoso social Tik Tok.

   «Andiamo a fare il check-in», li riporto alla realtà e oltrepassiamo le porte automatiche del locale.

Una volta consegnati tutti i nostri documenti, prendiamo il primo ascensore disponibile e raggiungiamo l’ultimo piano, dove le porte si spalancano sull’attico che occupa l’intero piano dell’hotel.

Ho fatto in modo che ognuno avesse la sua stanza e così la propria privacy.

Tutte le camere sono situate al primo piano, mentre solo una è al piano terra, ed è quella che ho riservato unicamente per me, dal momento che dispone di una piscina al centro della stanza.

I ragazzi corrono al piano di sopra, seguiti dalle ragazze che ho prenotato fino a domani.

   «Dov’è la mia stanza?»

   «Da questa parte», mi segue, attratta dal lusso e dallo sfarzo che ci circonda.

Entriamo all’interno della camera, i suoi occhi la percorrono in tutta la sua bellezza.

La vetrata ci mostra l’intera città illuminata ai nostri piedi e lei si avvicina proprio lì, a guardare ogni più piccola luce che si riflette contro il cielo del deserto.

   «Ti piace?», le domando mettendomi alle sue spalle.

   «Non avevo mai visto niente del genere».

Sorrido, contro la sua innocenza, ormai, sembra diventata un abitudine.

   «Quindi, questa sarà la mia stanza?»

   «La nostra», rispondo, immergendomi nel verde dei suoi occhi nei quali leggo tutto il suo timore nel dover trascorrere un’intera notte con me.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 7

Harley

 

 

Nowell mi osserva con quel suo solito sguardo indecifrabile.

Sono ancora scossa e sconvolta da quello che è appena successo all’interno della limousine, anche se alla fine, la parte di me meno razionale ha ceduta al desiderio.

Vedere tutti quei corpi aggrovigliarsi tra di loro per saziare il proprio appetito, ha innescato in me la stessa fame, della quale ultimamente, da quando questo diavolo tentatore è entrato nella mia esistenza, non riesco più a placare.

Nowell tira fuori una versione di me che non conoscevo.

È come se, esternamente apparissi come una qualunque rosa, ma lui non si è fermato a questo, no, lui ha iniziato a strapparmi via ogni singolo petalo, per raggiungere il cuore di ciò che si nasconde sotto strati di apparenza, per restare a galla in una realtà troppo incasinata.

   «Nostra?», mi mostro sfacciata e sorrido alla sua rivelazione.

   «Sì, hai capito benissimo», il suo naso sfiora il mio e, come accade ogni volta che mi si avvicina così pericolosamente, il solo pensiero è quello di sapere che sapore abbiano le sue labbra, la sua lingua.

Le vorrei sentire combaciare alla perfezione con le mie, percepirne il calore per lasciarmi travolgere ancora una volta da lui.

Qualcuno, spiando le mie attuali giornate potrebbe giudicarmi pazza, perché mi concedo a un perfetto estraneo, ma la verità è che Nowell sembra conoscermi più di quanto credessi io stessa.

Ci sono persone che nella vita di ognuno di noi capitano, altre che accadano, come se fossero un desiderio espresso e dimenticato nel tempo.

In lui trovo quel qualcosa che mi fa sentire libera.

Me stessa.

Unica.

Come non lo sono mai stata.

Faccio un passo indietro, osservando con maggiore attenzione la camera, al centro, al di là della piscina a sfioro sul pavimento, un letto king size padroneggia con il suo fascino stile francese.

Il legno del baldacchino intrecciato è di un nero sfumato da venature color oro, drappi di tessuto rosso ne sfiorano la struttura fino a toccare il suolo, sul soffitto, uno specchio ovale è sospeso in direzione del centro del letto.

   «Ho iniziato a leggere il libro», sfioro le lenzuola di seta, evitando volutamente il suo sguardo, «sei tu, Lust, non è vero?».

Sento i suoi occhi addosso che quasi mi obbligano a voltarmi, li percepisco ovunque, con quella loro intensità talmente letale da farmi iniziare a cedere le gambe e alla fine, sollevo il capo e annego in quel mare così oscuro.

Così pericoloso.

Così in tempesta.

Così eccitante.

   «Sì, sono io Lust», avanza verso di me, il fuoco lambisce le sue iridi, «il terzo dei sette pezzati capitali», retrocedo senza rendermene conto, mentre lui, come un predatore, sembra pronto a scagliarsi su di me, «la Lussuria», conclude la frase contro le mie labbra, che schiudo appena sentendo il suo respiro carezzarle.

   «Sono la parte più perversa, più insidiosa, più fuori controllo di tutto l’ordine», il suo pollice si strofina forte contro le mie labbra desiderose solo di sentire il sapore, il gusto del peccato.

Mentre, forse, dovrei solo avere paura delle sue parole, di ciò che ho letto, invece, mi sento ammaliata come una falena che si avvicina troppo alla fiamma, rischiando di bruciare le sue ali, così, io inizio a sentirmi bruciare di passione per tutte le ombre che sembrano avvolgerlo.

   «Perché?», trovo il coraggio di soffiare contro la sua stessa bocca.

   «Perché non so essere diverso».

   «Cosa c’è dentro di te?», premo la mano contro il suo cuore, il suo capo si china, gli occhi catturano quel gesto, come se stessi toccando qualcosa di inesistente, come se nessuno lo avesse mai sfiorato lì, dove i battiti del suo cuore fanno un gran casino contro la mia mano.

   «Il delirio, Cenerentola », la sua afferra la mia e me la scosta riportandola lungo il mio corpo.

   «Fratello…», veniamo interrotti dall’ingresso di Maxime, Nowell si volta verso il suo migliore amico e si allontana lasciandomi appiccicato addosso la sensazione di abbandono.

   «Hanno appena portato degli stand», lo avvisa, «ognuno con il nostro nome affisso».

   «Da questa parte», ci invita a seguirlo e tutti, tranne le ragazze che erano con noi sulla limousine, ci ritroviamo nella grande sala dell’attico.

   «Dal momento che non ho dato tempo a nessuno, di poter preparare un bagaglio per questo viaggio, ho pensato che potevate scegliere quello che era di vostro gradimento per la serata», indica gli stand posizionati al centro della stanza, mi avvicino a quello con il mio nome e inizio a guadare i vari vestiti appesi.

Sono uno più bello dell’altro e su ogni cartellino c’è la firma dei più prestigiosi stilisti francesi.

   «Credo che questo possa essere perfetto», Nowell prende tra le sue mani un vestito da sera rosso dalla scollatura profonda sia sul davanti che sul retro dell’abito, è una creazione di Yves Saint Laurent.

   «Va indossato senza reggiseno», mi sussurra all’orecchio, lasciando che la sua lingua mi solletichi appena il lobo, un brivido mi percorre da capo a piedi e mi ritrovo a trattenere il respiro.

   «Allora, vado a prepararmi», per una volta, voglio essere io ad avere il controllo della situazione.

 

 

Dopo mezz’ora, le porte dell’ascensore si aprono e tutti ci apprestiamo a uscire fuori per immergerci nella notte che ci attende.

Attraversiamo al hall dell’albergo, Nowell mi prende per mano, i miei occhi inciampano in quel gesto che riesce a rapirmi ancora di più nel suo mondo.

   «Hai addosso il mio vestito, come se fossero le mie mani, non voglio che nessuno ti guardi più del dovuto».

Sorrido, sfacciata al suono e al potere di quelle parole e trovo il coraggio di sporgermi verso il suo orecchio, «il reggiseno non è la sola cosa che non ho indossato».

Nowell mi stringe la mano con più foga, come se volesse tatuarmi addosso le sue dita.

   «Allora, fratello, dove ci porti?», Neil si affaccia tra di noi, facendosi spazio e mettendo le sue braccia lungo le nostre spalle.

   «Era proprio il caso?», Nowell lo rimprovera e non riesco a comprendere per cosa.

   «Rilassati fratello, mi sto solo divertendo, oppure, devo solo essere il cagnolino che pone rimedio ai tuoi casini?».

Nowell si scrolla di dosso il suo braccio e con ampie falcate si allontana dal resto del gruppo.

   «Tranquilla, sono certo che se te lo lavori per bene stasera, gli passerà ogni cosa».

   «Piantala Neil!», solleva le mani in segno di resa e si allontana riprendendo per mano la ragazza della limousine.

   «Non fare caso a lui», mi affianca Maxime, «ha solo esagerato con qualche pillola».

   «Fa uso di droghe?», domando stupidamente.

   «Ogni tanto, ma Nowell non lo tollera, come biasimarlo», la sua affermazione sembra riferirsi a qualcosa in particolare, ma che resta lì, in sospeso nella mia mente, mentre Nowell ci aspetta di fronte alla porta di ingresso.

   «Muovete il culo, abbiamo un tavolo riservato».

Forse, avrebbe dovuto dire: un tavolo riservato insieme a metà della sala del ristorante più famose degli Stati Uniti, Hell’s Kitchen .

Maxime, per la gioia, sembra un bambino al suo Luna Park preferito.

   «Non posso crederci», commenta, indicando il centro della sala con la scritta Happy Birthday tutta per lui.

   «Auguri, fratello», Nowell lo abbraccia, credo sia la prima volta che lo vedo esternare dell’affetto verso qualcuno.

Una ragazza dai lunghi capelli biondi ci mostra il nostro tavolo dove prendiamo posto e poco dopo iniziamo a ordinare.

   «Dovrei punirti».

   «Per aver fatto di testa tua», la sua mano si insinua fra le mie cosce fino a raggiungere la mia intimità completamente esposta al suo tocco.

Sento le sue dita pizzicarmi le grandi labbra, un gemito mi sfugge, ma per fortuna nessuno se ne accorge, «ricorda di mantenere sempre il controllo del tuo corpo», soffia contro le mie labbra che cercano le sue, ma senza poterle sentire.

La sua mano continua a giocare, a stuzzicare la mia intimità, mentre cerco di non destare sospetti sui presenti al tavolo.

   «Harley, non mangi?», il mio piatto è ancora colmo di cibo, perché la verità è che adesso sento un’altra fame che ha bisogno di essere saziata.

   «Non…non ho molto appetito», Nowell da gran bastardo quale è sorride beffardo e senza ritegno mi penetra con forza facendomi mancare il fiato.

   «Non è niente in confronto a quando sarà il mio cazzo a riempirti», bastano quelle parole a spingermi verso un luogo per me incontaminato.

È come essere in cima su una montagna russa, sentire il cuore in gola e attendere che l’adrenalina ti consumi e si dissolva poco per volta man mano che la discesa finisce.

Ed è quello che succede dentro di me, mentre inizio a sentire il bisogno impellente di lasciarmi andare, come se dovessi gridare, come se sentissi il bisogno di liberarmi.

I muscoli si contraggono ancora una volta, prima che una miriade di spasmi si diffondano in tutto il corpo, lasciandomi appagata e sazia al tempo stesso.

Nowell mi obbliga a guardarlo e io annego e riemergo nel mare in tempesta dei suoi occhi, mentre l’orgasmo, per la prima volta, mi travolge nel suo vortice vizioso.

Sexy come nessuno, si porta il dito alla bocca succhiandolo e ripulendolo dai miei umori.

   «Ti è piaciuta così tanto?».

Sto per sotterrarmi, credendo che qualche d’uno possa essersi accorto di qualcosa.

   «Sì, la carne», si volta a guardarmi ancora una volta, «qui è ottima», prende la bistecca fra le dita e ne addenta una bella porzione.

   «Dovresti mangiare anche tu, mi sembri stanca, Cenerentola ».

Adora prendersi gioco di me.

Della mia ingenuità che poco per volta si sta diradando come se fosse una coltre di nebbia accecata dal sole.

 

 

Dopo cena, ci troviamo tutti nella sala centrale del casinò dell’albergo, donne e uomini si divertono a giocare e a spendere i loro soldi ai vari tavoli.

Grandi lampadari di cristallo sono appesi al soffitto dove si rincorrono affreschi che ricordano l’antica Roma.

   «Voglio giocarmi tutto!», Maxime attira al suo fianco la ragazza alla sua mercé e si dirige al primo tavolo disponibile, seguito dagli altri.

   «Vuoi giocare anche tu?».

   «Non saprei neanche da dove incominciare».

   «C’è sempre una prima volta per tutto», mi strizza l’occhio e mi conduce al tavolo della roulette russa, dove le fiches da gioco vengono posizionate sul colore e sul numero sul quale si vuole puntare.

   «Che numero scegli?»

   «Non lo so, forse il 23 rosso».

   «Perché?»

   «È il giorno in cui sei comparso nella mia vita, allo Yatch Club», chino lo sguardo per l’imbarazzo creatomi dalle mie stesse parole e punto le fiches che mi ha dato proprio su quel numero.

La roulette prende a girare, la pallina ruoto all’interno della stessa sfiorando tutti i numeri e alla fine, rallentando la sua corsa si ferma proprio lì, sul numero 23 rosso, facendomi vincere.

   «Ho vinto? Ho vinto!», per la gioia inaspettata, senza rendermene conto salto al collo di Nowell, inalo il suo profumo inebriante per qualche secondo, prima di scivolare lungo il suo petto scultorio e avere il coraggio di guardarlo dritto negli occhi.

Noi non siamo niente.

Non siamo una coppia e mai lo saremo.

Non ci amiamo.

Non ci sono sentimenti che ci tengono uniti, eppure, non faccio altro che chiedermi perché, come due poli opposti non facciamo altro che essere attratti l’uno verso l’altro.

   «Scusami».

   «Per cosa?», infila le mani in tasca, facendo guizzare i muscoli delle spalle e delle braccia che si contraggono a quel movimento.

La camicia che indossa, di un bianco candido con scollo alla coreana, non lascia niente all’immaginazione.

   «Per questo», indico lui e poi me, Nowell abbozza un sorriso che mi fa sciogliere al suo volere.

È così sensuale che tutte le donne che sono nei paraggi non possono fare a meno che guardarlo in tutta la sua magnificenza.

Ha un corpo e una personalità che sprizzano potere da tutti i pori.

Quando cammina, sembra che il tempo si fermi e che tutto attorno a lui si offuschi, lasciandolo protagonista di qualsiasi attimo.

   «Continua a giocare, sembra che tu abbia avere la classica fortuna del principiante», non commenta quello che gli ho appena detto, indicandomi di continuare a giocare ed è quello che faccio.

Fino a vincere una cifra che non mi sarei mai sognata, dieci mila dollari.

   «Non posso tenerli», torniamo nella nostra stanza, mentre gli altri sono ancora ai tavoli da gioco.

   «Certo che puoi, li hai vinti tu».

   «Sì, ma con i tuoi soldi».

   «Vorrà dire che mi restituirai sola la prima puntata, per il resto, una volta tornati a casa mi occuperò io di versarli sul tuo conto personale».

Le porte dell’ascensore si spalancano sull’attico, entriamo e sfinita mi tolgo le scarpe col tacco che lascio cadere sulla moquette nera.

   «Non sono abituata», mi siedo sul divano, Nowell prende posto al mio fianco, si piega verso di me, lasciando che il suo profilo sfiori il mio, mentre abbraccia le mie gambe e se le porta in grembo e inizia a massaggiarmi i piedi.

   «Così va meglio?».

   «Decisamente», adesso che ho assaporato l’effetto di un orgasmo credo di stare per averne un altro.

   «Da quanto fai parte…»

   «Dell’ordine?», conclude lui la frase per me e mi limito semplicemente ad annuire.

   «Dal mio primo anno a Princeton», aspetto che aggiunga altro, che mi spieghi in cosa consista e perché è così importante da contenere un’intera storia scritta su un libro così vecchio, ma non lo fa.

Leggendolo, non mi ci è voluto molto nel rendermi conto che lui, tra i sette, potesse essere la Lussuria, ma quello che ancora non ho compreso è il perché.

D’un tratto il suo umore sembra mutare, si alza in piedi, man mano che cammina si sbottona la camicia che indossa e si reca verso l’angolo bar dove si versa un drink.

Rimango in silenzio, in attesa che dica una sola parola, ma non lo fa, afferra la bottiglia e si incammina verso la nostra stanza.

Attendo un paio di minuti per poi sentire lo strabordare della piscina e, alla fine, correndo il rischio di essere cacciata mi avvicino restando immobile sulla soglia della porta.

Nowell sta nuotando completamente nudo, il suo corpo marmoreo è baciato dalla luce soffusa della camera, quando riemerge, scuote il capo da destro verso sinistra, passandosi poi le mani contro i capelli che porta tutti all’indietro.

Il solo vederlo è paradisiaco.

È una tentazione.

È il proibito.

   «Perché non vieni anche tu? L’acqua è perfetta».

   «Posso entrare senza correre il rischio che mi anneghi?», cerco di alleggerire la tensione, mi avvicino al bordo piscina e con la punta del piede constato la temperatura dell’acqua, ma è una mossa del tutto stupida, se nei paraggi c’è un tipo come Nowell Walker.

   «La vita è tutta un rischio. Cenerentola», mi afferra la caviglia e in un attimo finisco dritta in acqua completamente vestita.

Quando riemergo Nowell è a un respiro dal mio volto, bello e dannato mi fa sentire completamente nuda al suo sguardo famelico.

In un silenzio che sembra rimbombare contro le pareti che ci circondano, si fa spazio tra le mie gambe per poi allacciarsele in vita.

Dovrei sentirmi in imbarazzo a sentirlo proprio lì, nudo e senza vergogna contro la mia intimità che subito reagisce al suo tocco infuocato.

Ma la verità è, che con lui non ho mai provato un filo di vergogna per essere ciò che sono, vergine all’età di diciannove anni.

Ha il potere di rendere normale ciò che agli occhi altrui è solo un peccato.

E io, godo della fortuna di avere tra le cosce il più bel peccato capitale del mondo, lui.

Lust.

La Lussuria.

La perversione.

   «Perché non mi baci?», il suo naso sfiora il mio, gli occhi chiusi come se si stesse trattenendo.

   «Perché, se lo facessi, non sarei più in grado di tornare indietro», le sue mani premono forte contro i miei glutei.

Fronte contro fronte restiamo così, a galleggiare nell’ignoto delle nostre esistenze, mentre fuori, il mondo esplode in una moltitudine di colori e rumori che ci vibrano fin dentro l’anima.

   «E chi dice che poi dovresti tornare sui tuoi passi?».

   «Il destino, Cenerentola, siamo tutti frutto di un sistema, di un meccanismo. Pedine di una scacchiera più grande di noi».

Decido di godermi e di accogliere ciò che è disposto a darmi, perché in questo momento non vorrei essere da nessun’altra parte se non fra le sue braccia, così poso la guancia contro la sua spalla e per un attimo, una parvenza di normalità, sembra abbracciare i nostri corpi, mentre ascoltiamo lo scandire dei nostri cuori incasinati.

   «Perché continui a chiamarmi Cenerentola?».

   «Perché mi piace immaginarti come una delle protagoniste delle fiabe».

   «Ognuna di loro ha un principe azzurro del quale si innamora».

Nowell prende il mio volto con una mano e mi obbliga a guardarlo, non proferisce parola, ma sono in grado di leggere nei suoi occhi ciò che lui non potrà mai essere.

Mio.

 

La mattina mi risveglio da sola nel grande letto della nostra camera.

Abbiamo solo dormito abbracciati ed è stata la cosa più bella e romantica che potessi mai aspettarmi da uno come Nowell.

Sento il vociare provenire dal salotto e immagino che sia lì con Maxime, quando un bip, proveniente dal mio cellulare, svogliatamente mi obbliga ad alzarmi dal letto.

Con il lenzuolo avvolto attorno al corpo raggiungo la borsa che avevo lasciato nel piccolo sofà ai piedi del letto e lo recupero.

Controllo le notifiche e tra i messaggi mi compare il nome di Irvy.

Corrugo la fronte confusa non capendo di chi si tratti.

 

 

IRVY: A che punto è la tua iniziazione?

 

Sto per scrivergli che ha sbagliato numero, quando arriva un altro messaggio.

 

NOWELL: Mi sembra di averti già detto che non sono affari che ti riguardano.

IRVY: Vedi, è qui che ti sbagli, se sei tu il prescelto affinché il rito si consumi è affar mio eccome.

NOWELL: Il rito ci sarà, non ho mai infranto una promessa. Ho una sola parola.

IRVY: Lo spero per te, perché tutti stiamo fremendo all’idea di mettere le mani sulla biondina.

 

Il cellulare mi scivola via rovinando al suolo, la mano a tapparmi la bocca per lo sconcerto che provo.

Tutti stiamo fremendo all’idea di mettere le mani sulla biondina.

È per questo che mi ha detto di avermi scelta?

È per questo che gli appartengo?

Per essere condivisa con i suoi amici?

   «Harley?».

   «Quando? Quando avevi intenzione di dirmi che sarei diventata il giocattolino dei tuoi amici?», lo sguardo pietrificato, la mascella serrata.

   «Quando?», urlo pestando i pugni chiusi contro al suo petto, «era tutto organizzato per questo?», le lacrime copiose iniziano a solcarmi il volto, ma è quando sento la sua voce, che il sangue mi si gela nelle vene.

   «E sentiamo, che cosa ti eri messa in testa? Una favola con il lieto fine?», un ghigno malevole gli imprigiona la bocca, della quale non ho mai saputo che sapore avesse.

   «Sei solo uno schifoso bastardo», lo spintono e corro in bagno per vestirmi e scappare via dall’inferno dal quale mi sento lambire.

Nowell è un demone senza anima.

Ecco di chi mi stavo innamorando.

Ecco, per chi stavo perdendo la testa.

Ma quanto sono stata stupida?

Rimprovero a me stessa, mentre di tutta fretta mi rimetto la divisa della Princeton con la quale sono arrivata fin qui.

Torno in camera da letto, e tiro un sospiro di sollievo nel non trovarmelo di fronte, prendo la mia borsa e osservo i soldi nella busta che ho vinto la sera precedente, tiro fuori i due biglietti da cinquecento dollari che sono serviti per la puntata iniziale e glieli lascio sopra il comodino.

Non voglio più avere niente di lui.

Attraverso il salotto e quando le porte dell’ascensore si spalancano, Nowell i blocca il passaggio.

   «Dove pensi di andare?»

   «Ovunque, basta che sia il più lontano possibile da te. Ricordi? Se me ne fossi voluta andare, tu non avresti fatto niente per impedirmelo. Non mi avresti mai tenuta contro la mia volontà».

Inspira bruscamente, le dita si stringono con vigore contro il metallo delle porte automatiche prima di lasciare la presa e lasciarmi libera di andarmene.

Ci guardiamo un’ultima volta, occhi contro occhi, prima che tutto di noi si chiuda per sempre non appena l’ascensore inizia la sua discesa.

Eravamo come quelle trame dei romanzi che amo tanto leggere.

Io, la brava ragazza di provincia, tutta casa e lavoro.

Lui, il diavolo tentatore dei miei sogni più proibiti, tutto sregolatezze, alcol e tatuaggi.

Tutto era già stato scritto, dopo il nostro incontro, niente sarebbe più stato lo stesso.

Stretta nelle spalle percorro la hall, mi guardo attorno al ricordo della notte precedente, a come tutto era perfetto, a come noi lo eravamo e per un attimo, un solo istante ho creduto che potesse essere vero.

Che quello che c’era tra noi non ero solo io a sentirlo.

   «Prego», un uomo mi apre la portiera di uno dei taxi situati al di fuori dell’hotel.

   «Dove la porto signorina?»

   «All’aeroporto», mi giro oltre il finestrino e, per l’ultima volta guardo la favola alla quale, almeno per una notte ho preso parte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 8

Nowell

 

   «Si può sapere che diamine è successo?», guardo il mio migliore amico, il solo che in questo momento può capirmi.

   «Quello che non sarebbe dovuto accadere. Radunate le vostre cose, si torna a casa. Ora».

Come lo ha saputo?

Non era arrivato il momento.

Avrei dovuto essere io a dirglielo.

Ma chi cazzo sto prendendo in giro.

Non avrei mai avuto il coraggio di farlo, di metterla al centro di quella fottuta stella perché la vergine prescelta, venisse consumata da tutti gli altri peccati dell’ordine.

Maledico me stesso, perché lei ha scavato in una parte di me che avevo rimosso.

Il suo profumo.

Il suo sapore.

Il calore del suo corpo.

Tutto così perfetto e peccaminoso, da farmi rendere conto che non avevo mai provato niente del genere per nessuna ragazza che abbia occupato il mio letto.

   «Lo sapevo, che quella ragazza ti avrebbe cambiato», in uno scatto mi volto verso Maxime, mentre il Jet privato rulla sulla pista pronto al decollo.

   «E da cosa te ne saresti accorto?»

   «Dal modo in cui l’avevi guardata la prima volta. Ti conosco fratello e nessuna ha mai attirato la tua attenzione per più di una serata. Per lei hai mosso fili invisibili solo per averla sotto al tuo stesso tetto».

Scoppio una fragorosa risata, mi passo le mani fra i capelli e penso a come il destino, in questo momento si stia prendendo gioco di me.

Se la deve ridere alla grande.

    «E pensare che per quanto abbia mosso bene quei dannati fili, a breve potrebbe diventare la mia sorellastra e lei non farà altro che odiarmi per il resto della sua esistenza».

Pesto un pugno contro il ginocchio, la collera inizia a divorarmi da dentro, la sento mangiarsi ogni parte razionale di me, mentre tutto di lei mi si riversa nella mente in maniera indelebile e sono…sono fottuto.

Io ho fatto in modo che mio padre incontrasse Charlotte, certo che le sarebbe piaciuta, era esattamente il suo tipo.

Ho creato diverse occasioni affinché, quello che sembrava un caso altro non era che un piano perfetto per farla finire fra le sue braccia.

Certo, credevo che ci avrebbe messo un po’ a portarcela a casa, ma devo riconoscere, che la mia matrigna deve sapersela cavare molto bene a letto, per aver fatto sì che tutto si avverasse in giro di un paio di mesi.

Non aspettavo altro che vederla comparire nell’atrio di casa mia, con la consapevolezza che da quel momento in poi, Harley mi sarebbe appartenuta.

Era qualcosa che mi sentivo scorrere nelle vene, lei.

Solo lei e nient’altro.

Ma ero troppo codardo e concentrato sui miei affari per ammetterlo.

Mi ripetevo che lei, altro non era che un compito che avrei dovuto portare a termine per l’ordine.

   «Cosa pensi di fare con loro?», Maxime mi riscuote dal turbinio dei miei pensieri.

   «Quello che andrà fatto, non ho paura di loro e tanto meno delle conseguenze».

Ho già deciso, e non sono disposto a tornare indietro per nulla al mondo.

Harley, senza rendersene conto mi ha mostrato un mondo che non avevo messo in conto, il suo.

Ho visto la gioia nel suo sguardo per cose che io non ho mai apprezzato come si deve, come un abito nuovo, un romanzo o come il semplice fatto di alloggiare in un super attico e, tutto questo perché sono nato e cresciuto in un mondo d’oro che mi ha corroso e fatto dimenticare che cosa si provi realmente a essere felici.

Una volta atterrati a Monroe, la sola cosa che voglio fare è tornare a casa con la speranza di trovarla lì, nel suo appartamento.

Saluto i ragazzi, monto in auto seguito da Neil e a tutta velocità mi precipito alla reggia.

   «Così ti sei fatto incastrare?», commenta mio fratello al mio fianco, con i postumi della sbornia e di chissà quale altra merda si è buttato in corpo.

   «Non so cosa sia, ma ho tutta l’intenzione di scoprirlo».

   «Anche lei finirà per deluderti, sono tutte uguali».

So che si sta riferendo a nostra madre, i suoi atteggiamenti, i suoi errori, hanno lasciato su di noi cicatrici indelebili che non si potranno mai rimarginare del tutto.

   «Forse, non tutte sono come lei. Non tutte nascondono il seme della follia pronto a distruggerti», confesso più a me che a lui.

   «Forse».

Il cancello automatico si spalanca di fronte a noi e percorro a tutta velocità il viale sterrato fino alla tenuta.

Non mi preoccupo di posteggiare nei box, freno bruscamente di fronte all’ingresso e senza curarmi di chiudermi lo sportello alle spalle, mi precipito dentro casa.

   «Harley!», mi fermo al centro della prima torre, dove il suo nome riecheggia lungo le pareti.

   «Harley!», salgo la prima rampa di scala, diretto alla torre est.

   «Harley!»

   «Non la troverai più qui», Charlotte compare dinnanzi a me, «non so cosa sia successo a Las Vegas, ma sappi che ho tutta l’intenzione di scoprirlo».

   «Dov’è andata?», le mani si serrano in una presa mortale contro la balaustra dorata.

   «Lontana da te».

Mi oltrepassa, gli occhi colmi di lacrime, mentre i miei si iniettano di sangue contro il solo responsabile di tutto questo casino.

Me stesso.

 

 

Sono passati quattro fottuti giorni, nei quali le sue tracce sembrano essersi smarrite nel nulla.

   «Ho detto che non mi importa, dovete trovarla!», sbraito contro le solite persone alle quali mi rivolgo per fare quelle che io definisco delle “ricerche approfondite”.

   «Stiamo per entrare in campo», annuisco contro uno dei miei TH.

Oggi abbiamo la temuta partita contro la Brown.

Spero solo che Irvy non mi capiti a tiro o, per la rabbia che ho accumulato in questi giorni, potrei seppellirlo sottoterra di fronte a tutti i suoi tifosi.

Dagli altoparlanti del campus si diffonde l’inno della squadra, la nostra mascotte, una tigre con in mano un pallone da football fa il suo ingresso in campo, seguita dal resto della squadra.

Ci schieriamo tutti al centro del campo in attesa che gli orsi facciano la loro comparsa.

Non appena siamo uno fronte all’altro, l’adrenalina inizia a pompare forte nelle vene, mentre un boato da stadio si diffonde nell’aria e tutti prendiamo a saltare sul posto a mo’ di sfida con le mani strette al pacco, lanciando il solo messaggio plausibile: “che a fine partita ce lo potranno succhiare forte”.

L’arbitro chiede a me e a Irvy di scegliere testa o croce.

   «Testa»

   «La tua», commento, scegliendo a mia volta croce.

La moneta rotea tra di noi a mezz’aria fino a cadere contro il dorso della mano dell’arbitro.

   «Iniziano i Tigers».

Faccio un fischio di apprezzamento, la folla è già in delirio e raduno la mia squadra tutta attorno a me per spiegare lo schema di gioco da mettere in atto.

   «Tutti d’accordo?»

Ci osserviamo attraverso le protezioni del casco che indossiamo.

   «Merda! Merda! Merda!», le mani unite una sopra all’altra prima di sollevarle tutte in aria e schierarci nella nostra formazione.

Mi piazzo dietro al mio uomo, le mani aperte a coppa tra le sue mani pronte per ricevere lo snap della prima azione.

   «Hut one», inizio a chiamare lo schema.

   «Hut two».

   «Hut Fuck Bears», la palla passa dallo snapper a me, l’afferro e come un fulmine faccio una finta e la passo dietro di me, al mio TH migliore che scatta pronto a mangiarsi le prime trenta yards.

Quei bastardi iniziano a stargli addosso, così tutti ci sparpagliamo sul campo tra respiri sommessi, ringhi animaleschi e tonfi sordi di corpi che crollano al suolo.

Il delirio inizia a essere il protagonista sul campo.

   «Ora!», grido alle spalle del mio uomo, il TH lancia la sua palla, una parabola perfetta, che atterra tra le mani del mio secondo running men, venti, venticinque e finalmente le prime trenta yards sono nostre, mentre il difensive men dei Bears mette ko il mio uomo.

Glielo concediamo, perché è esattamente quello che vogliamo, che pensino di avere il controllo della situazione, ma siamo sempre noi a condurre il gioco.

   «Peccato, mancavano altri venti yards», Irvy sputa fuori il paradenti, convinto che i suoi abbiano appena placcato un azione perfetta.

   «Già», mi limito a dire per poi ripartire esattamente da quel punto con loro che hanno il possesso palla.

Conosco quel coglione di Irvy Black, ho studiato tutte le sue mosse da quando ce lo siamo trovato come avversario nella rosa delle squadre della NFC.

È talmente prevedibile che non mi servirà molto per intercettare quelle che saranno le sue prossime mosse.

Chiama l’azione e quando lo snapper gli passa la palla ha già due dei miei che gli soffiano sul culo.

   «Dove sono finiti gli orsi della Brown», lo accerchiamo, mentre i suoi placcati dagli altri membri della squadra non riescono a raggiungerlo, è nostro e come una tigre vera e propria sto per fare il mio primo spuntino.

Al terzo down conduciamo per ventidue a diciassette.

Sto correndo verso la meta come se oltre quella linea ci potesse essere solo una persona, lei.

Cenerentola.

Non esiste attimo in cui non pensi a lei.

Corro come se mi bastasse così poco per riuscire a sfiorarla e alla fine segno il touchdown che ci dà uno stacco colossale dai nostri avversari.

Il quarto down sarà una passeggiata, possiamo anche solo camminare con tranquillità, anzi, direi che potremmo sfilare come delle cazzo di top model perché la vittoria è già nostra.

Ed è quello che facciamo, stuzzicando la calma apparente dei nostri avversari che, sentendosi prendere per il culo iniziano a mostrare la loro vera natura.

   «Hai vinto la partita a quanto pare», istiga Irvy attraverso le protezioni del casco, «credevo che non ci avresti messo poi così tanto impegno, dato che la biondina non è più in gioco».

La mascella si serra producendo un suono poco piacevole.

Non credevo che l’ordine sapesse già di lei e della sua fuga.

   «Credo che ci dovrai delle spiegazioni. A proposito, credo che al tuo rientro negli spogliatoi troverai un invito personale che ti aspetta».

Non attendo i festeggiamenti dei tifosi che urlano e battono i piedi sugli spalti, ma mi dirigo dritto verso gli spogliatoi e verso il mio armadietto dove, non appena lo apro, una lettera nera cade ai miei piedi, lo stemma della stella a sette punte sigillarne il contenuto.

Strappo la carta e leggo il contenuto per poi stritolarla nel palmo e ridurla in tanti brandelli.

Mi faccio una doccia veloce e quando esco nel parcheggio, una macchina nera è già lì che mi aspetta.

   «Vuoi qualcosa da bere?», il guardiano con la sua solita maschera calcata in volto e il suo mantello a nasconderlo dal resto del mondo mi offre un calice di champagne che rifiuto.

   «Perché sono qui?».

   «Hai mentito all’ordine. La prescelta non è più tra le tue mani».

Detesto il modo in cui parla di lei, come se fosse un oggetto, un mezzo solo per raggiungere il proprio obbiettivo.

Harley.

Cazzo, lei si chiama Harley.

    «A quanto pare mi sono sbagliato, non era pronta a noi e a quello che rappresentiamo».

   «Questo è davvero un peccato, perché adesso come possiamo lasciare in giro una persona che è a conoscenza dell’ordine».

Tutti i nervi del corpo si tendono contro le sue sottili minacce.

   «Lei non sa niente di noi. Mi sono reso conto molto prima che non era la persona che credevo».

Una risata bassa e raccapricciante mi corre lungo la spina dorsale.

   «Ti sei innamorato, non è vero?».

   «Non sono affari che la riguardano».

   «Sei tale e quale a lui, e io che credevo che almeno tu avessi preso da me».

Corrugo la fronte confuso, non riuscendo ad assimilare il senso delle sue parole.

Non abbiamo mai saputo chi si celasse sotto quella maschera.

   «Credevo che un giorno ti avrei lasciato il mio posto», l’auto si ferma, i vetri oscurati si abbassano lentamente e mi rendo conto che ci troviamo a casa mia.

   «Perché siamo qui?», mio padre compare lungo le scalinate, al suo fianco Neil.

   «Che cazzo sta succedendo?».

   «Gli errori vanno sempre pagati figliolo», saetto lo sguardo da mio padre a mio fratello, tra le sue mani la stessa lettera che mi fu recapitata quattro anni prima.

   «Nowell, scendi e lascia che sia tuo fratello a prendere il tuo posto, a porre rimedio ai tuoi errori, come un tempo io feci con i miei».

   «Ma di cosa stai parlando?».

La confusione mi attanaglia l’anima ed è come se mi sentissi precipitare in un baratro più oscuro della mia stessa esistenza.

   «Nowell, non sei stato scelto per caso. Nessuno di voi lo è stato».

Il guardiano si sfila la maschera, rivelandomi il volto dell’unica persona della quale mi sia mai fidata, mio nonno.

Sconcertato, trattengo il respiro, come se potesse rubarmi anche quello, come se potesse privarmi ancora di tutto quello nel quale ho creduto fino a questo momento.

   «Tu?».

   «Siamo tutti parte di un sistema più grande, Nowell. Niente, di tutto ciò che è successo è stato un caso».

Il padre di mia madre mi parla come se tutto fosse normale e non si disturba di certo d scegliere le parole con cura, me le sbatte in faccia così, senza ritegno, senza vergogna.

   «Nemmeno la morte di tua figlia?».

Sorride, senza alcuna emozione, il suo sguardo, lo stesso riflesso della donna che mi ha messo al mondo sembra perdersi nel viale dei ricordi.

   «Tua madre ha perso il controllo di sé stessa, ma non per causa dell’ordine. Tuo padre la conobbe proprio come tu, adesso hai conosciuto la tua Harley. Era una giovane ragazza curiosa che ficcò il naso in cose che non la riguardavano. Tuo padre, ai tempi era ciò che sei tu adesso, il Lust. Se ne innamorò subito, non appena la vide, come biasimarlo, era bella, tale e quale alla madre. La sola donna che abbia mai amato».

Trattengo la rabbia, mentre la sola cosa che vorrei fare e prendere e scappare via dalla trappola che è stata la mia vita fino a questo punto.

   «Tuo padre si innamorò di lei e come te, quarant’anni fa, non la concesse per il sacrificio al cospetto di tutti i membri dell’ordine».

Una risata tetra e carica di ira mi pervade le corde vocali.

   «E tu avresti concesso che un branco di animali si fossero approfittati di tua figlia?», la furia cieca delle mie parole non sembrano neanche sfiorarlo, come se tutto fosse lecito e normale.

   «La prescelta è colei che comprende e si sacrifica, non dimenticarlo. Nessun membro dell’ordine ha mai toccato una donna contro il suo volere».

   «Non me ne importa un cazzo delle vostre regole».

Mio nonno, nella sua totale pacatezza, mi guarda, gli occhi contornati dalle rughe, i segni dell’età che si incidono sulla sua carne come tatuaggi indelebili che raccontano però, un altro spaccato di vita.

   «Tua madre, ha iniziato a non star bene dopo averti avuto. Ha mostrato i primi segni di squilibrio mentale».

   «Allora, perché se non stava più bene avete lasciato che mettesse al mondo altri due figli se non era più in grado di prendersi cura neanche di sé stessa», le mani si serrano in due pugni, sento le unghie conficcarsi nel palmo, ma nessun dolore in questo momento è in grado di scalfirmi.

   «Perché tuo padre, proprio come stai facendo tu adesso, ai tempi non ha rispetto le regole dell’ordine, così, gli eletti della stella hanno deciso che doveva garantire almeno tre predecessori futuri».

Io.

Neil.

Noha.

Non riesco ancora a credere alla follia delle sue parole.

   «Ogni causa ha il suo prezzo, figliolo».

   «Il suo prezzo?», ripeto furente, «perché è giusto che un figlio venga violato dalla stessa donna che lo ha messo al mondo? È giusto che un figlio si debba difendere dalla propria madre, perdendo il controllo e uccidendola accidentalmente? È giusto?», afferro mio nonno per il collo del mantello che indossa e lo strattono per tutte quelle domande alle quali nessuno potrà mai e poi mai dare una risposta plausibile.

   «Nowell», la voce spezzata di Noha, allenta la mia presa sul mio stesso sangue, lo lascio andare e decido di scendere da quella macchina infernale.

Rendendomi conto che non c’era qualcosa che non andava in me, ma in tutta quella che è stata la mia esistenza.

Sono nato per volere dell’ordine, non per l’amore che poteva esistere tra mia madre e mio padre.

   «Andiamo dentro, Noha», mi avvicino a mio fratello e gli poso un braccio attorno alle spalle, è lui quello che tra tutti ha pagato lo scotto più grande.

Neil, ignaro di tutto mi guarda come se in me non riuscisse più a vedere il fratello maggiore del quale si è sempre fidato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

***

 

 

Sei anni prima.

Nowell.

 

Io e Trish, come ogni fine settimana ce ne stiamo rintanati nella mia torre a guardare qualche film sulla TV via cavo.

Lei è seduta tra le mie gambe, con l’erezione del mio pene che gli si incastra alla perfezione nello spacco del suo sedere creato dal perizoma di pizzo nero che indossa.

   «Ci pensi? Tra un anno e mezzo sarai il quarterback dei Tigers dei Princeton».

Inclina appena il capo, posandolo contra la mia spalla e lasciando così che i nostri sguardi si incastrino tra loro.

Non la amo, non sono in grado di dare una collocazione a questo sentimento, non per qualcuno che non appartenga alla mia famiglia.

Trish è bella, una cascata di capelli neri come la pece incorniciano uno sguardo da cerbiatta dove due iridi azzurre sanno far invidia all’oceano.

E questo, è sufficiente affinché me la possa sbattere tutte le volte che voglio, mentre a lei resta il privilegio di pavoneggiarsi tra i corridoi della nostra scuola come la mia ragazza.

   «A quanto pare è già stato tutto deciso», commento con poco entusiasmo nei confronti di quello che sarà il mio futuro.

Ci sono ragazzi della mia stessa età che pagherebbero oro per essere ammessi senza troppi sforzi in una delle università più prestigiose del paese, eppure, io non riesco a sentire un minimo di emozione.

La mia vita, fin da quando ero solo un bambino è stata sempre programmata, come se dovesse obbligatoriamente seguire uno schema.

Mi sono sempre sentito dire: « un giorno capirai».

Ma io, avrei solo potuto scegliere da solo quelli che sarebbero stati i passi che avrei voluto compiere giorno dopo giorno.

Sogno la UCLA di Los Angeles, i The Bruins.

Sogno il football americano universitario, nudo e crudo come si respira in quei campi.

Invece, mi sento prigioniero della mia stessa esistenza.

   «Sei fortunato. Io non verrò mai accettata in un università di quel calibro», sospira Trish.

   «E sentiamo, perché vorresti andarci? Anzi, non mi rispondere, indovino. Per far finta di appartenere al prestigioso mondo dei privilegiati, di quella cerchia di mondo che non deve chiedere mai».

   «Sei uno stronzo, Nowell!», scatta in piedi, afferrando i jeans dal pavimento e ancheggiando se li infila, per poi raccogliere anche la felpa e mettersi anche quella.

   «Non dovresti incazzarti quando uno ti dice la verità».

   «Per te è facile parlare, lui, Nowell Walker il proprietario di questa fottuta città dove sono capitata», prende il cappotto e lo indossa freneticamente.

Io, senza fare troppo casino, con indosso solo i miei boxer firmati e la camicia sbottonata, mi limito ad accompagnarla fuori dalla reggia, solo per accertarmi di non ritrovarmela a letto nel cuore della notte.

La piega che ha preso la nostra conversazione mi ha reso di pessimo umore e voglio restare solo, a bere qualcosa di forte e a farmi qualche canna.

   «Nulla di ciò che riguarda la mia vita è facile, Trish».

Percorriamo il primo corridoio per poi imboccare la seconda rampa di scale che conduce all’atrio della casa.

Una volta scesi i gradini di ingresso, il suo motorino è posteggiato vicino alla fontana, aspetto che ci monti sopra e che scompaia oltre il vialetto sterrato, ma delle voci provenienti dal giardino attirano la nostra attenzione.

Faccio cenno col dito a Trish di stare zitta e mi avvicino verso la serra dei fiori che mia madre ama tanto coltivare.

A ogni passo le voci si fanno sempre più nitide.

   «Lo sai che per me sei speciale», è la voce di mia madre.

   «Perché proprio io?».

Noha?

   «Inginocchiati come fai sempre e non farmi arrabbiare adesso».

Corrugo la fronte confuso, mentre il cuore prende a colpire forte la cassa toracica, le mani sudano e le stringo in due pugni.

   «Non voglio. Non voglio più farlo», piagnucola.

   «Ti ho detto di inginocchiarti e di baciarmi proprio qui, dove mi sto toccando. So che piace anche a te, non farti pregare».

Rabbrividisco dal disgusto e i piedi per un attimo si piantano al suolo dove sembrano mettere radici per un tempo che non sono in grado di quantificare, mentre penso alla donna che mi ha cresciuta e alla sua depravazione.

   «Noooo!», un forte frastuono mi riporta alla realtà e non appena spalanco la porta di metallo trovo Noha in piedi, gli occhi sgranati dal terrore contro il corpo inerme semi nudo di mia madre steso a terra.

   «Cosa suc…», Trish si copre la bocca con entrambe le mani, alla vista del troppo sangue che fuori esce dalla testa di mia madre.

   «Porta Noha, lontano da qui!», ordino, mentre mi chino a terra e controllo invano se il suo cuore batte ancora.

Le urla strazianti di Noha si disperdono per tutta la tenuta e da lì a poco, dietro le mie spalle compare mio padre.

   «Mi prenderò io la responsabilità, diremo che è stato un incidente e…», inizio a farfugliare, mentre mio padre con una calma raccapricciante sfila il suo cellulare dalla tasca e si appresta a fare un paio di chiamate.

Quando torna da me, i piedi si sono imbrattati del sangue di mia madre e io non riesco a togliere gli occhi di dosso dalla donna che stava per approfittarsi di mio fratello.

   «Partirai stasera stessa. Finirai l’anno scolastico lontano da qui, sei troppo coinvolto, voglio che riprendi in mano la tua vita e che non ti faccia influenzare dagli eventi. A Noha penserò io, conosco un ottimo medico, sono certo che con un paio di sedute…».

   «Tua moglie si scopava tuo figlio e tu pensi di rimettere tutto a posto come se fossimo solo pezzi di un puzzle che si devono incastrare tra loro per non far crollare il buon nome della famiglia? Perché non sei sconvolto quanto me? Perché?», lo spintono più e più volte finché non mi afferra i polsi e mi tiene fermo, mentre le lacrime iniziano a solcarmi il volto.

   «Perché è solo colpa mia, io…io immaginavo che qualcosa non andava, ma non volevo, non potevo crederci e, adesso ti prego, permettermi di aiutarvi, di essere il padre che non vi ha protetto come avrebbe dovuto».

Non so perché lo faccio, ma mi getto fra le sue braccia come se fossi solo un bambino e volessi scappare dall’incubo che mi ha fatto visita durante la nonna.

   «Devi fidarti di me. Andartene via da qui sarà la cosa migliore, soprattutto per te».

Annuisco contro la sua giacca, rendendomi conto che non voglio passare un altro solo secondo in quella casa dove tutto mi fa rivoltare lo stomaco.

   «Noha, cerca di proteggere anche lui».

   «Lo farò, manderò anche lui lontano da qui, in una clinica che lo aiuti a superare il trauma».

    «E Neil?».

   «Lui non dovrà mai saperlo».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 9

Harley

 

Due settimane dopo.

 

   «Sì, mamma, ti ho già detto che farò di tutto per esserci», mi verso del caffè e mi siedo sul bordo del letto mezza vestita con il cellulare incastrato tra la spalla e l’orecchio, scoccando un’occhiata alla sveglia sul comodino che indica quasi le sei di sera.

Tra meno di un’ora inizio il turno, non riesco ancora a credere di aver riavuto il mio posto di lavoro qui allo Yatch Club.

   «Ho spostato il giorno della festa di fidanzamento per te», roteo gli occhi al cielo, anche se non posso fargliene una colpa, non osa neanche immaginare per quale motivo sia scappata da quella casa.

Anzi, la cosa che mi ha sorpreso è che non mi sia venuta a cercare, costringendomi di tornare lì con lei.

Per fortuna, dopo un paio di telefonate, ha capito che sono abbastanza grande per scegliere da sola la strada da percorrere e che la sua era ormai diventata stretta per entrambe.

   «Lo so, adesso però devo proprio andare», cerco di infilarmi le scarpe, non ho alcuna intenzione di arrivare tardi, non avrei nessuna scusa plausibile in merito, dal momento che alloggio nei bungalow oltre il campo da golf, «ci sentiamo in questi giorni».

   «Sugar?»

   «Sì?».

   «Ti voglio bene».

   «Te ne voglio anche io, mamma», chiudo la chiamata con uno strano nodo alla bocca dello stomaco, non posso e non riesco a negare a me stessa che mi manca terribilmente e non posso fargliene una colpa perché sta cercando di costruirsi una vita con l’uomo che ama.

Faccio un respiro profondo ed esco dalla stanza, diretta a prendere servizio presso il ristorante, oggi sarò di turno in sala.

Pur essendo ottobre, qui è come se fossimo ancora in piena estate per il caldo che si ostina a fare.

   «Raggio di sole, dormito bene?», mostro il mio dito medio come saluto a Cristopher, il mio collega, dal momento che per colpa sua e della sua ragazza, mi sono ritrovata a restare sveglia tutta la notte.

A quanto pare il fine settimana, quando viene lei a trovarlo è sempre così, sembra che debbano recuperare sei giorni di sesso mancato in una sola notte.

   «Sei solo invidiosa», mi punzecchia, mentre gli passo vicino e lui è intento a preparare la sua postazione bar.

   «Non credo proprio», ma la verità è che sto mentendo solo a me stessa.

Ho immaginato mille volte come sarebbe stata la mia prima volta con Nowell, prima che lui frantumasse in un milione di pezzi ogni mio pensiero.

Cenerentola.

Come una stupida, per una volta, avevo creduto alla favola della mia vita.

Io, quella che aveva deriso e ripreso mia madre per lo stesso motivo, mi ero illusa, che forse, alla fine, qualcosa di magico e surreale poteva succedere anche nella mia noiosa esistenza, ma mi sbagliavo.

Quello che in parte avevo scoperto su Nowell, la sua appartenenza a un ordine specifico, non mi aveva sorpreso o scioccato, come avrebbe dovuto essere, per una qualsiasi persona normale.

No.

Mi aveva eccitato.

Lui era il Lust, la Lussuria e io ero pronta a esser schiava di quel peccato.

A fare qualsiasi cosa mi avrebbe chiesto, perché dentro di me avevo appena scoperta l’esistenza di una parte che non avevo messo in conto, la perversione .

    «Tutto bene?»

   «Cosa?», mi riscuoto da quei pensieri, accantonando il mio castigo più grande.

Nowell.

Vorrei averlo cancellato dalla mente, nello stesso modo in cui ho cancellato il suo numero dal cellulare.

   «Sì, scusami, ero solo distratta», inizio a sistemare i tavoli per la cena, quando Maira, la responsabile in sala mi prega di seguirla nelle cucine.

   «Stasera dovrai portare la cena in una delle nostre suite», mi indica il carrello, le cloche in acciaio e tutto l’allestimento romantico che dovrò fare.

   «La coppia, al momento è fuori per un’escursione, quindi, avrai tutto il tempo per allestire il tavolo nella veranda privata della camera».

Non è la prima volta che riceviamo richieste del genere dagli ospiti della struttura, per tanto mi armo di tutto ciò che mi occorre e, dopo aver preso il passe-partout della camera mi affretto a raggiungerla pe iniziare a sistemare il tutto.

Le suite sono tutte disposte vista mare e, una volta arrivata lì, per un momento mi godo lo splendore del panorama, l’oceano è così impetuoso con i suoi colori che per un singolo istante due zaffiri si stagliano con prepotenza nella mia mente.

Sospiro, rassegnata ancora una volta alla realtà contro la quale mi sono dovuta scontrare.

Ancora, quando ci penso, mi si ritorce lo stomaco se penso che la sua sola intenzione era quella di istruirmi a dovere affinché potessi essere la bambolina dei divertimenti anche per i suoi amici.

Quale persona sana di mente potrebbe mai fare una cosa del genere?

Cerco di non sprecare altre energie pensando a lui e mi concentro sul mio lavoro, sistemo il tavolo, i fiori, il servizio di piatti, ogni dettaglio è curato nei minimi particolari e una volta sistemato il tutto, mi reco nuovamente in cucina per essere pronta a servire la cena agli ospiti una volta che loro saranno rientrati in stanza.

   «Dovrai stare al loro servizio per tutta la sera», mi avvisa Maira mentre la rincorro letteralmente per la sala, non so come faccia a camminare così in fretta con quei trampoli che ha ai piedi.

   «È importante che tutto sia perfetto, il cliente ha pagato un mucchio di soldi per il servizio, quindi, niente stronzate».

   «Tranquilla».

Maira sorride ad alcuni ospiti che entrano nella sala per la cena e poi risponde al portatile che ha sempre con sé.

   «Perfetto», chiude la chiamata, si volta verso di me e mi avvisa che posso iniziare a servire la cena agli ospiti.

Una volta arrivata alla suite, busso prima di aprire la porta.

   «Servizio in camera», mi annuncio, ma senza ottenere alcuna risposta, non aggiungo altro e vado dritta nella veranda per iniziare a disporre i piatti di portata, senza scoprirli dalle cloche in acciaio che li tengono ancora caldi.

   «Sono due settimane che non chiudo occhio al pensiero di rivederti», il tempo si arresta, si condensa attorno facendomi consumare il respiro nei polmoni, mentre mi volto e mi scontro contro di lui.

Nowell.

Nowell in smoking con i capelli sciolti che gli carezzano le spalle.

Nowell che mi guarda, come se volesse farmi annegare nuovamente nel suo sguardo.

Nowell che si avvicina a me e io, che ormai ho imparato a stargli lontano retrocedo, perché so che con lui mi posso solo bruciare.

Perché so che lui è letale.

So che mi ha già spezzata.

E so, che sapore ha la delusione che mi ha lasciato cucita addosso.

  «Sono solo qui per lavorare e vorrei che me lo lasciassi fare», cerco di mantenere un profilo distaccato, professionale, come se lui non fosse mai piombato nella mia vita per sconvolgerla.

   «E io sono qui per te».

Sorrido amaramente alle sue parole, le mani tremano e cerco di aprire la bottiglia di Champagne.

   «Harley, per favore, ascoltami».

Scuoto il capo più volte come se volessi scacciare via la sua voce, come se volessi allontanare il desiderio di cedere, come se non avessi desiderato tutto questo per ogni notte in cui mi sono addormentata in lacrime.

    «Non mi importa che cos’hai da dirmi», cerco di proteggermi, di innalzare la corazza che nei giorni di delusione ha iniziato a far parte di me, per evitare di cadere di nuovo.

Di crollare, per colpa di un sentimento che prima di lui non mi aveva mai sfiorata.

   «Non ti credo», il suo corpo è un’arma che mi punta e che, passo dopo passo mi intrappola, «e sai perché?», il suo respiro soffia contro la mia bocca, «lo leggo nei tuoi occhi. Ci vedo lo stesso dolore che io ho visto nei miei ogni giorno nel quale sono stato lontano da te».

   «Nowell», lo supplico, perché non ho più le forze per lottare contro di lui, contro quello che nella mia mente aveva preso vita, mentre metteva radici nel mio cuore.

I suoi occhi incatenano i miei, la sua bocca carnosa si muove melodiosa a ogni parola che pronuncia e io mi sento sciogliere al suo potere.

Ma non posso, non voglio cedere.

   «Ti chiedo solo di sederti e di ascoltarmi, sono disposto a spiegarti ogni cosa, perché non voglio e non posso che tu creda che io…»

   «Che tu mi avresti condiviso con i tuoi amici come una puttana?», mi stringo le braccia al petto, il bisogno di proteggermi da lui è impellente, perché so che se entrasse ancora nella mia vita, distruggerebbe quel poco che è rimasto.

   «Ti sbagli, ed è per questo che sono qui», fa un passo indietro, lasciandomi libera di tornare a respirare, scosta una delle sedie del tavolo invitandomi a sedermi.

   «Quindi, la cena…».

   «È stata solo una scusa per poterti vedere».

   «Come sapevi che sarei stata io a servirti», questa volta è lui a sorridere, ricordandomi la sua strafottenza.

   «Perché, dopo aver scoperto che lavoravi nuovamente qui, ho chiesto esplicitamente che fossi tu a servirmi».

Scuoto il capo incredula, sono furiosa.

   «Mi hai per caso fatto pedinare?»

   «Non lo nego, potrei averlo fatto».

   «Sei completamente impazzito se pensi che mi metterò seduta a sentire le tue stronzate».

   «Harley, so che lo farai, perché come io ho bisogno di dirti la verità, tu hai la stessa necessità di conoscerla».

Ha ragione, ho bisogno di sapere il perché di troppe domande senza risposta.

Impongo a me stessa di sedersi solo per dare un senso a tutto quello che è successo e niente di più.

Mi serve per mettere definitivamente la parola fine a questa folle storia.

Ripeto mentalmente a me stessa.

   «Va bene», mi siedo e aspetto che anche lui lo faccia.

  «Che c’è?», domando in imbarazzo, mentre i suoi occhi non si distolgono dai miei.

  «Sei ancora più bella».

Non proferisco parola, perché lui, come al solito, ha il potere di rapirle nel suo mondo ogni qualvolta apre bocca.

Più lo osservo e più mi rendo conto che qualcosa in lui sembra essere cambiata, persino il suo sguardo è diverso, come se si fosse liberato di quella coltre oscura che lambiva le sue iridi.

   «Allora? Sto aspettando, cos’hai da dirmi?»

   «Non sai perché sono entrato a far parte dell’ordine, come non sai come fosse la mia esistenza prima di quel momento».

Ruota la sedia sotto al palmo della mano e si siede sopra a cavalcioni, le braccia incrociate sopra la spalliera.

   «Continua».

   «Ho scoperto mia madre abusare di mio fratello Noha, quando lui aveva poco più di tredici anni», il dolore lambisce con prepotenza il suo sguardo, mentre io non riesco a credere alle sue parole.

   «Ecco perché lui è così…così fuori controllo. Malgrado le cure subite in clinica e poi continuate a casa dopo il suo ritorno, o le visite dai migliori specialisti, sembra non riuscirsi ancora a liberare da quell’incubo», si volta verso il mare, il tramonto lo dipinge con i suoi colori caldi che sembrano immergersi in quelle acque.

   «È successo tutto molto rapidamente, Noha per sottrarsi alla follia di nostra madre l’ha spinta e lei, nel cadere ha battuto fortemente la testa a un ripiano in marmo. Non c’è stato più niente da fare».

   «Nowell…», mi porto una mano alla bocca per soffocare lo sconcerto del ricordo del suo passato.

   «Noha non poteva finire in riformatorio. Non potevo permetterlo, mio padre ha fatto di tutto per far emergere che fosse stato un incidente, mentre io l’indomani mattina partivo per un collegio maschile in Europa. Diceva che avevo bisogno di riprendermi da tutto quello che avevo scoperto e, che lui si sarebbe preso cura di Noha e così fece».

   «E Neil?».

   «Lui non lo sapeva fino a poche settimane fa. Ha sempre creduto nella versione che gli aveva raccontato nostro padre. Inoltre, la sera dell’incidente non era presene alla reggia, dormiva da un amico», spiega come se stesse rivivendo tutto, ogni minimo dettaglio.

   «Cosa…cosa è successo dopo?», mi verso dell’acqua e ne porgo un bicchiere anche a lui che accetta con un sorriso.

   «Quando sono tornato dall’Europa, Princeton doveva essere il mio nuovo inizio. Ma mi sbagliavo. Una notte ho ricevuto una lettera molto particolare, era dell’ordine. Non capivo perché avessero scelto proprio me, ma il desiderio di evadere, di nascondermi dietro qualcosa che non fosse la mia reale vita era troppo forte e così, un po’ per gioco, un po’ per il desiderio di cibarmi di tutto quello che erano disposti ad offrirmi, accettai l’invito e mi presentai all’incontro.

Lì, incontrai anche gli altri membri, scoprendo che erano tutti rappresentanti delle sette università della Ivy League. Solo una non ne aveva preso parte, perché in passato un suo membro aveva tradito l’ordine ed era stata estromessa».

   «A cosa serve l’ordine? Perché è così importante?», per un momento accantono la mia delusione, il mio dolore e quello che è successo tra di noi, intenta solo a voler comprendere qualcosa di più di quel suo mondo così oscuro.

   «Serve a muovere i fili del mondo, Harley. È qualcosa di così grande che nessuno potrebbe mai immaginare».

Mi è così assurdo credere che, dei rappresentanti di un certo spicco delle università possono avere tra le mani un simile potere.

   «Non riesco a seguirti».

   «Vedi, le maggiori università vengono frequentate dai figli dei maggiori esponenti politici, dai più grandi luminari in medicina, da chi un giorno, magari governerà il nostro stesso paese. Purtroppo, non sempre sono svegli come sembrano. Molti di doloro hanno dei vizi che è bene che non si sappia in giro, altri, hanno bisogno di piccoli aiuti per scalare la cima della notorietà all’interno del campus e, ognuno di loro in cambio di un favore ce ne deve almeno il doppio.

In sostanza noi li facciamo arrivare dove vogliono e loro, una volta fuori dalle mura dell’università serviranno l’ordine, facendolo divenire sempre più potente. È tutta una questione di soldi, Harley. Di potere».

Adesso, ogni tassello sembra prendere il proprio posto incastrandosi alla perfezione a quello che in parte avevo già letto nel libro che mi aveva fatto trovare nella mia camera il primo giorno che ero arrivata alla reggia.

   «Adesso, parlami di me, che cosa c’entravo io in tutto questo?».

Serra la mascella, sento i denti graffiare e un grugnito gli si soffoca in gola come se bruciasse.

   «Ogni quarant’anni avviene l’allineamento dei pianeti, tutto sembra assumere uno straordinario equilibrio, ma non per noi. Non per i sette peccati capitali, scelti a onorare i loro appetiti, i loro bisogni più estremi, i loro vizi più oscuri».

Rabbrividisco, mentre il suo sguardo famelico, per un attimo sembra spogliarmi da tutti i miei pensieri e mi ritrovo a deglutire a fatica.

   «In quell’occasione, una prescelta, una vergine, viene iniziata al sesso, alle sue pratiche per poi, sottomettersi all’ordine e soddisfare ogni desiderio di ciascuno dei peccatori».

Un conato di vomito mi risale per la gola bruciandola.

Il solo pensiero di altre mani, di altri corpi che mi avrebbero usato per puro divertimento mi fa contorcere lo stomaco.

   «Era…era questo che volevi da me? Che soddisfacessi i tuoi amici?».

   «No! Diamine, no!», scatta in piedi, la sedia rovina al suolo alle sue spalle e prende a muoversi per il balcone facendo aventi e indietro, mentre io mi sento paralizzata dalla piega che sta prendendo questa conversazione.

   «All’inizio era questo il piano. Scegliere una ragazza, viverla facendole conoscere quello che poteva essere il sesso sotto a tutte le sue forme e poi, sarebbe stata lei stessa a volersi concedere all’ordine. Non ti avrei mai obbligata a farlo, ma il punto non è questo è…».

   «Cosa? Cosa Nowell!», anche io scatto in piedi, piazzandomi di fronte al suo corpo imperioso che mi sovrasta, ma questa volta non mi faccio piegare, no.

   «Che non poteri mai e poi mai dividerti con nessun altro perché il solo pensiero mi fa impazzire».

Corrugo la fronte confusa, mentre lui, in un gesto di frustrazione si passa le mani nei capelli portandoseli tutti all’indietro, «vedi, non doveva andare così. Non ci saremo dovuti conoscere in questo modo, ma non posso tornare indietro e cancellare ogni cosa, perché alla fine, sono stati quei singoli istanti trascorsi insieme a farmi capire che…che non posso vivere un solo istante senza di te, Cenerentola ».

   «Non…non chiamarmi così», lo scongiuro, sollevando le mani in segno di resa contro il suo corpo, come se potesse bastare quel gesto per evitare che tutto di lui mi travolga, che le sue stesse parole lo facciano.

Ho desiderato così tanto che un giorno, qualcuno mi dicesse che ero importante per lui, che non avrebbe potuto vivere senza di me, lo facevo tutte le volte che prendevo e chiudevo un altro romanzo del quale mi ero innamorata, con la consapevolezza che niente del genere sarebbe mai potuto succedere nella mia vita.

E, adesso, che è lui a dirmele, il ragazzo che si è introdotto nella mia vita senza chiedere permesso per poi stravolgerla, dovrei sentire il cuore scoppiarmi di gioia, invece, lo sento solo sgretolarsi ancora una volta in un milione di pezzi, perché niente di noi, di quello che siamo stati e di quello che potremo essere ha il sapore della normalità.

   «Hai altro da dirmi?».

   «Non andartene. Non scappare ancora da me. Ho mandato tutto a puttane, non faccio più parte di quello schifo, sono pronto a cambiare, per te. Per noi, Harley», cerco di prendermi le mani nelle sue ma le ritraggo, stringendole in due pugni per evitare di crollare, di cedere ancora una volta al suo volere, «ti prego, insegnami a vivere davvero. Insegnami la tua vita, voglio imparare da te».

   «Certe cose non si possono imparare Nowell e, certe persone non possono cambiare, mai», malgrado mi costi dirlo, ma è la verità, non credo che lui potrebbe mai essere diverso di così.

Mi dirigo verso la porta, certa di aver ascoltato abbastanza: le sue giustificazioni, il suo passato, tutto ciò che appartiene al suo mondo, adesso, credo di essere pronta a mettere la parola fine.

A chiudere questo capito.

A mettere a posto in uno scaffale alto della libreria del mio cuore il nostro romanzo tormentato, con la promessa di non riprenderlo più tra le mani per non correre il rischio di innamorarmi per la seconda volta dell’angelo smarrito.

L’angelo caduto da un cielo dimenticato.

L’angelo che ha ormai perso le sue ali.

   «Harley», non mi volto, la mano posata contro l’ottone del pomello dalla porta, solo quella, pronta a separarci una volta per tutte, perché dopo averla varcata, so che non tornerò più indietro.

   «Chiedimi di restare. Qui, nella tua vita, ti prego».

Senza rispondergli con un nodo in gola che cerca di soffocare le lacrime calde che sento arrampicarsi lungo gli occhi, apro quella porta e solo quando me la chiudo alle spalle sono pronta a dire:

   «Addio, Nowell».

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene animale, sedendo, tenendo, tavolo Descrizione generata automaticamente 10

Nowell

 

 

Sono al terzo, no al quarto o forse, quinto bicchiere di Vodka, ma la verità è che non me ne sbatte niente.

Questa sera ho deciso di devastarmi, credo che non metterò neanche la testa fuori dalla mia camera.

Non me ne frega niente se in giardino sta iniziando la festa di fidanzamento di mio padre e Charlotte.

No.

Non scenderò, rischiando di imbattermi nel mio più grande errore.

Lei.

Credevo che bastasse raccontarle i miei più sporchi segreti per riaverla nella mia vita, ma mi sbagliavo, perché da quel giorno allo Yatch Club, non ho saputo più niente di lei.

O forse è meglio dire che ho smesso di farla pedinare per evitare di torturarmi le cervelle.

   «Posso?».

   «Neil, non è il momento».

   «Ultimamente non lo è mai», mio fratello prende un bicchiere e si serve da bere, come se non gli fosse abbastanza chiaro il concetto che voglio essere lasciato in pace.

   «Cosa vuoi?», mi metto comodo sulla poltrona, di fronte a me la vetrata sul lago dove la festa sembra essere già iniziata, mi domando se in mezzo a tutti quegli invitati ci sia anche lei.

Chissà cosa indossa.

Se mi sta pensando e se i suoi occhi mi cercano tra la folla.

   «Sono qui solo per dirti che ho deciso di accettare».

In uno scatto, tutta la mia attenzione è riposta su di lui che, come se non avesse appena sganciato una bomba dalle conseguenze immani, si siede sull’altra poltrona vicino al camino.

   «Non te lo permetto, scordatelo. Parlerò con il nonno, farò qualsiasi cosa, ma non farai parte dell’ordine».

Per me è già un capitolo chiuso, archiviato.

Non permetterò che anche mio fratello si rovini con le sue stesse mani.

   «Non sono venuto qui per chiederti il permesso».

   «Neil ascolta…»

   «No, ascolta tu fratello. Farò parte dell’ordine perché sono stato scelto e tu non puoi fare niente per cambiare la mia scelta. Non ti permetto di intrometterti più nella mia vita, d’adesso in poi sono io che manovrerò i fili della nostra famiglia, che ti piaccia oppure no».

Mi alzo in piedi, furente di rabbia per il peso delle sue parole e lo afferro dalla camicia firmata che indossa per l’occasione.

   «Non hai idea delle cose meschine e immorali che ti spingeranno a fare. Il potere ti accecherà così tanto da farti smarrire in te stesso», si scrolla di dosso la mia presa, il suo gesto somiglia più a quando uno si sta levando di dosso della polvere fastidiosa.

So che è furioso con me per averlo tenuto all’oscuro sulla verità di nostra madre, ma volevo risparmiarlo dal dolore che ha avvelenato sia me che Noha.

   «Parli così solo perché hai perso la testa per Harley, se non fosse stato per lei non avresti mai lasciato l’ordine. Mi spiace, ma io non sono come te, fratello, io so mettere da parte una scopata con i miei doveri».

   «Non ti permetto di parlare di lei in questo modo! Lei non era solo una scopata, non lo è mai stata!».

Ride divertito, «finalmente, anche Nowell Walker sembra avere il suo punto debole, attento a te o potrebbe essere proprio lei a distruggerti», senza aggiungere altro, sbatte il suo bicchiere vuoto contro il tavolino e se ne va.

No, lei non può distruggermi perché lo ha già fatto.

Sto per versarmi un altro drink, quando sento dei rumori provenire proprio dalla camera affianco alla mia.

Harley.

Non penso a niente, ma solo al fatto che in questo istante ci separa solo un muro, potrei usare la mia chiave ed entrare dalla porta comunicante, ma non lo faccio, così, esco dal mio appartamento e vado a bussare alla sua porta.

   «Nowell?», quando apre la porta sembra sorpresa di trovarmi di fronte ai suoi occhi.

   «Ciao, Harley», non credo di avere un bell’aspetto, anzi, credo di non averlo affatto, indosso solo i miei pantaloni di seta che raramente uso per dormire, i capelli sono legati in una crocchia disordinata e il mio corpo è impregnato di alcol, come se mi ci fossi fatto il bagno.

   «Sembri sorpresa di vedermi», è bellissima, con i capelli legati in una coda alta che le tengono il viso libero.

L’abito che indossa deve averlo scelto Charlotte, è di un turchese che si contrasta con il verde magnetico dei suoi occhi, baciando alla perfezione ogni porzione della sua pelle.

   «Mia madre mi aveva detto che eri fuori città».

È brava la mia matrigna, abbiamo imparato anche a dire le bugie?

Devo avergli fatto talmente pena, mentre mi aggiravo come un parassita per la reggia che alla fine, ha capito che la causa altri non poteva essere che sua figlia.

   «È solo per questo che sei qui? Perché avevi la certezza che non mi avresti visto?».

Il colorito della sua pelle cambia colore rapidamente, mosso dal potere delle sue parole.

   «Sono qui per…per il fidanzamento dei nostri genitori», si affretta a rispondere.

   «Bene, allora, perché non mi fai entrare, dato che a breve sarai la mia sorellastra, mi devi almeno un brindisi insieme».

   «Nowell…» sospira, come se mi pregasse.

   «Solo un brindisi, Harley, poi ti lascio andare per sempre».

Ritrae le labbra in una linea sottile sulla parola “ per sempre” , come se dirlo a voce alta, cambiasse la prospettiva di ogni cosa.

   «Solo uno», concede e mi permette di entrare.

Non posso fare a meno di chiudere gli occhi quando le passo a fianco e inalo a pieni polmoni il profumo fruttato dei suoi capelli e la fragranza al cocco che emana il suo corpo.

   «Come ti vanno le cose a Jacksonville?», cerco di non metterla in imbarazzo, è passato quasi un mese dall’ultima volta che ci siamo visti.

   «Bene, sono riuscita a prendere in affitto una casa, così almeno ho finito di vivere negli alloggi del personale», è così raggiante, mentre racconta quella che sembra essere una sua personale vittoria.

Come ci si sente realmente ad aversi guadagnato qualcosa?

Tutto quello che possiedo mi è stato dovuto, omaggiato dal mio nome, dal mio conto fiduciario a da tutte le cose sporche che ho fatto per non perdere mai il privilegio di possedere tutto ciò che mi passasse per la testa.

Persino lei, all’inizio, era solo un progetto da possedere e, il solo pensiero riesce a farmi torcere lo stomaco dalla vergogna.

   «Sono orgoglioso di te», le mie parole sembrano stupirla, mentre con mani tremanti, prende e mi versa da bere.

   «E tu cosa mi racconti?», mi porge il calice, quando lo prendo le nostre dita si sfiorano e sento il corpo pervaso da una scarica elettrica che mi sconquassa i sensi da capo a piedi.

Merda!

Osservo il suo collo, il modo in cui si muove mentre sembra deglutire a fatica, come se anche lei avesse percepito la stessa scossa.

Noi.

   «Che sono bloccato, come se mi trovassi in mezzo al limbo e aspettassi la mia sorte. Non è ironico, per uno come me?», sorrido con amarezza, pensando che il karma alla fine, mi stia punendo come merito.

   «Mi spiace che tu ti senta così».

   «Non farlo».

   «Cosa?».

   «Non commiserarmi, non lo accetto, non da te».

   «Nowell…», prova ad avvicinarsi, la sua mano si posa contro il mio braccio, i nostri sguardi annegano l’uno nell’altro, mentre un turbinio di emozioni vorticano veloci tra i nostri respiri che si spezzano.

   «Harley…», pronuncio a mia volta, sovrastandola con il mio corpo, il suo calore invade il mio spazio e no riesco a resistere, lascio che il calice mi scivoli via dalle mani e le sfioro il volto con il dorso della mano.

   «Sono stato un folle a perdere la sola ricchezza che mi avrebbe reso felice».

I suoi occhi si socchiudono, godendosi il mio tocco, il modo in cui, pelle contro pelle iniziamo a bruciare l’uno per l’altro.

   «Perché?»

   «Cosa?», la mia mano scivola dolcemente lungo la sua spalla, fino a raggiungere la sua mano che prendo nella mia e poso lì, sul mio petto.

   «Perché mi dici tutto questo?».

   «Perché è la verità. Ti ricordi cosa ti dissi quando avevi premuto la tua mano proprio qui?».

   «Sì, che dentro di te c’era il delirio».

   «Adesso sai cosa c’è?», scuote il capo, il suo sguardo rapisce il mio nel suo mondo e, per la prima volta ci entro con il solo intento di restare aggrappato alla sua esistenza a tutto ciò che questa ragazza in poco tempo ha significato per me.

   «Te, Harley. Sento te in ogni mio singolo battito», il pollice sfiora il suo labbro inferiore che trema al mio tocco e si schiude appena, il tanto che basta per farle sfuggire un respiro che ispiro bruscamente per non perdermi niente di questo attimo.

   «E ricordi che cosa ti dissi quando mi avevi chiesto perché non ti baciassi?».

   «Che se lo avessi fatto, non saresti più potuto tornare indietro».

   «Non voglio più», un solo respiro a separarci. Tre.

   «Cosa?», due.

   «Tornare indietro», uno.

Le nostre labbra dapprima si sfiorano appena come piume, morbide come seta si incastrano tra loro, facendomi esplodere il cuore.

Il suo sapore mi si tatua nell’anima, non appena la mia lingua sfiora la sua bocca per volere di più.

Le labbra si schiudono lasciandomi il permesso per quel paradiso che non ho mai sfiorato davvero.

Lei.

Le nostre lingue si inseguono, danzano, si impregnano dei nostri sapori generando una nuova dipendenza.

Questo bacio è la cosa più intima che abbia mai condiviso.

Va oltre il sesso.

Oltre il semplice desiderio fisico.

È come un simbolo, un sigillo che indica una sola cosa.

Appartenenza.

E se c’è una cosa che ho compreso mentre continuo a smarrirmi in lei, nella sua bocca che cattura la mia, nella sua lingua che accarezza la mia è che io, dal primo istante, sono sempre e solo appartenuto a lei.

Alla mia Cenerentola.

Ci stacchiamo senza fiato, con le labbra gonfie e bagnate dai nostri sapori e non c’è cosa più bella e sexy che voglio vederle addosso da questo momento in poi.

   «Sei il primo sapore che mi droga i sensi, l’unico del quale non posso più fare a meno».

   «Lo dici a tutte le tue conquiste, Nowell Walker».

   «No, lo dico solo a chi mi ha conquistato. Tu».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Harley

 

Le gambe tremano a ogni sua parola e non riesco a controllarmi.

Ero venuta qui solo per mia madre, anche se durante il viaggio, una parte di me era delusa dall’idea che lui non ci sarebbe stato.

Ritrovarmelo davanti, dopo tutto questo tempo, nel quale non ho fatto altro che pensare alla confessione che mi aveva fatto al club, non ha fatto altro che alimentare la certezza che non l’ho dimenticato.

   «A cosa pensi, Harley».

   «Al fatto che ho paura di ciò che potremo essere», confesso più a me stessa che a lui.

   «Allora, se me lo permetterai, possiamo averne insieme».

Mi allontano da lui, solo perché ho bisogno di ricordare come si respiri, perché devo fare ordine nella mia testa e perché non posso decidere adesso, in questo istante del mio domani.

   «Non sono pronta a una relazione, non ora, prima ho bisogno che…»

   «Che ti dimostri che sono cambiato, lo capisco», il suo torace mi sfiora la schiena.

   «Voglio che mi mostri il tuo mondo, Harley. Voglio che mi insegni a viverlo».

   «Alle mie condizioni», le sue braccia mi avvolgono e mi stringono forte, il mento preme contro la mia testa, «alle te condizioni».

I fuochi d’artificio squarciano il cielo e si riflettono sul lago dove al bordo, possiamo ammirare i nostri genitori stretti anche loro in un abbraccio.

In una promessa.

In un destino.

In un amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Epilogo

 

Otto mesi più tardi

 

   «Walker, da questa parte», i flash mi piombano addosso accecandomi, mentre i cronisti non la smettono di farmi domande.

Tengo stretta fra le mani la maglia della mia nuova squadra, l’inizio della mia nuova vita, solo mia e della bionda mozzafiato che mi applaude dal fondo della sala riunioni degli Giants di New York.

   «Basta così, credo che Nowell, abbia risposto a tutte le vostre domande».

Logan James Johnson, uno degli azionisti proprietari della squadra, nonché mentore indiscusso della stessa, grazie a ben due Super Bowl vinti per merito suo, mi salva dalla conferenza stampa, congedandomi alla libertà di poter raggiungere la mia ragazza.

   «Sono fiera di te», Harley mi salta al collo e io non resisto alla tentazione di stringerla forte contro il mio petto, solo per accertarmi, come ogni volta, che lei sia veramente qui, tra le mie braccia.

Lei che sa di futuro.

Di casa.

Di appartenenza.

È tutto ciò che avevo dato per scontato, come se fosse un’altra auto di lusso da aggiungere alla mia collezione, ignorando, come il potere dei sentimenti avrebbero potuto piegarmi fino a spezzarmi, lasciandomi patire la sua assenza.

Ma oggi, dopo otto mesi, dopo la mia laurea all’università di Princeton, sono una nuova persona.

Non abito in un attico, non godo più di tutti i soldi che un tempo erano sul mio conto, no.

Ho completamente ribaltato la mia esistenza per ripartire da zero, con lei.

Lei che adesso studia alla Columbia di New York, dove ci siamo trasferiti.

Insieme, al momento abitiamo in un piccolo appartamento a Brooklyn e tutto ciò che abbiamo ce lo siamo costruiti da soli, passo dopo passo.

Sarebbe stato più facile prendere i miei soldi e comprarci un nuovo attico con tutti i comfort, ma non ci avrebbe regalato le stesse emozioni di quando, abbiamo girato per settimane interi quartieri alla ricerca dell’appartamento adatto al nostro portafogli.

Delle notti trascorse in piedi fino all’alba, mentre insieme lavoravamo in un pub, oppure degli extra fatti in una discoteca come sicurezza.

Ogni centesimo che abbiamo radunato è nostro.

Non dico che non costruirò il castello per la mia principessa, perché lo farò, ma con i soldi che guadagnerò dall’ingaggio della mia nuova squadra.

   «Direi che stasera ci siamo meritati una cena per festeggiare».

   «Peccato», cinguetta con aria maliziosa, le dita affondano sui suoi fianchi, come se glieli volessi tatuare addosso.

   «Cosa?»

   «Avevo in mente altri programmi per noi due».

   «Quei programmi che penso io?», mi morde il labbro inferiore e mi fa un cenno di sì con la tesa.

   «Credo che allora, dovremo iniziare fin d’adesso, dall’aperitivo, perché mi hai fatto penare per otto lunghissimi mesi e adesso, è meglio che ti prepari», le sussurro all’orecchio, «perché dopo che sarò stato dentro di te, no riuscirai a camminare dritta per un paio di giorni».

Quello strato sottile di perversione, continua a sfiorare le nostre anime in un gioco malizioso, ma è una parte solo nostra, intima, privata che non ha niente a che vedere con il mio passato.

È solo pura passione che ci cola addosso come lava.

Come un bisogno impellente.

Come una bestia che deve essere nutrita.

E io, dopo tutti questi mesi ho bisogno di cibarmi di lei, della sua carne del suo odore, dei suoi mugolii.

   «Allora, non perdiamo tempo».

 

 

Mezz’ora più tardi varco la porta d’ingresso del nostro appartamento con Harley avvinghiata al mio bacino, mentre le nostre bocche insaziabili continuano a perdersi in baci carichi di desideri e promesse.

   «Pensi di avermi punito abbastanza?», mormoro contro la sua bocca gonfia.

   «Forse», mi succhia forte il labbro inferiore, incendiandomi i sensi.

È un fuoco indomabile, quello che mi scorre nelle vene per aver atteso tutto questo tempo affinché arrivasse la nostra prima volta, affinché lei riponesse tutta la sua fiducia in me.

   «Però, si fa a modo mio», l’avverto e lei sorride raggiante, sapendo bene cosa intendo dire.

Si scioglie dalle mie braccia, scivolando lungo il mio petto, mi prendo solo un attimo per percorrere il suo corpo avvolto dal vestito che aveva comprato per la conferenza stampa.

   «Spogliati!» e lei esegue con una lentezza estenuante che mi fa venire solo voglia di strappargli tutto di dosso.

Ha imparato a giocare bene la mia Cenerentola, la principessa dei miei sogni più proibiti, non è poi così sprovveduta come un tempo.

   «Voglio che anche tu ti spogli. Tutto», l’assecondo e anche io eseguo il suo volere, fino a ritrovarci entrambi nudi completamente.

La mia erezione inizia a sfiorarmi l’addome, mi basta solo prenderla in mano affinché lei si inginocchi e avvolga la sua bocca calda contro il mio cazzo duro e pulsante.

Il glande sbatte più volte contro il suo palato, sento la sua gola restringersi, mentre cerca di accogliermi il più possibile in profondità permettendomi così di scopargli la bocca a dovere.

   «Brava, la mia Cenerentola, prendilo tutto», so che le piace quando stuzzico la sua fantasia e lei continua a succhiare avida come se volesse prosciugarmi.

Le afferro i capelli in un pugno e muovo il bacino contro di lei, riempiendola e svuotandola ritmicamente, «toccati», la sua mano si nasconde in mezzo alle cosce e la immagino mentre si massaggia il clitoride.

Mi tiro fuori dalla sua bocca, sfiorandole, un’ultima volta, le labbra con la punta del mio pene.

   «Sarai tu a condurre il gioco, adesso», mi stendo sul letto e aspetto che lei si arrampichi su di me e mi accolga dentro di lei per la prima volta.

   «Ti farà male», le ricordo ed è proprio per questo che voglio che sia lei a prenderne quanto il suo corpo è disposto a sopportare.

   «Lo so», si cala appena sopra di me, è bagnatissima e la sua intimità calda accoglie appena la mia punta, facendola restare sospesa su di me, la massaggio, proprio lì dove piace a lei, mischiando il fastidio al piacere.

   «Scendi un altro po’», mi succhio forte il polpastrello per poi sfregarlo contro il clitoride, in piccoli gesti circolari che la fanno ansimare e contorcere.

   «Non smettere», mi supplica e, centimetro dopo centimetro mi prendo tutto di lei e lei strappa via tutto di me.

Siamo una cosa unica.

Un corpo che ne forma uno solo.

Un respiro e un gemito.

Un brivido e una carezza.

Un dolore e un piacere.

Siamo sempre stati i poli opposti di due universi paralleli.

Io e lei.

   «Non ti muovere», ansimo, «aspetta che il mio corpo si adatti al tuo», annuisce e con il pollice le cancello una lacrima che fuori esce dall’angolo dell’occhio.

   «Ho bisogno», supplica e continuo a toccarla, più veloce, più forte, dandole esattamente ciò di cui ha bisogno e alla fine arriva, l’orgasmo che la fa sciogliere sulla mia erezione.

   «Così piccola», con la mano libera le afferro il sedere e inizio a sollevare il bacino, approfittando del suo piacere per farle sentire quanto sono duro per lei.

   «Nowell», si morde il labbro inferiore e, impacciata, insegue i miei movimenti in una danza lussuriosa.

Le pareti del suo corpo si stringono e si allargano attorno alla mia erezione facendomi quasi perdere i sensi dal piacere che sento propagarsi ovunque.

   «Voglio di più», la sollevo e, come una pietra preziosa l’adagio di pancia sul letto, le mordo le chiappe sode e poi, le sculaccio, in uno scatto tiro il bacino verso di me e senza nessun preavviso la scopo forte.

   «Oh. Mio. Dio.»

   «Fai bene a pregare», la sbatto forte, i nostri corpi che si incontrano, provocano una melodia che vibra lungo la spina dorsale mozzandomi il respiro in gola, fino al momento in cui i nervi incominciano a tremare e mi sciolgo contro il potere dell’orgasmo che mi risucchia e mi sbatte fuori dall’oblio nel quale sprofondo.

   «Sei il mio per sempre, non dimenticarlo», mormoro al suo orecchio, mentre il mio corpo si plasma al suo in un incastro perfetto.

   «E tu il mio», risponde appagata e sazia di me.

Rotolo al suo fianco e la trascino a me, tra le mie braccia, al suo posto, dove deve stare.

   «Non voglio niente, al di fuori di questo, al di fuori di te».

   «Neanche io», risponde stringendosi di più contro al mio petto.

Le bacio la fronte e mi godo ogni istante.

Mi godo lei.

Mi godo noi.

Mi godo ciò che siamo e ciò che saremo.

Sto per crollare in un sonno senza sogni quando il vibrare del mio cellulare mi fa sussultare.

Lo afferro dal comodino, mi siedo sul letto e scorro sulle notifiche per leggere il messaggio.

Il respiro per un momento si arresta, il cuore inizia a pompare forte contro la gabbia toracica, mentre rileggo più volte il contenuto.

   «Che succede?»

   «È l’ordine, si tratta di Neil», le nocche sbiancano attorno al cellulare, con la consapevolezza di aver perso mio fratello.

 

 

 

 

 

                       FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

Ringraziamenti

 

 

 

Chiedimi di Restare è stato un viaggio unico e inaspettato che mi ha permesso di fondere due generi che amo e che mi appartengono, il Romance Sport e il Dark Romance.

La storia di Harley e Nowell è inusuale, racconta qualcosa diverso dal solito.

Qualcosa che è esploso dal nulla nella mia mente.

Perché per chi scrive è così, arriva un’idea e si ha il bisogno urgente di metterla in atto, nero su bianco.

Di dar voce ai personaggi, ai loro stati d’animo e alle loro emozioni.

Questo è il primo volume di una serie, nel secondo volume, come avrete già capito, parleremo di Neil Walker e dal suo ruolo all’interno dell’ordine, cosa mai accadrà ai sette rappresentanti dei peccati capitali?

Non so dirvi, quando uscirà il secondo volume dato che sono in dolce attesa, ma di certo il 2021 sarà un anno carico di sorprese e novità in tutti i sensi.

E tranquille, non ho di certo dimenticato Face Off Heart 2 e Game Love 3.

Il fatto che scriva altre storie non esclude altri romanzi dai miei progetti.

Come sempre, quando si scrive, si inizia un progetto, non si è mai soli, dietro ci sono sempre tante persone che hanno contribuito a far sì che tutto questo fosse possibile, quindi inizio a ringraziare mio figlio, Alessandro, il tuo sorriso e le tue parole, sono il conforto più grande durante una giornata nella quale non sono riuscita a scrivere come avrei voluto.

    I miei genitori, a voi devo tutto, la persona che ero e che sono oggi grazie agli insegnamenti e ai valori che mi avete insegnato, ricordandomi sempre di non mollare mai, per niente e per nessuno.

   Grazie a te, Ivano, che come in uno dei romanzi d’amore che adoro tanto leggere sei ritornato nella mia vita, dopo dieci anni in cui le nostre strade si erano divise. Mi hai mostrato una nuova luce, dalla quale ora posso far illuminare il mio nuovo cammino insieme a te, ti amo Vita mia.

   Grazie a mia nonna, per avermi insegnato a sorridere sempre contro le lacrime, sei la donna più forte che io conosca.

   Grazie a mia cognata Jessica, sei come la sorella che non ho mai avuto, il tuo sostegno è prezioso nelle mie giornate no e tu, purtroppo le conosci bene.  

   Grazie ai miei suoceri, Dino e Franca, siete come dei secondi genitori, il vostro affetto e la vostra comprensione è una spinta in più nel non mollare mai.

   Un enorme grazie va alle mie lettrici che mi seguono dai tempi di Wattpad.

   Ringrazio tutti i blog, che mi sostengono e mi aiutano ogni giorno a far conoscere i miei romanzi, con le vostre critiche costruttive, sto cercando di migliorarmi sempre di più.

   Grazie a tutte voi lettrici per esserci ad ogni data di uscita di un mio romanzo, grazie per la fiducia riposta e, per non avermi mai abbandonata.

   Ed infine grazie a Dio per avermi dato questo dono

 

 

 

I miei romanzi

(disponibili in ebook, cartaceo e Kindle Unlimited su Amazon)

 

 

 

 

“The Prohibited Series”

 

Immagine che contiene abbigliamento, telefono, uomo Descrizione generata automaticamente FORBIDDEN LOVE la trilogia

 

La storia di Damon ed Allyson.

Due poli opposti destinati ad attirarsi contro ogni limite.
Due anime segnate da un passato impervio.
Due vite sospese al filo del destino.

Ma alla fine, il cuore non conosce regole o limiti che l'amore non sappia infrangere.

L'INTERA TRILOGIA DI FORBIDDEN IN UN UNICO VOLUME.

Immagine che contiene testo, cibo Descrizione generata automaticamente   IMPOSSIBLE LOVE

 

Credi nell'impossibile?

Io non ci credevo
prima di lei.
Prima di quelle pozze verdi
che dicevano troppo.
Prima di quei silenzi
che erano in grado di urlare.
Prima che la sua pelle bruciasse
contro la mia.
Prima che le nostre vite
troppe incasinate
precipitassero nel caos.
L'avevo avvisata che due come noi
avrebbero finito solo per farsi male.
Che alla fine ci saremo distrutti,
lasciando solo un cumulo di macerie
alle nostre spalle.
Eravamo solo due anime spezzate.
Due destini scheggiati
Eravamo tutto e niente,
ma soprattutto,
eravamo l'impossibile.

La vita di Cindy Sanders, è ormai un vortice di pensieri disconnessi. Tutto ciò in cui ha sempre creduto si è rivelato un castello di carte, che è crollato al primo soffio di vento. Chi l’ha cresciuta non è la sua vera madre e ora, al suo primo anno di college alla Columbia, sa di non essere lì per caso, a New York, a sole poche ore di distanza dal luogo in cui è stata messa al mondo. Fidarsi di qualcuno diventa difficile, se non impossibile, persino Damian, suo fratello, l’osserva allontanarsi, giorno dopo giorno. Poi, però qualcosa cambia. Nicolas si insinua sicuro nella sua vita, in quella piccola parte di lei che non ha mai concesso a nessuno, quella parte che insegue la speranza di tornare a vivere oltre il passato. Tutto assume un’altra forma, il dolore sembra alleviato, un lontano ricordo, ma proprio mentre le acque sembrano essersi calmate, si rende conto che in Nick qualcosa non va; è intrappolato lui stesso in un passato al quale lei non è mai riuscita ad affacciarsi. Un passato che potrebbe essere più complicato del suo. E lei potrebbe essere l’unica persona a poterlo salvare. Perché quando la vita ti trascina a fondo, puoi solo aggrapparti con tutto te stesso a chi occupa il tuo cuore. Lottare ed amare. Ma se non bastasse?

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene graffiti Descrizione generata automaticamente    MAI SENZA TE

 

"Era di te che avevo bisogno. Era di te che mi fidavo. È senza di te che non posso vivere”

Cole Sanders non è il ragazzo adatto per rispettare le regole, lui è nato per infrangerle tutte. I suoi occhi si sono posati sull'unica persona che non potrà mai avere, ma non è pronto ad arrendersi, perché l'attrazione che li lega è un'esplosione bollente che cerca di trascinarli affondo. Con la sua chitarra sulle spalle, lo sguardo truce e il carattere strafottente, si aggira nei corridoi del liceo della Costance, pronto per un nuovo inizio, una nuova sfida: far capire che i giochi sono chiusi, solo quando lo dirà lui.

"Non hai ancora capito che sei l'unica che voglio?"

Sophia Baker, non è la solita ragazza della porta accanto, sa perfettamente cosa vuole dalla vita, e chi non può intralciare il suo cammino, perché manderebbe tutto all'aria. Testarda e determinata, non è pronta a sacrificare quello che la lega a Cole, per quell'emozioni che hanno deciso di cucirsi sulla pelle, mettere radici nell'anima e confondere i suoi pensieri. Cercherà di lottare contro sé stessa, ma ciò che renderà tutto complicato, sarà lottare contro il suo cuore. Innalzerà muri, si nasconderà in sé stessa per evitare di affrontare la realtà che Cole continuerà a sbattergli in faccia senza ritegno. Tutte le regole, le distanze che cercherà di mettere fra loro saranno nulle, perché si sa, le regole sono fatte per essere infrante e le distanze per essere annullate.

"Non hai il diritto di farlo"
"Sei stata tu a decidere per entrambi, ricordi?"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagine che contiene torta, tavolo, compleanno Descrizione generata automaticamente   MAI CON TE

 

Perché la fine alle volte può essere un inizio

Sono passati cinque lunghi mesi da quel giorno in cui le vite di Cole e Sophie si sono definitivamente spezzate.
Cicatrici profonde hanno messo radici in quelle anime ormai distrutte dagli eventi eppure, il destino non ha ancora smesso di intrecciare le loro esistenze.

Cole, durante una delle sue tante esibizioni nei vari locali europei viene ingaggiato da un manager di una famosa casa discografica, dando vita a quella che è la sua band: i BlackMoon.
Una luna nera come quella che ormai da tempo illumina il suo cammino dove il sole sembra non voler più sorgere.
Le canzoni, nate dalle dita strette alle corde della sua chitarra parlano ancora di lei, della sola ragazza che abbia mai amato e che forse amerà per sempre con la consapevolezza che non potrà mai averla.

Sophie ha finalmente varcato le porte della San Francisco Accadamy dove il suo talento nel fermare il tempo in un semplice scatto fotografico non è di certo passato inosservato.
Ogni foto rispecchia sempre quella malinconia, quel dolore che si trascinerà dietro per tutta la vita.
La perdita di suo padre, quel tragico momento è inciso a fuoco nel suo cuore che non riesce più a provare emozioni.

Una sera con la sua compagna di corso decide di andare in un locale in centro, non può immaginare che proprio fra quelle mura i suoi occhi precipitino in quello sguardo che gli aveva rubato il respiro, Cole.
Lo stesso ragazzo che gli aveva promesso che tutto sarebbe andato bene, quello che gli ha strappato via una parte di lei che non riavrà più.
Ma Cole nasconde un segreto che potrebbe cambiare ogni cosa se solo potesse rivelarlo ed è questo che inizia a darsi battaglia dentro di lui durante la sua permanenza a San Francisco.
E se alla fine, la verità potesse fare più male di una bugia?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“The Bruins Series”

 

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  Quando l’amore diventa un gioc o pericoloso…

 

Logan James Johnson, tra i ragazzi più popolari della UCLA Bruins University, può avere tutto ciò che vuole servito su un piatto d'argento. Essere la stella del Football del Campus, gli ha aperto molte più porte di quanto potesse mai immaginare. Avere una ragazza che cada ai suoi piedi, grazie al suo sguardo magnetico, non è di certo un problema, come non lo è, essere circondato da amici, e partecipare a serate di Gala per l'importanza del suo prestigioso cognome. Ma dietro il suo sorriso ammaliante, e quei modi spavaldi, si nasconde la tristezza per ciò che lo attende una volta terminati gli studi. Un incontro casuale e fastidioso con Carrie Murphy, una matricola appena arrivata alla UCLA, lo porta a distrarsi da quel pensiero sempre fisso nella sua testa. Lei sembra diventare quasi un’ossessione per Logan, il ragazzo da zero-impegni-solo-sesso. Non riesce a togliersi dalla mente quello sguardo, la sua voce irritante, e il modo di arricciare quella bocca così carnosa. Si sente in qualche modo legato a lei, senza riuscire a capirne bene il perché. Una scommessa contro sé stesso, per dimostrarle che ciò che precede la sua fama, non è il reale riflesso con il quale Carrie si trova costantemente a scontrarsi. Ma Carrie non è come le altre ragazze, che hanno riempito l'agenda personale di Logan. Lei ha solo tempo per lo studio, per raggiungere il sogno di laurearsi in medicina, e la sua promessa, è proprio quella di mantenere le distanze dai ragazzi come Logan James Johnson. Ma sarà solo questo il motivo per cui Carrie cerca disperatamente di stargli alla larga, di evitarlo o forse c’è dell’altro? Una corsa per segnare il touchdown più importante della sua vita, ma se la palla gli sfuggisse di mano proprio ad un passo dalla meta?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Quando il confine fra Odio e Amore diventa l’arma più pericola…

Lex Mayers, Tigth End dei The Bruins, è il fulmine della squadra di football della Ucla University. La notorietà dentro al prestigioso Campus è parte di lui, e Lex non perde mai occasione per sfruttarla a suo vantaggio. Fa sempre ciò quello che vuole infrangendo ogni singola regola. Nessuna ragazza rimane nel suo letto per più di una notte. Questo fino a quando il suo sguardo si scontra con Scarlett Moore. Basta un solo bacio durante una festa per fargli perdere la testa, e Scarlett diventa il suo bisogno più grande e Lex prende sempre ciò di cui ha bisogno.
Lei che è riuscita a entrare nel suo cuore con il suo sorriso radioso e la sua innocenza a incorniciarle lo sguardo, ma in una notte inaspettata riesce a strapparglielo dal petto nel modo peggiore possibile, tradendo la sua fiducia. Gli occhi di Lex guardano la sua ragazza fra le braccia del suo migliore amico, in lui si scatena una furia che non lascia spazio alla ragione. Distrutto e tradito dall’unica persona che abbia mai amato, si trova a tornare alle sue vecchie abitudini.
Le famose tre S: Soldi, Sesso, Sport. Lei è nella sua testa, pulsa i ricordi di ciò che hanno avuto insieme, ma lontana dai suoi occhi, perché l’indomani di quella stessa notte è partita senza lasciare nessuna traccia di sé. Solo, che ora, dopo sei mesi è tornata a mettere a dura prova i sentimenti di Lex che continua a tenerla lontana nel solo modo che conosce, distruggendola. Ma lui non sa che lei in realtà non l’ha mai tradito. Non sa, che legato a quella notte si nasconde qualcosa che non potrebbe mai immaginare, ma Scarlett non è la sola ad avere un segreto nascosto. Una montagna russa di situazioni inaspettate metterà alla prova i sentimenti di entrambi, fra odio e amore sapranno strapparsi a morsi il passato e il presente. Lex riuscirà a correre più veloce per sfuggire alla verità, o gli correrà incontro per riprendersi ciò che aveva?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Quando i Segreti possono spezzare ogni cosa…

Gus Mayers è il Tight End dei The Bruins, per lui non è facile essere il gemello di Lex. Ha vissuto gran parte della vita all'ombra del fratello, dei suoi eccessi, delle sue vittorie, quelle che a lui sono sfuggite di mano per un soffio. Non è mai stato quello da una ragazza e via come la maggior parte dei suoi compagni di squadra e quando ha provato a innamorarsi, lei era quella sbagliata, era quella che gli ha incasinato i pensieri e che non sarebbe mai stata sua. Non si è mai spinto oltre i limiti, ma ora la sua vita inizia ad andargli stretta, si sente soffocare, ma soprattutto non fa altro che pensare troppo a una persona in particolare, Bettany. La cheerleader più temibile della UCLA, dallo sguardo schivo, la lingua tagliente, quella che è stata capace con la sua cattiveria di distruggere l'esistenza di chi la circondava, ma adesso, sembra che sia la sua vita a cadere in pezzi. Intrappolata da un segreto che non riesce a rivelare a nessuno, si scontrerà più di una volta con Gus, deciso a saperne sempre di più dopo l'incidente avvenuto negli spogliatoi del campo di football. Non lo incanteranno le sue bugie, lui vede in lei qualcosa che nessuno fino ad adesso ha mai capito, e lei per la prima volta inizierà a sentirsi vulnerabile come non lo è mai stata. Per Bettany, provare qualcosa dopo la menzogna nella quale è cresciuta, e che ora le sta strappando via l'anima, è diventato quasi impossibile. Ma Gus non è pronto ad arrendersi, per la prima volta, ha ben chiaro in mente cosa vuole, e farà di tutto per non farsi perdere la sua occasione. Per non perdere lei. Solo, che spesso i segreti sono fatti per non essere svelati, e se quello che invece nasconde Gus alla fine distruggesse entrambi? Se questa volta l'amore non bastasse per potersi salvare?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Perché alle volte non basta una sola partita per vincere…

Non è affatto facile per Carter Kinney essere il Long Snapper dei The Bruins, soprattutto se il tempo a sua disposizione sta per scadere. Suo padre gli ha dato una sola possibilità per entrare nella rosa della NFL. Un fallimento significherebbe dover tornare nella Silicon Valley e occuparsi degli affari di famiglia. Ma il grande salto sembra lontano per Carte e la fine dei Draft è ormai vicina. Un bel guaio se si aggiungono due occhi azzurri, dei capelli neri corvini e un carattere frizzante a tormentare la sua mente. Lui non dovrebbe nemmeno lontanamente pensare a Roxenne, la sorella minore di Mitch, il suo compagno di squadra. Ma, non pensare a lei è inevitabile. È come se il destino avesse deciso per loro correndo tutte le yards di un’intera partita senza respiro. Il problema è che Carter ha già una ragazza, Stacia. Rinunciare a lei è impossibile, soprattutto se a tenerli legati non sono i sentimenti, ma un accordo scritto che non può essere ritrattato. Roxenne diventa quasi un bisogno impellente per Carter. Dimenticare ciò che esploso fra di loro dopo la festa dei The Patriots è impossibile. Lei non è disposta a spingersi oltre, fingendo che fra di loro non ci sia altro che una semplice amicizia e niente di più. Basta un attimo che sfugge rapido dalle loro mani per ribaltare le loro vite, le scelte e tutto ciò che è stata la loro esistenza fino a questo a punto. Si sa, alle volte il destino ha già vinto la sua partita e avere la rivincita diventa la sfida più grande.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Perché bisogna perdersi per potersi ritrovare…

Punta d’attacco degli Jets di New York, Scottie Murphy inizia a smarrire la bussola quando nella sua vita compare lei, Mercedes Allen, una delle migliori amiche di sua sorella Carrie. All’insaputa dei loro amici si ritrovano a condividere lo stesso appartamento. Le loro vite si sfiorano in quelle pareti dove inizia a scorrere forte un desiderio quasi letale. I loro sguardi sono capaci di spogliare entrambi dai propri demoni, ed è quando fra i due esplode la passione che tutto li travolge nel peggiore dei modi. Una notte che non sarebbe mai dovuta esistere apre le porte ad una serie di eventi che li spingerà oltre i propri limiti. Mercedes ha già un cuore spezzato che porta il nome di Blaze Diaz, l’unico ragazzo che abbia mai amato veramente, ma anche Scottie ha avuto una persona importante nella sua vita, Tiana James, l’attuale ragazza di Blaze. Il destino non avrebbe potuto mescolare peggio le loro carte. E se quella fiamma dell’amore non si fosse mai spenta? E se uno di loro fosse disposto a fare un passo indietro per riprendersi ciò che è stato perso nel passato cosa accadrebbe?

…ma se ritrovarsi significasse distruggersi?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Quando il destino diventa il tuo peggior avversario da sconfiggere

 

Co-capitano degli Jets, Blaze Diaz entra in crisi quando un tragico evento piomba nella sua vita. Quella telefonata rimbomba ancora nelle sue orecchie mentre, senza pensare per un solo istante alla sua carriera, si precipita al J.F. Kennedy per prendere il primo volo per Los Angeles. Non ha idea di cosa lo attenda una volta che farà rientro in città, ma una cosa è certa, il suo mondo si è appena incrinato come un cristallo e quella crepa, continua a correre troppo veloce. Persino per lui, che fin da quando era solo un bambino non ha fatto altro che inseguire la meta fino a raggiungerla per segnare il suo touchdown. Ma se adesso diventasse solo un lontano ricordo ed ogni cosa cadesse in frantumi rischiando di inghiottire tutto ciò che di buono c'era in lui?

 

"Non avevo messo in conto che mi sarei sentito inutile, importante, e che ogni cosa attorno a me avrebbe perso la sua importanza. Non avevo messo in conto che avrei sentito ogni singolo respiro risucchiato da questa situazione assurda che continua a piombarmi nella testa come un martirio al quale non sono pronto ad arrendermi. Non avevo messo in conto che tutto questo, poco per volta, mi avrebb e spezzato...

 

 

" ULTIMO CAPITOLO DELLA SERIE THE BRUINS CON OLTRE 15MILA DOWNLOAD SU AMAZON IN MENO DI UN ANNO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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. ..E poi?

Cosa sarà successo, dopo l'ultimo capitolo della serie, a Carrie e Logan, Lex e Scarlett, Bettany e Gus, Mercedes e Scottie, Carter e Roxenne Blaze e Tiana?
Un'intera Novella dedicata ai protagonisti della serie.
Ogni capitolo, sarà una finestra aperta su ciò che è successo ai nostri giocatori di Football.
Pronte per scoprirlo?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“The Saints Series”

 

  Immagine che contiene testo Descrizione generata automaticamente   OFF SIDE LOVE 1 - 2

 

 

Avete presente quando dicono: “Se tieni davvero ad una persona la lasci libera?”

 

È quello che è capitato a Bayron Mayers, strafottente fino al midollo e una bellezza disarmante lo caratterizzano facendo sì, che non appena varchi le porte dell’Università di Toronto, ne diventi il leader a tutti gli effetti. Capitano della squadra universitaria di Hockey, i The Saints, non tarderà a far parlare di sé per i lunghi corridoi del Campus. Ma ad affrontare questo viaggio che lo ha allontanato dalla sua città, Boston, non è solo. Al suo fianco c’è lei, Debra, la sua migliore amica, la sua complice, la bambina dagli occhi azzurri a cui adorava tirare le lunghe trecce bionde quando entrambi si ritrovavano ad assistere ad una partita di football. Lei è la sua anima gemella, la ragazza che potrebbe realmente cambiargli la vita. Ma è lui che non è pronto a rischiare di spezzarle il cuore, perché la paura di perderla è più forte del desiderio di averla. Ecco perché preferisce rinunciare, ignorando che ogni cosa fra loro sta inevitabilmente per cambiare. Fra feste, ragazze e ragazzi che si frapporranno per allontanarli, entrambi si ostineranno a voler soffocare il desiderio e la passione che si accende ogni volta che si sfiorano. Ma qualcosa, alla fine, piomba nelle loro vite stravolgendole, a tal punto che Bayron si rende conto di non avere nemmeno più un secondo da sprecare se non vuole rischiare di perderla per sempre.

 

«Ci pensi?»

«A cosa?»

«A noi, io ogni tanto lo faccio»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  FACE OFF HEART

 

Lei era il proibito, un bisogno, una dipendenza che generò il caos nella sua esistenza.

La vita di Trevis Reyes dentro e fuori la squadra dei The Saints è scandita da tre regole: Amicizia, Lealtà e Protezione.
Era quello che lui, Bayron e Cameron si erano sempre giurati fin dai tempi del liceo, ma questo era prima che Alana Mayers facesse capolino nella sua vita.
Era iniziato tutto con un semplice messaggio che era stato inviato per sbaglio, ma da quel momento quelle conversazioni online non riuscivano a trovare la parola fine.
Non importava che lei rappresentasse la tentazione e la perdizione per un ragazzo che doveva ancora trovare un senso alla propria vita, dopo che qualcosa nel suo passato aveva deciso di sconvolgere i suoi piani.
Alana Mayers desiderava Trevis Reyes fin dai tempi in cui era solo un’adolescente della quale lui non si sarebbe mai reso conto fino a quel fatidico messaggio due anni più tardi.
Ma c’era un piccolo problema, era il migliore amico di suo fratello e lei sapeva bene che avrebbe dovuto mantenere le distanze se non voleva innescare una reazione a catene.
Solo un bacio era questo che si ripeteva, che male avrebbe mai potuto fare?
Le cose però sfuggirono di mano a entrambi e tenere nascosta la loro relazione agli occhi di Bayron era la cosa peggiore che potessero fare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“The Red Sox Series”

 

 

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Ci sono ragazzi stronzi e poi ci sono quelli doppiamente stronzi.



Mason Casey per questo ha vinto il primato. Battitore indiscusso dei Red Sox di Boston è famoso per non rispettare mai le regole. Una vera e propria calamita per i guai e per non avere una ragazza che duri nella sua esistenza non più di un paio d'ore. Ma tutto cambia, quando la sua vita entra nuovamente in collisione con quella di Aria Swan, sorella del suo compagno di squadra nonché, suo migliore amico da sempre. Aria si trasferisce a casa di Jamal, suo fratello, per poter frequentare la Brown University dopo un errore creatosi durante il suo arrivo. Solo, che quando arriva si trova davanti un'odiosa sorpresa: Mason Casey. Il ragazzo che ha sempre amato da lontano e che le ha spezzato il cuore riducendolo in un milione di pezzi quando erano solo due adolescenti. Quando Mason la rivede, dopo tutti quegli anni di silenzio, non può fare a meno di pensare a quanto l'abbia fatta soffrire e impone a sé stesso di non ricommettere lo stesso errore e decide di starle lontano. Aria, dal canto suo, non si fida di lui e malgrado la forte attrazione, cerca di tenersi a distanza di sicurezza, di proteggersi dal solo ragazzo che potrebbe distruggere quel poco che è rimasto della sua esistenza. Ma entrambi sanno che hanno iniziato un gioco pericoloso al quale in un modo o nell'altro, dovranno mettere la parola fine.


Ma cosa è successo di così sconvolgente nel loro passato?
Una passione proibita.
Una montagna russa di emozioni per raggiungere la prima base.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“The Dangerous Series”

 

 

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LUI È LETALE COME UN VELENO… MA LEI SARÀ IL SUO CASTIGO PIÙ GRANDE…

Ella Davis è una ragazza di successo già a capo di una parte dell’impero che ha costruito suo padre. Si trasferisce a Miami per l’apertura di un nuovo salone di auto che solo in pochi privilegiati possono permettersi. Amante del brivido e della follia allo stato puro, non ha la minima idea di cosa sta per succederle. La fortuna che calpesta è fondata su qualcosa che cambierà per sempre il corso del suo destino. Il padre le ha sempre mentito, camuffando i suoi affari con troppa facilità, fino ad andare a imbattersi contro la persona sbagliata in un territorio che non gli appartiene. Non immagina che per certi errori non esistono prezzi da pagare
Ryley Diaz, dallo sguardo schivo e privo di emozioni diventerà il suo incubo peggiore, quando Ella si troverà legata nel bagagliaio della sua auto senza sapere dove la stia portando. Una villa nascosta da occhi indiscreti diventerà la sua prigione, trenta giorni a stretto contatto con il suo rapitore. Dovrebbe avere paura di quegli occhi neri come la pece, di quella voce che le penetra nelle ossa, di quelle mani che la stringono con forza, con possesso, con una brama che le cola sulla pelle come cera, ma non è così. La tentazione rovente, letale si impossessa di entrambi in modo inaspettato, ma cosa succederà quando le loro strade saranno costrette a dividersi? Chi è alla fine Ryley Diaz e cosa nasconde quello sguardo che tormenta Ella ogni notte?