5. Il Profeta

Alla vigilia degli incontri, mentre gli altri pugili di solito risparmiavano le energie, si concentravano, ascoltavano i consigli dell’ultimo minuto dagli allenatori, pregavano o vomitavano, Cassius stava in piedi, boxando con l’ombra, raccontando barzellette, facendo lo spaccone e rimirandosi allo specchio, come se i tempi morti fossero l’unico sfidante da temere.172 Anni dopo avrebbe confessato agli amici che prima di ogni match era terrorizzato.173 Ma lo nascondeva alla grande. E al suono del gong, le sue paure svanivano.

Nel 1959, a poche ore dalla sfida contro Tony Madigan trasmessa in tutto il paese dalla televisione, non riusciva a rimanere fermo, e la sua energia nervosa aveva distratto gli altri atleti. Era a Chicago, a quattrocentottanta chilometri da casa. Voleva fare qualcosa. Nessun altro voleva fare qualcosa? Continuò a chiederlo finché non ottenne la risposta desiderata.

«Ci allenavamo assieme» raccontò Wilbert McClure, detto Skeeter, un adolescente di Toledo, «e mi ricordo che continuava a punzecchiarci: “Amico, ci sono frotte di belle ragazze per la strada, guarda tutte queste belle ragazze a passeggio, dobbiamo avvicinarci e abbordarne qualcuna”». Tra i più giovani c’era chi aveva paura a esplorare da solo Chicago, mentre altri si volevano soltanto riposare per gli imminenti incontri. Ma lui insisteva: «Coraggio, mettiamoci la giacca della squadra e andiamo da qualche parte a rimorchiare».174 Alla fine, gli adulti che accompagnavano i pugili cedettero e organizzarono una gita alla Marshall High School, nel West Side.

«A portarci in giro furono delle ragazze davvero carine» proseguiva McClure. «Poi pranzammo in una mensa, piena di ragazze ancora più carine. Eravamo circondati. E lui, che prima non aveva smesso un attimo di istigarci, se ne stette seduto tutto il tempo a fissare il vassoio, senza aprire bocca».

Tra gli atleti che Cassius conobbe in quei tornei c’era chi lo trovava irresistibile perché aveva capito che la sua spacconaggine era una messinscena e quindi non ne era disturbato più di tanto. Ma c’era anche chi non tollerava il suo egocentrismo. Nessuno ricorda conversazioni su politica, questioni internazionali, razza o cultura. Voleva solo combattere. Voleva essere grande. Voleva diventare ricco e famoso. Voleva divertirsi. E basta.

Dal 1958, Cassius si recò a Chicago per tre anni di seguito. Più di ogni altra, la Città del vento gli offriva la possibilità di vivere da adulto in una metropoli, ma anche nuove difficoltà, dettate dai problemi razziali e dalle loro conseguenze. Chicago non era la terra promessa, né per lui né per quelli che dal Sud arrivavano sul lago Michigan aspettandosi di trovare qualcosa di meglio rispetto a quanto si erano lasciati alle spalle. I salari e le condizioni di vita delle famiglie nere non erano nemmeno comparabili a quelli dei bianchi. Gli afroamericani erano ancora esclusi da molte occupazioni, sindacati, club e quartieri. Nel Nord, come aveva scritto il sociologo Gunnar Myrdal nel 1944, «in linea di massima quasi tutti sono contro la discriminazione ma, allo stesso tempo, quasi tutti la praticano nella vita privata».175 Ciononostante, Chicago regalò a Cassius la sua prima esperienza sessuale e la prima esposizione mediatica a livello nazionale. Inoltre dimostrò che l’autostima che aveva sul ring era giustificata, che poteva davvero competere con i migliori pugili della nazione, infondendogli così sempre maggior sicurezza. La città, per quanto ancora profondamente segnata dalla segregazione, trasmetteva una sensazione di libertà molto più grande di Louisville. Non era soltanto lontano dai genitori. Era al Nord, in un centro dove molti neri del Sud avevano scoperto che potevano esprimere in maniera più aperta le loro opinioni, dove potevano passeggiare sui marciapiedi senza doversi spostare davanti ai bianchi e sedersi a un bancone di una tavola calda accanto a una donna bianca senza temere reazioni violente, dove un giovane come Cassius Clay poteva combinarne di tutti i colori senza curarsi delle conseguenze.

E fu sempre lì che incontrò l’uomo che forse più di tutti avrebbe cambiato la sua vita.

Elijah Muhammad si presentava come il profeta della Nation of Islam, un gruppo religioso consacrato al separatismo e al potere nero che si radicò nel South Side, dove viveva la maggior parte degli afroamericani della città. Agli angoli delle strade e nelle moschee, i suoi seguaci predicavano un messaggio di resistenza che negli anni Cinquanta stava iniziando ad attirare i neri, per la crescente rabbia verso la segregazione e le aggressioni come quella subita da Emmett Till. Se gli europei e i bianchi americani avevano un Cristo bianco e i buddisti in Cina un Buddha con sembianze cinesi, chiedeva Elijah Muhammad, perché i negri non veneravano un dio negro? E visto che europei e cinesi avevano nomi radicati nelle loro stirpi e nella loro cultura, perché i neri americani continuavano a usare nomi assegnati loro dai proprietari di schiavi, come bovini marchiati dagli allevatori? Si trattava di condizioni imposte dai bianchi, senza il consenso degli interessati, condizioni che relegavano uomini e donne di colore a un’apparente posizione di perenne inferiorità, che sarebbero cambiate solo se a volerlo fossero stati gli stessi neri.

Per la Nation of Islam, il fatto che i tribunali stessero imponendo l’integrazione nelle scuole, sui treni, sugli autobus e sulle spiagge non era abbastanza. L’integrazione non sarebbe mai stata sufficiente finché gli americani con origini africane fossero stati trattati come cittadini di seconda classe, e avessero più probabilità dei loro vicini bianchi di finire in carcere, di restare disoccupati, senza un tetto o cibo; se avevano più probabilità di morire giovani, di essere uccisi con colpi d’arma da fuoco dalla polizia e di essere linciati.

In Africa, i neri si stavano finalmente emancipando dal colonialismo. A quel punto, i neri americani sarebbero rimasti l’ultimo simbolo vivente dell’inferiorità e della sottomissione razziale? No, a sentire Elijah Muhammad. Se le sue profezie si fossero avverate, ben presto sarebbe nata una nazione di neri americani liberi, che avrebbe occupato un quinto dei territori appartenenti in quel momento agli Stati Uniti. Per migliaia di afroamericani – in particolare quelli privi di ogni diritto, tra cui i detenuti e i disoccupati, che costituivano il grosso della Nation of Islam – il messaggio di Elijah Muhammad si rivelò irresistibile. Muhammad rifiutava il pacifismo dei leader per i diritti civili come il reverendo Martin Luther King Jr e gli sforzi della Naacp per un progressivo mutamento attraverso il sistema giuridico americano.

Prima di diventare il profeta della Nation of Islam, Elijah Muhammad si chiamava Elijah Poole.176 Figlio di un mezzadro, era nato nel 1897 nella Georgia rurale e, nel 1923, come molti altri era migrato a Nord, stabilendosi in un quartiere povero nel centro di Detroit, dove le condizioni economiche non erano così diverse da quelle della Georgia. Poole beveva dalla mattina alla sera e contava sull’aiuto del governo per tirare avanti, ma alla fine si imbatté negli insegnamenti di un predicatore misterioso di nome W.D. Fard, un nero dalla carnagione chiara che vendeva porta a porta indumenti che a suo dire ricordavano quelli indossati dai neri del Medio Oriente. Fard sosteneva di essere originario della Mecca, anche se in realtà non c’era nemmeno mai stato. Si presentava con svariati nomi esotici: Mister Farrad Mohammad, Mister F. Mohammad Ali, Professor Ford e Mister Wali Farrad. A prescindere dagli pseudonimi usati, trovò clienti desiderosi di sentirlo parlare dei posti dove diceva di essere stato, dove i neri avevano le loro radici, erano fieri membri della maggioranza e pregavano un dio buono chiamato Allah, e non Gesù, dove potevano essere orgogliosi della propria pelle e della storia del loro lignaggio.

Fard iniziò a organizzare incontri in tutta la comunità, definendosi un profeta e offrendo ai suoi uditori suggerimenti su come migliorare la loro salute evitando certi cibi.177 Via via che la sua popolarità cresceva, divenne sempre più critico nei confronti della Bibbia e «dei diavoli con gli occhi azzurri», i bianchi. Prometteva ai suoi seguaci una via d’uscita dalla miseria: tornando alla loro antica eredità islamica e abbracciando una filosofia di pulizia, indipendenza e duro lavoro, i neri si sarebbero sollevati. Avrebbero creato una loro nazione separata. Un «Aereo Madre» volteggiante nello spazio, controllato telepaticamente da piloti neri, avrebbe distrutto la Terra, e solo i suoi fedeli sarebbero sopravvissuti. Stando alle sue parole, quell’evento catastrofico sarebbe probabilmente avvenuto nel 1966.

Per quanto insolita, quella filosofia non era del tutto nuova.178 Booker T. Washington e innumerevoli altri leader neri avevano a lungo predicato l’importanza della moralità e del duro lavoro. Negli anni Venti, Noble Drew Ali (nato come Timothy Drew in North Carolina) aveva fondato la Moorish Science Temple of America, che insegnava a tutte le persone di colore che le loro origini erano moresche o musulmane. E Marcus Garvey aveva infiammato l’immaginazione di un’infinità di uomini e donne sostenendo l’orgoglio negro e incoraggiando la sua gente a lasciare l’America e fare ritorno in Africa.

Fard battezzò il suo nuovo gruppo religioso Nation of Islam. Nello spazio di pochi anni fondò un tempio e una università del­l’Islam, entrambi a Detroit, e si costruì una base di circa ottomila seguaci.179 Elijah Muhammad divenne uno dei primi ufficiali del gruppo, e nel 1934 Fard lo nominò Gran ministro del culto islamico, conferendogli i poteri per dirigere l’organizzazione. Poco dopo, il fondatore sparì dalla circolazione e di lui non si ebbero più notizie. Elijah Muhammad portò avanti quasi da solo gli insegnamenti del suo mentore, divinizzandolo ed estendendo il raggio d’azione della Nation of Islam. Per ironia della sorte, nonostante la presenza delle navi spaziali, le sue opinioni includevano elementi genuinamente americani e fondamentalmente conservatori. Incoraggiava i neri a non contare sull’aiuto dei bianchi perché, a suo dire, l’unico modo che i neri avevano di progredire era separarsi dai bianchi – avviando attività in proprio, facendo acquisti dai neri, fino a formare una propria nazione.

Nel 1955, la Nation of Islam era abbastanza radicata da attirare le attenzioni dell’Fbi, che chiamava l’organizzazione il Muslim Cult of Islam, definendola «particolarmente antiamericana e vio­lenta».180 In un documento destinato agli agenti sul campo, il Bureau concludeva:

1. L’Mci è un’organizzazione fanatica di negri che afferma di essere mossa dai princìpi religiosi dell’islam, ma che in realtà si dedica a diffondere odio contro la razza bianca. Le funzioni svolte all’interno dei templi sono prive di qualunque parvenza religiosa.

2. Dal punto di vista organizzativo, l’Mci è un insieme di templi autonomi legati da un rapporto fragile tra i capi degli stessi e il quartier generale del culto a Chicago, Illinois.

3. Sebbene sia un’organizzazione estremamente antiamericana, l’Mci in questo momento non è abbastanza grande o potente per infliggere seri danni al paese: tuttavia, i suoi membri sono capaci di commettere atti individuali violenti.

4. L’obiettivo dell’Mci è quello di rovesciare il nostro governo costituzionale, perché i membri del culto lo considerano uno strumento al servizio della razza bianca; di conseguenza, è evidente che il gruppo in questione, finché diffonderà simili idee, rimarrà sotto la lente investigativa dell’Fbi.

L’espansione della Nation of Islam non fu soltanto opera di Elijah Muhammad, ma anche il frutto del crescente malcontento tra gli afroamericani. «Senza gli errori della società occidentale» scriveva Louis E. Lomax, uno dei primi autori a documentare la storia dell’organizzazione, «i Black Muslims non sarebbero mai nati».181 E senza il razzismo provato sulla propria pelle durante l’adolescenza, senza l’immagine di Elijah Muhammad come alternativa sobria, potente e saggia al padre, e senza la morte scioccante di Emmett Till, Cassius Clay non sarebbe stato così attratto dal messaggio dei Black Muslims.

Nel corso della sua vita Clay avrebbe subito l’influenza di due grandi fattori: il pugilato, uno sport violento che però prometteva l’accesso a fama, ricchezza e gloria, e la filosofia di Elijah Muhammad, il quale affermava che i neri dovevano essere orgogliosi del colore della loro pelle e presto avrebbero governato il mondo; se si fosse reso necessario, per arrivare al potere avrebbero utilizzato la violenza e su questo l’America bianca non poteva farci un bel nulla.

Dopo il viaggio a Chicago per i Golden Gloves del 1959, Cassius tornò a casa con un quarantacinque giri sulle cui due facciate era incisa una registrazione. Secondo alcuni giornalisti si trattava dei discorsi di Elijah Muhammad, ma era più probabile che fosse una canzone: A White Man’s Heaven is a Black Man’s Hell, scritta e interpretata dal ministro del culto Louis X, noto in precedenza come Louis Eugene Walcott e in seguito ribattezzato ministro Louis Farrakhan. Sopra un ritmo calypso sommesso, Louis X teneva una sorta di sermone, e più che cantare parlava: «Perché ci chiamano negri? / Perché siamo sordi, sciocchi e ciechi?».182

La canzone proseguiva con una serie di domande: Perché tutto il mondo progrediva mentre i neri venivano lasciati indietro? Perché i neri erano trattati così male? Perché erano spogliati dei loro nomi, della loro lingua e della loro religione?

White Man’s Heaven fece scoprire la Nation of Islam a molti afroamericani. Girava nei jukebox dei bar e dei ristoranti gestiti da neri, e si poteva comprare nei negozi di dischi frequentati dai neri. Per secoli i bianchi avevano imposto la loro religione agli africani, spesso in nome dell’emancipazione. Ora invece la canzone incitava i figli della schiavitù a ripensare al loro rapporto con la Chiesa cristiana e a ridefinire la loro identità. Le parole del testo riflettevano la filosofia di Elijah Muhammad, che insegnava a giovani come Louis X che avevano caratteristiche diverse da quelle imposte dai bianchi, colpevoli di aver ridotto in schiavitù i loro antenati; che avevano una storia e una religione propria, e che potevano liberarsi da codici e rituali in virtù dei quali erano diventati prima schiavi e poi cittadini di seconda classe.

Clay ascoltava la registrazione di continuo, come raccontò una volta sua zia a un cronista, finché gli altri della casa non ne poterono più e lui stesso si ritrovò «indottrinato e ipnotizzato»;183 la sua vita era cambiata in maniera irreversibile.

Dopo aver sconfitto Tony Madigan per il titolo dei mediomassimi del campionato nazionale dei Golden Gloves nel marzo del 1959, Clay divenne una sorta di pugile dilettante a tempo pieno. In aprile conquistò il National Amateur Athletic Union (Aau) con una vittoria unanime ai punti contro Johnny Powell.

A maggio subì la più pesante sconfitta della sua carriera da dilettante – ai punti, con decisione non unanime, contro il pugile mancino Amos Johnson –, un risultato che lo escluse dalle finali dei Giochi Panamericani. Sebbene in quell’occasione si fosse preso una bella ripassata, Joe Martin continuava a essere impressionato dalla sua abilità di restare in piedi e di conservare la calma anche nei momenti di estrema difficoltà.

«Cassius sapeva come combattere quando si trovava nei guai» avrebbe detto l’allenatore a un reporter.184 «Non andava mai nel panico e non dimenticava mai i miei insegnamenti. Quando subiva un colpo, non perdeva la testa e non cercava di replicare subito, come invece fanno alcuni. Incassava e ricominciava a boxare, per uscire da quella situazione… L’unica volta in cui lo vidi andare al tappeto, privo di sensi, fu in palestra, mentre faceva i guanti con un dilettante di nome Willie Moran. Moran era un bel picchiatore… e quel giorno distrusse Clay. Cassius mi aveva raccontato di volere una motoretta, e quando riprese conoscenza mi disse: “Signor Martin, da dove è arrivata la motoretta che mi ha investito?”. Quella motoretta ce l’aveva in testa. Fu l’unica volta in cui lo vidi scosso. All’epoca aveva sui sedici anni, e la cosa non lo turbò. Il giorno dopo era di nuovo ad allenarsi con Moran».

Nel 1959, sebbene tutti sapessero che il cranio conteneva il cervello, erano in pochi a preoccuparsi dei colpi subiti alla testa. Anzi, l’abilità di assorbire i pugni era considerata emblema di virilità, e per un giovane pugile come Cassius Clay la promessa di un futuro luminoso.

Durante la primavera del 1959 Cassius combatté in maniera quasi ininterrotta, con una media di circa tre incontri al mese.185 Malgrado gran parte dei match si svolgesse nei fine settimana, dovette probabilmente saltare molti giorni di scuola. I suoi compagni non lo vedevano più sfrecciare accanto all’autobus diretto alla Central High School. Lui e il fratello andavano a correre al Chickasaw Park e su una pista d’atletica lì vicino. I due erano praticamente inseparabili. Condividevano camera, pasti e regime d’allenamenti. Partecipavano quasi agli stessi tornei. Ma sebbene anche Rudy se la cavasse, era chiaro a tutti che il più promettente era Cassius. Era una questione di talento, non di impegno o di forza. Uno aveva un dono, l’altro no. «La mia mente non era veloce come la sua» diceva Rudy. «E nel pugilato bisogna pensare».186

Essere il fratellino di Cassius Clay non era facile. Tra i due era l’atleta migliore, più popolare, divertente e carismatico. Rudy sembrò accettare il suo status nello stesso modo in cui una spalla accetta che in uno spettacolo comico sia il partner a far ridere il pubblico. Rudy conosceva i suoi limiti ed era contento di poter assistere da vicino alla vita carnevalesca del fratello. Era il suo compagno più fidato. Cassius non indossava mai un orologio perché tanto c’era sempre l’altro a dirgli l’ora.187 E Cassius gli fece una promessa: comunque sarebbe andata – in tema di soldi, donne, viaggi e gloria – si sarebbero spartiti tutto.188

Nel 1960, Cassius era alto ormai un metro e ottantacinque e pesava oltre ottanta chili. A marzo tornò a Chicago per partecipare di nuovo ai Golden Gloves. Questa volta gareggiò tra i massimi, e non più nella categoria inferiore, in modo da evitare un possibile scontro con Rudy, a sua volta in gara.189 Dopo aver trionfato, partì per New York per un match contro il campione dei Golden Gloves della costa Est, Gary Jawish, che pesava diciotto chili più di lui. Clay iniziò a prendere le misure dell’avversario con il jab, per poi passare a una serie di rapidi ganci. Continuava a muoversi così rapidamente e con tale slancio che Jawish non riuscì più a controbattere. Ben presto non era più in grado di tenersi dritto, e al terzo round l’arbitro decise che rischiava di subire gravi danni e decretò Cassius Clay vincitore per ko tecnico.

Per tutta la prima metà del 1960, Clay si sottopose a un fitto calendario di incontri che sarebbe stato adatto a un giovane professionista assetato di gloria. In aprile conquistò di nuovo il titolo Aau dei mediomassimi e si portò a casa il trofeo come miglior pugile della manifestazione. «In futuro ricordatevi di seguire Clay» scrisse il promoter e giornalista Hank Kaplan dopo la manifestazione. «È il miglior prospetto del paese a livello dilettantistico. Non è un picchiatore, ma è veloce ed è capace di mandare a segno combinazioni fulminee».190

Il campionato Aau gli assicurava la possibilità di competere negli imminenti trials olimpici, ma anziché riposarsi Clay tornò a Louisville, dove continuò a salire sul ring e a vincere.

«Lasciamo stare le Olimpiadi» disse a Joe Martin. «Sono pronto a passare professionista».191

172. Lewis, op. cit., p. 25.

173. Intervista dell’autore a Larry Kolb, 7 dicembre 2016.

174. Hauser con Ali, op. cit., p. 25 [trad. it. cit., pp 24-25].

175. Gunnar Myrdal, An American Dilemma, Transaction Publishers, New Brunswick, NJ, 2009.

176. C. Eric Lincoln, The Black Muslims in America, Africa World Press, Trenton, NJ, 1994, p. 12.

177. Ibid., p. 11.

178. Ibid., pp 47-48.

179. Ibid., p. 16.

180. Report dell’Fbi, Fbi Vault, 28 giugno 1955.

181. Louis Lomax, When the World is Given, Signet, Chicago, 1963, pp 10-11.

182. Registrata da Louis X, www.youtube.com.

183. Olsen, op. cit., p. 134.

184. Ibid., p. 53.

185. Cottrell, op. cit., p. 20.

186. Intervista dell’autore a Rahaman Ali, 30 agosto 2014.

187. A Split Image of Cassius Clay, «The Louisville Courier-Journal», 25 novembre 1962.

188. Intervista dell’autore a Rahaman Ali, 30 agosto 2014.

189. Jones, Clay Top Gloves Final Night, «The Chicago Defender», 9 marzo 1960.

190. Appunti, s.d., Hank Kaplan Boxing Archive, Archives and Special Collections, Brooklyn College Library, Brooklyn, New York.

191. Cottrell, op. cit., p. 22.