Anni dopo gli storici avrebbero affermato che il 1959 segnò la fine del decennio dell’innocenza americana e di un’epoca in cui la forma aveva prevalso sulla sostanza, che sarebbe stata ricordata per le Cadillac rosa, i drive-in, i cantanti di rock’n’roll con i capelli impomatati, le partite di baseball in pieno giorno e i raid delle confraternite maschili nei dormitori delle ragazze per rubare le mutandine – tutto in colori così sgargianti da sembrare un tributo hollywoodiano alla giovinezza.
Clay, al suo ultimo anno di superiori, non era interessato ai rumori di guerre distanti. E nemmeno alle azioni di quattro studenti neri del primo anno all’Agricultural and Technical College di Greensboro, North Carolina, che avevano chiesto educatamente un caffè al bancone di un Woolworth e in silenzio si erano seduti in segno di protesta quando non glielo avevano servito, dando il via a un’ondata di sit-in in sette Stati del Sud. Poco dopo, nell’aprile del 1960, un gruppo di giovani militanti neri costituì lo Student Nonviolent Coordinating Commitee (Sncc) che avrebbe contribuito alle Freedom Rides, le corse per la libertà contro la segregazione sugli autobus, e a innumerevoli altre proteste per i diritti civili. L’autodisciplina e il coraggio di quei ribelli avrebbero potuto toccare qualche corda in lui, che però per il momento non si fece coinvolgere dalla politica. Era giovane, bello, e aveva talento. Le sue attenzioni erano concentrate su boxe, ragazze, auto, soldi e specchi.
Quando un reporter gli diede del vanitoso, Clay sembrò accusare il colpo.
«No,» rispose «sono semplicemente giovane e me ne sbatto di tutto».192
Una volta, sempre nel 1959, Cassius Clay assistette a una recita scolastica. Alla fine dello spettacolo avvistò l’ex compagna di classe Areatha Swint e si fermò a salutarla. La ragazza aveva abbandonato la scuola l’anno prima, dopo essere rimasta incinta e aver partorito un maschietto. Quella sera aveva lasciato il piccolo a casa con la madre per poter assistere all’esibizione e incontrare i vecchi amici della Central High. Cassius si offrì di accompagnarla a casa.
Perlopiù i ragazzi non erano interessati a uscire con una ragazza madre, seppur splendida come la Swint,193 ed erano ancor più guardinghi quando scoprivano che il padre del bimbo stava scontando una pena in carcere. Ma a Clay non importava. Aveva sempre avuto una cotta per lei, e non era il tipo da perdersi in dettagli insignificanti. Clay la scortò a piedi fino ai Beecher Terrace Apartments, dove lei abitava. Areatha apprezzò la compagnia di Clay, così come la sua risata contagiosa. E apprezzò anche il fatto che, a dispetto dell’atteggiamento spaccone, sembrava nervoso e modesto. Sapeva che Cassius era una celebrità alla Central High. Tutte le ragazze erano a conoscenza dei suoi successi sportivi, e ammiravano i suoi lineamenti e le lunghe braccia muscolose, messe in bella mostra dalle magliette bianche aderenti a maniche corte. Aveva la pelle liscia, gli occhi castano scuro e uno spazietto tra gli incisivi, un’imperfezione che lo rendeva ancor più affascinante. «Era come un pulcino vivo che sfilava davanti al colonnello Sanders» ricordava la Swint, che in seguito avrebbe cambiato il proprio nome in Jamillah Muhammad. «Attirava le ragazze come una calamita». Ma ad attrarre lei fu la sua personalità più che il suo aspetto.
«La cosa che mi piaceva» raccontava «è che di qualunque umore tu fossi, dopo un’ora ti eri dimenticata di tutto. Era sempre positivo, sempre spassoso. Aveva uno spiccato senso dell’umorismo».
Quella sera, quando i due raggiunsero i Beecher Terrace, salirono insieme le scale fino all’appartamento al secondo piano della Swint. Arrivati alla porta, Clay si chinò per un bacio, che lei ricambiò chiudendo gli occhi. Poi ci furono dei rumori sordi, senza più baci. E quando lei riaprì gli occhi, Clay era sdraiato ai piedi delle scale con braccia e gambe aggrovigliate. Era svenuto.
Ancora steso a terra, lui alzò uno sguardo imbarazzato verso la ragazza. «Nessuno ci crederà mai».
I due si frequentarono tra la primavera e l’estate del 1960, sebbene Clay fosse troppo impegnato con la boxe e la Swint con il figlio perché la relazione potesse diventare seria. Lui amava giocare con il bambino, Alan. Quest’ultimo aveva un collie di peluche, che Cassius portava al guinzaglio per la stanza con una corda legata al collo e nascosta sotto il tappeto.
«Ogni singolo minuto passato con lui è stato divertente» disse lei. «Era un uomo fatto così».
Malgrado avesse dichiarato di voler passare professionista, Clay rimase tra i dilettanti, e nel maggio del 1960 si recò a San Francisco per conquistarsi un posto nella nazionale olimpica americana. A competere c’erano ottanta giovani. Dieci di loro – uno per ogni categoria di peso – sarebbero andati alle Olimpiadi di Roma. Ma prima di partecipare ai trials, Clay doveva superare il terrore di volare.
Il padre aveva sempre avuto paura dell’aereo, e il figlio sviluppò la stessa fobia dopo aver preso un volo da Louisville a Chicago nel 1958 o 1959.194 Nella sua autobiografia del 1975, Cassius scrisse che in quella occasione la turbolenza era stata così forte che «alcuni sedili finirono scardinati dai bulloni che li inchiodavano al pavimento».195 Anche il ricordo di Joe Martin combaciava: «Continuavamo a ondeggiare e a terra cadeva di tutto. Poi l’aereo cominciò a scendere in picchiata, e i motori smisero di ruggire e di rombare. Ho davvero pensato che fosse il nostro ultimo viaggio… L’atterraggio è stato così brusco che le viti del mio sedile sono saltate, e mi sono ritrovato con un livido sullo stomaco, dove passava la cintura di sicurezza. Cassius non smetteva di urlare e pregare! Era spaventato a morte!».196
A circa un anno di distanza da quel viaggio traumatico, Clay disse a Martin che avrebbe saltato i trials olimpici di San Francisco se l’unico modo per andarci era via cielo. Dopotutto, l’eventuale vittoria in California avrebbe comportato un altro volo fino a Roma, seguito da un altro per tornare negli Stati Uniti. Era meglio passare subito professionista, programmando incontri in città raggiungibili in macchina, treno o autobus. Dichiarò che il suo obiettivo era diventare il più giovane campione del mondo dei massimi nella storia della boxe. Aveva soltanto diciotto anni, e quindi aveva a disposizione tre anni per battere il primato di Floyd Patterson, che aveva conquistato la corona a ventun anni e dieci mesi.
Ma Martin voleva che lui si recasse a San Francisco e conquistasse un posto in squadra. E spiegò al suo protetto che il modo più veloce per ottenere una possibilità per il titolo dei massimi era vincere la medaglia d’oro ai Giochi olimpici.
«Quella di Clay è una decisione cruciale» scrisse Dean Eagle, editorialista sportivo del locale «Louisville Times».197 «Se sceglie di non volare, probabile che gli toccherà prendere una marea di autobus prima di riuscire ad arrivare da qualche parte nel pugilato professionistico». Eagle proseguiva segnalando che di recente anche le squadre di basket, football e baseball avevano cominciato a viaggiare in aereo, e che i prezzi delle assicurazioni indicavano che i rischi erano contenuti: se un passeggero poteva comprare una polizza da 7500 dollari con soli venticinque centesimi, significava che le probabilità di morte per incidente aereo erano di trentamila a uno.
Alla fine, Martin riuscì a convincerlo. «Ma lui andò comunque in un negozio di articoli militari per comprarsi un paracadute da indossare durante il viaggio» raccontava il figlio dell’allenatore, Joe Martin Jr.198 Quando, sopra l’Indiana, il velivolo diretto in California fu investito da una turbolenza, Clay si piegò sul sedile e si mise a pregare.199
Cassius passò in scioltezza i primi turni del torneo di qualificazione. In finale però si trovò di fronte un avversario che si era lasciato dietro una scia di ko. Si chiamava Allen «Junebug» Hudson, un veterano dell’esercito originario di Long Island, New York, che di solito combatteva tra i massimi e che possedeva uno dei ganci sinistri più insidiosi del torneo, e un temperamento non dissimile. Il suo ultimo avversario era durato appena trentadue secondi. 200
Hudson intimidiva i rivali, sia dentro che fuori dal ring. Ma se Clay era nervoso, ebbe un modo alquanto singolare di mostrarlo. Il giorno prima dell’incontro, i due stavano facendo una partita a carte; qualche velato sfottò divenne via via sempre meno velato, e in un attimo Clay e Hudson si stavano urlando contro da una parte all’altra del tavolo. Secondo la testimonianza di Tommy Gallagher, un atleta dilettante che in seguito avrebbe fatto l’allenatore, le sedie raschiarono il pavimento, i petti si gonfiarono e i pugni si alzarono. A detta di Gallagher, fu Clay a iniziare. «Era il più insopportabile di tutti. Insopportabile! Insopportabile! Arrivava da una famiglia borghese. Non era un nero del ghetto, e in lui c’era qualcosa di davvero insopportabile. In realtà, penso che fosse semplicemente terrorizzato e non sapesse come comportarsi».201
Julius «Julie» Menendez, selezionatore olimpico, intervenne per sedare il tafferuglio e disse ai due giovani che se volevano combattere bastava che infilassero i guantoni e salissero sul ring. Ed è ciò che fecero: il giorno prima del loro vero incontro, i due boxarono davanti a un gruppetto di colleghi e allenatori, solo per l’orgoglio.
«Detesto ammetterlo,» raccontava Gallagher «ma Clay lo fece a brandelli».202
La sera dopo, quando al Cow Palace iniziò il match ufficiale, con in palio un biglietto per Roma, i due si urlarono contro in maniera piuttosto inconsueta per il rispettoso mondo del pugilato dilettantistico.203 Fu un momento profetico per Clay, che avrebbe mostrato un atteggiamento intimidatorio nei confronti degli avversari per tutta la carriera, convinto che la spavalderia e i modi sgarbati li innervosissero. Ma fu anche un ottimo promemoria del fatto che il pugilato – perfino quello dei dilettanti – si alimentava di rabbia, che si trattava di un combattimento, che ogni pugile saliva sul ring per affermare la propria superiorità, sfruttare le debolezze del rivale, staccare una mascella, fratturare un naso, fare uscire sangue da un’orbita, martellare un cranio e spegnere le luci.
Nonostante l’ostilità tra i due, nei primi minuti dell’incontro Clay rimase calmo, limitandosi a qualche jab e al solito movimento, come se stesse saggiando il terreno prima dell’affondo. Neutralizzò gli avvolgenti affondi di Hudson danzando con agilità sulle punte. Colpendo con il sinistro e arretrando, si teneva alla larga dal temibile gancio sinistro del rivale, che incassava molti colpi ma senza sentirli, a quanto pareva, perché continuava a farsi strada tra i jab di Clay martellandolo alla figura. Dopo due round il match era in equilibrio, ma Clay era davanti ai punti, e Hudson avrebbe probabilmente dovuto cercare il colpo del ko per guadagnarsi il biglietto per Roma.
Il gong suonò e i due contendenti si ritrovarono al centro del ring, senza più gridare uno contro l’altro. Il ritmo aumentò. Hudson sferrò due jab sinistri, che Clay schivò prima di replicare con un destro leggero. Hudson lo colpì al corpo con un possente destro, e Clay lasciò partire altri jab. Hudson sfiorò il rivale con un gancio sinistro, strisciandogli appena il volto. I due legarono e si spintonarono. L’arbitro li divise, e poi accadde ciò che cercava Hudson, e per cui Clay era totalmente impreparato. Hudson superò con prepotenza un debole jab di Clay e fece partire un altro gancio sinistro, che questa volta produsse un rumore sordo sul mento dell’avversario facendogli ruotare testa e collo. È probabile che Clay non vide arrivare il pugno, e cadde all’indietro sulle mani. Fu un colpo improvviso e potente, accompagnato dal boato del pubblico. Ma l’arbitro non ebbe nemmeno il tempo di iniziare il conteggio che Clay era già in piedi che parlava, annuiva, si schiariva la mente annebbiata e insisteva che stava bene ed era pronto a combattere, tutt’altro che sconfitto.
Il giudice gli afferrò i guantoni, lo fissò negli occhi per valutare le sue condizioni e indicò che il match poteva proseguire.
Hudson avanzò, cercando di finire il giovane rivale, mandando a segno altre due sventole. Ma ormai Clay aveva smesso di danzare e boxare da calcolatore. Era all’attacco, verosimilmente infuriato, in piena adrenalina. Dopo aver schivato un colpo, si inclinò all’indietro e mandò a segno un destro terrificante – uno di quelli che usava di rado perché lo avrebbe lasciato sguarnito di fronte a eventuali contrattacchi. In quel caso non solo andò a bersaglio, ma scosse Hudson, che per un attimo perse l’equilibrio. Mentre questi cercava di restare in piedi, Clay balzò in avanti e lo investì con un altro possente destro, che finì dritto al mento. Hudson ruotò di centottanta gradi e terminò con il volto tra le corde.
Si rimise in piedi a fatica, ma era ancora barcollante, e così l’arbitro sancì la fine dell’incontro. Clay, le braccia alzate in segno di vittoria, saltellò in giro per il ring mentre Hudson crollò nel suo angolo in preda alle lacrime.
Si trattò dell’incontro più violento di quella settimana a San Francisco. Clay ne era uscito vincitore e, forse, come candidato principale tra gli americani a una medaglia d’oro a Roma.
Alla fine dei trials, Clay chiese a Martin di prestargli dei soldi per acquistare un biglietto del treno.204 E quando questi si rifiutò, visto che aveva già pagato il viaggio aereo di ritorno, lui diede in pegno un orologio d’oro, uno dei premi conquistati per la vittoria nel torneo, e rientrò a casa da solo via terra.
Sarebbe arrivato in tempo per la consegna dei diplomi alla Central High. A qualche settimana dalla cerimonia non era però ancora chiaro se anche lui avrebbe ricevuto l’attestato. Aveva saltato gran parte dell’ultimo anno scolastico, boxando in giro per il paese. E anche quando era riuscito a frequentare le lezioni, il suo rendimento era stato come al solito altalenante.
Alcuni membri del corpo docenti dell’istituto ritenevano che non meritasse di diplomarsi. «Non era un bravo studente» disse Bettie Johnson, un membro del consiglio. «Andava a scuola solo perché costretto».205 Durante l’ultimo anno, Clay consegnò all’insegnante di inglese un tema su Elijah Muhammad e la Nation of Islam. Normalmente, qualunque suo compito sarebbe stato accolto con tripudio, ma in questo caso la professoressa in questione era una «cristiana molto rigida», ricordava la Johnson, «e il solo accenno al separatismo o all’affermazione dei neri la terrorizzava». Lei avrebbe voluto bocciarlo, ma il preside Atwood Wilson, una persona mite e rispettata, nel corso di un consiglio d’istituto si alzò in piedi e fece un intervento che alla Central High School sarebbe passato alla storia come il discorso del «motivo di vanto». Wilson affermò che comprendeva che per alcuni insegnanti il diploma a Clay avrebbe mandato un messaggio sbagliato ai giovani sportivi: impegnarsi non era importante se correvi veloce, lanciavi con precisione una palla o eri bravo a colpire un avversario al volto. D’altra parte, aggiunse, un giorno Cassius Clay sarebbe potuto diventare famoso, guadagnando più soldi di tutti i professori della scuola messi assieme. E se fosse successo, continuò, ogni membro del corpo docenti e dell’amministrazione avrebbe potuto vantarsi di averlo conosciuto e avergli fatto da insegnante. Sarebbe stato il loro più grande motivo di vanto. Ed è così che Wilson avrebbe voluto essere ricordato, non come l’uomo che lo aveva bocciato.
Alla fine quindi il giovane ottenne il suo diploma, classificandosi 376° su 391 tra quelli del suo anno e ricevendo un «certificato di presenza», il voto sì più basso assegnato dalla scuola ma comunque sufficiente per essere promosso.
192. Clay Making Great Mileage in Publicity and Contacts, «The Louisville Times», 28 febbraio 1961.
193. Intervista dell’autore a Jamillah Muhammad (in precedenza Areatha Swint), 9 dicembre 2014.
194. Olsen, op. cit., p. 54.
195. Ali con Durham, op. cit., p. 85 [trad. it. cit., p. 101].
196. Olsen, op. cit., pp 54-55.
197. Should an Athlete Be Forced to Fly? Clay May Kiss Olympics, «The Louisville Times», 2 maggio 1960.
198. The Legend That Became Muhammad Ali, art. cit.
199. Cottrell, op. cit., p. 25.
200. 10 Finals in Olympics Ring Show Tonight, «Daily Independent Sun», San Rafael, Ca, 20 maggio 1960.
201. Intervista dell’autore a Tommy Gallagher, 17 luglio 2015.
202. Ibid.
203. Black History Month: The Army Boxer Who Knocked Down Muhammad Ali (1960), The Cbz Newswire, http://www.cyberboxingzone.com/blog/?p=19447.
204. Intervista di Jack Olsen a Joe Martin, appunti battuti a macchina da Jack Olsen, s.d., Jack Olsen Papers, cit.
205. The Legend That Became Muhammad Ali, art. cit.