A Fayetteville, in North Carolina, Little Red prese fuoco e dovette andare in pensione.
«Il mio povero piccolo pullman rosso» sussurrò Ali a bassa voce, dedicandogli un elogio funebre sul ciglio della strada. «Eri il pullman più famoso nella storia del mondo. O almeno il solo ad aver fatto un viaggio come questo».569
Ali era ancora reticente a prendere l’aereo, e così con il resto della banda percorse l’ultimo tratto fino a Chicopee Falls a bordo di un Trailways, arrivando cinquanta ore dopo. I giornalisti più scettici ritenevano che quel viaggio disastroso fosse un cattivo presagio. L’ultima volta Ali non aveva davvero sconfitto Liston, perché era stato quest’ultimo a gettare la spugna. L’impressione era che il giovane pugile fosse stato baciato dalla sorte, che Davide avesse scagliato un colpo fortunoso con la fionda e che forse avrebbe fatto meglio a lasciare in pace Golia. Per gli scommettitori il favorito era Liston, così come già accaduto prima dell’intervento per l’ernia di Ali.
Ai primi di maggio, a poche settimane dal match, le autorità pugilistiche del Massachusetts cancellarono l’incontro, perché sospettavano che i promoter di Liston avessero legami con la criminalità. Un cinico avrebbe potuto sostenere che chiunque nella boxe aveva legami con la criminalità, ma i promoter di pugilato non erano interessati a discorsi filosofici. Avevano bisogno di trovare una nuova sede per l’evento, e anche in fretta. Quando, inverosimilmente, il proprietario di un banco dei pegni di Lewiston, Maine, offrì i cinquemila posti della St. Dominic Arena, l’intesa venne subito trovata. Lewiston era una cittadina tessile di quarantunomila abitanti, e sarebbe diventato il centro più piccolo a ospitare un match per il titolo dei pesi massimi in quarantadue anni.
Tutto ciò che riguardava l’incontro andò male. Sebbene l’impianto fosse piccolo, metà dei biglietti rimase invenduta. I prezzi, che andavano dai venticinque ai cento dollari, erano troppo alti per la maggior parte della popolazione locale. Il numero ufficiale di spettatori paganti fu il più basso della storia moderna per un match con in palio la corona dei massimi. Giravano voci secondo cui quella sera i seguaci di Malcolm X avrebbero tentato di uccidere Ali. Per altre, un commando della Nation of Islam avrebbe ammazzato Liston se non fosse andato giù. Durante il combattimento di Miami i musulmani erano rimasti quasi invisibili, mentre nel Maine si erano presentati in forze. Uomini in completo nero e farfallino circondavano il pugile ovunque si recasse, scrutando la folla e terrorizzando i cronisti bianchi abituati a un’atmosfera ben più gioviale.
E poi c’era Liston, che non solo sembrava teso, ma anche in pessima forma. A furia di bere scotch e allenarsi controvoglia, l’ex campione, che dichiarava trentadue anni ma che ne aveva come minimo trentaquattro, appariva logoro e stanco.570
«Liston è finito» dichiarò Ali.571
«Lo vedi dagli occhi» disse uno degli sparring partner dello sfidante. «Non fanno più così paura».572
Anche la moglie, Geraldine, se n’era accorta: «Non era più lo stesso Sonny». Prima dell’incontro di Miami, aveva messo in mostra un atteggiamento calmo e fiducioso. Questa volta, invece, il giorno del match era nervoso e dilaniato dalla dissenteria.
Ali, al contrario, si allenava come uno convinto di essere diventato il Re del Mondo, o quantomeno il Re del Mondo Nero, e avrebbe fatto tutto il possibile per non deludere le sue legioni. Alternava sparring partner veloci a picchiatori. Jimmy Ellis testava i suoi riflessi, e Joe «Shotgun» Shelton gli assestava colpi allo stomaco mentre lui era alle corde, preparandolo così a sopportare il dolore per gli eventuali ultimi round contro Liston.
La sera dell’incontro, centinaia di agenti delle aree limitrofe furono chiamati in servizio. Perlustrarono il palazzetto in cerca di esplosivi e perquisirono gli spettatori per verificare se fossero armati. Le misure di sicurezza furono così rigide che quando il match cominciò molti spettatori in possesso di regolare biglietto si trovavano ancora all’esterno. La loro unica consolazione fu che non dovettero ascoltare Robert Goulet che massacrava l’inno nazionale.
Ali lasciò l’hotel alle nove, vestito con jeans e maglietta.573 Mort Sharnik, il giornalista di «Sports Illustrated» che l’accompagnava, gli chiese un pronostico. La risposta del pugile questa volta non giunse in versi. «All’inizio può succedere che non tiri neanche un pugno» replicò con fare pacato. «Mi limiterò a indietreggiare, Liston mi inseguirà e alla fine, bam!, lo colpirò con il destro e sarà finita».574 Una settimana prima aveva dichiarato a un cronista che non gli piaceva mai cominciare un match con un piano in testa. «Angelo ce l’ha, e quando posso lo seguo. Combatto da quand’ero bambino, e seguo sempre l’istinto. A volte rimango io stesso sorpreso quando vedo un grosso pugno puntare verso la mia testa, e la mia testa che si sposta da sola, senza che io l’abbia pensato, e il pugno che passa senza toccarmi. E mi chiedo: ma come ho fatto?».575
Era quello il piano.
Il match iniziò alle 22,40. Sonji – che aveva scelto il cognome Clay nonostante il marito lo avesse abbandonato – era seduta accanto ai suoceri. A pochi metri da loro, a bordo ring si trovavano Frank Sinatra, Jackie Gleason ed Elizabeth Taylor: sarebbe stata la prima e ultima volta che Lewiston avrebbe visto una simile parata di star. Quando fecero il loro ingresso, la folla fischiò Ali e acclamò Liston, confermando la massima per cui il nemico del mio nemico è mio amico. E nel 1965, Ali era probabilmente l’uomo più odiato d’America.
L’arbitro, Jersey Joe Walcott, un ex campione dei massimi, chiamò i due pugili al centro del ring e ricordò loro le regole. Prima del gong, Ali chinò la testa e disse una preghiera rivolto alla Mecca, mentre l’avversario trascinava i piedi pesantemente nell’angolo opposto.
Poi il combattimento cominciò. Ali, in pantaloncini bianchi, sembrava più alto e più forte che mai, il petto e le spalle imponenti come quelle di Liston, la pancia piatta avvolta da muscoli. Non arretrò, contrariamente a quanto aveva dichiarato a Sharnik, ma si piazzò in mezzo al quadrato e sferrò due colpi rapidi. Una volta mandato il messaggio, iniziò a fare ciò che tutti si aspettavano da lui: indietreggiare e girare in tondo mentre il rivale lo inseguiva e sferrava colpi che quasi mai andavano a segno. Ogni volta che Liston tentava di chiuderlo all’angolo, Ali sfuggiva, di solito sulla sinistra, e faceva un altro giro di ring danzando sulle punte dei piedi. Non si degnò nemmeno di usare il jab come faceva di solito mentre si muoveva, e si limitò ballare e a farsi inseguire dall’avversario. Per i primi novanta secondi del round, Ali tirò solo due jab, entrambi a vuoto. Forse stava prendendo le misure, o forse si stava tenendo a distanza di sicurezza.
Contro Archie Moore, più vecchio e lento di lui, Ali aveva sferrato ottantasei colpi nel primo round. In occasione della precedente sfida con Liston, sempre nel primo round i colpi erano stati quarantasette. Fino a quel momento, nei primi due minuti aveva tentato in tutto appena otto pugni, mandandone a bersaglio tre. Quel round si stava delineando come il più inoffensivo e insignificante di tutta la sua carriera da professionista, e in apparenza non stava servendo a nulla se non a testare la resistenza dell’avversario. Continuava a girargli intorno, schivando i suoi colpi.
A sessanta secondi dalla fine del round, Liston spinse Ali alle corde e avanzò, mettendogli pressione. Il campione rimase sulle punte agitando la spalla sinistra, quella destra e di nuovo quella sinistra, spostando il peso da un lato all’altro, trasformandosi in un bersaglio in movimento. Liston affondò un sinistro. Ali sgranò gli occhi e aprì la bocca, e poi ritrasse il mento e lasciò che il colpo gli finisse dolcemente sulla spalla. Sonny armò il destro, ma fu troppo lento. Ali lanciò un destro rapido che prese l’altro alla tempia. Liston abbassò la testa, come un uomo che aveva appena fatto cadere il portafoglio. Il suo ginocchio destro cedette, e il corpo si piegò.
Ali fece seguire un montante sinistro, che però andò a vuoto perché Liston era già sdraiato sulla schiena, le mani sul capo, le gambe larghe, come una bambola di pezza gettata a terra. Era giù, ed era successo così in fretta che molti spettatori non si erano accorti di nulla. Ali si piazzò accanto a lui e ruggì, mentre i fotografi facevano scattare freneticamente i loro apparecchi. Liston rotolò sul fianco destro, si raddrizzò su un ginocchio e poi cadde di nuovo come un ubriaco che aveva deciso di restare giù e dormirci sopra.
Ali cominciò a saltare di gioia sul quadrato.
Dopo circa diciotto secondi, lo sfidante riuscì a rimettersi in piedi. Il match avrebbe dovuto essere già finito, ma Walcott non aveva mai iniziato il conteggio perché troppo impegnato a domare Ali, che non era andato all’angolo come previsto dalle regole. Quando l’arbitro capì il proprio errore, si precipitò verso Nat Fleischer, direttore della rivista «The Ring» e commissioner ufficioso che si trovava a bordo ring, il quale dichiarò che Liston era stato a terra per dieci secondi. In assenza di Walcott, i due pugili ricominciarono a combattere. Ali tirò quattro ganci – sinistro, destro, sinistro, destro – prima che l’arbitro tornasse per dividerli e segnalasse che era finita: Ali aveva vinto per ko.
Liston tornò al suo angolo. Nel frattempo, Bundini raggiunse per primo il campione e lo sollevò in aria. Poi arrivò anche Rahaman, che tolse il paradenti al fratello.
«È andato giù apposta» gli disse Ali.
«No, l’hai colpito».
«Io penso che…».
«No, caro mio, l’hai colpito».576
Il pugno era stato così veloce, e il suo effetto così scioccante, che perfino Ali sembrava non essere sicuro dell’accaduto.577 A molti sembrava che Liston non avesse avuto alcuna fretta di rialzarsi. Dal pubblico si alzarono subito accuse di «imbroglio», che proseguirono a lungo anche dopo il match. Geraldine Liston non riusciva a capacitarsi che fosse bastato un colpo di striscio per far crollare il marito. In tutta la sua carriera, Sonny non era mai stato messo ko e prima di quella sera era finito al tappeto solo in un’occasione. Anche Joe Louis mise in dubbio l’autenticità di quel knock out, dichiarando che il corto destro di Ali sulla testa di Liston equivaleva a lanciare dei «popcorn contro una nave da guerra». E visto che il colpo era stato così veloce, e così ben coperto dal corpo in movimento di Liston, alcuni osservatori si spinsero perfino più in là, affermando che in realtà non ci fosse stato alcun pugno, e che Liston si fosse buttato. E lo definirono il «Pugno Fantasma».
In realtà c’era stato eccome, ed era anche andato a segno. I replay al rallentatore lasciavano pochi dubbi al riguardo: il destro di Ali aveva investito il capo di Liston con sufficiente potenza da farglielo abbassare verso destra.
«È stato un destro perfetto» commentò Floyd Patterson da bordo ring.
George Chuvalo, anche lui in prima fila, aveva dei dubbi: «Ho visto gli occhi di Liston. Erano gli occhi di un uomo che sta fingendo. Gli occhi di chi è sotto shock si girano verso il cielo. Quelli di Liston continuavano a guardare da una parte all’altra».578
«Non pensavo che potesse colpire così duro» dichiarò Liston.579
Dopo aver rivisto le immagini alla televisione, Ali cominciò a definire quel colpo «il mio pugno di karate» o il «famoso pugno àncora», tramandatogli da Jack Johnson attraverso Stepin Fetchit. Riguardo alle accuse di imbroglio, aveva la risposta pronta. «Sonny è troppo pigro per truccare un match. L’ho investito con la forza di tutti i miei novantatré chili, e la gente odia riconoscermi questo merito».580
Una volta appurato che il pugno era vero, bisognava solo capire se Liston fosse caduto apposta o, una volta giù, avesse deciso di restarci – perché glielo aveva detto la mafia, perché la Nation of Islam lo aveva minacciato, perché era malato o perché non poteva vincere e non desiderava nemmeno più provarci. Pur avendo più di un sospetto, l’Fbi non trovò nessuna prova che avvalorasse la tesi di una combine.581
Eppure, anche la moglie di Sonny era perplessa.
«Penso che abbia regalato quel secondo incontro» avrebbe raccontato trentacinque anni dopo a un giornalista televisivo. «Non so se sia stato pagato, se ha ricevuto dei soldi per perdere io non li ho visti. Non lo so. Non so com’è andata. Ma ritengo che l’abbia davvero regalato. È così che la penso. E gliel’ho anche spiattellato in faccia».582
Geraldine disse al marito che a suo parere aveva perso di proposito. Ma lui negò.
«Rispose di no, aggiungendo: “Si vince e si perde”. E io gli dissi: “Al primo round?”».
569. So Hard to Be Righteous, «The Miami Herald», 4 aprile 1965.
570. A Birthday for Sonny Liston, ThisWeekScience.com, http://www.thesweetscience.com/news/articles-frontpage/15175-a-birth day-for-sonny-liston.
571. Still Hurt and Lost, art. cit.
572. Trascrizione dell’intervista a Geraldine Liston, Espn Classic, 2 maggio 2001.
573. Remnick, King of the World, cit., p. 254 [trad. it. cit., p. 259].
574. Loc. cit.
575. Cassius to Win a Thriller, «Sports Illustrated», 24 maggio 1965.
576. Remnick, King of the World, cit., p. 261 [trad. it. cit., p. 266].
577. A Quick, Hard Right and a Needless Storm of Protest, «Sports Illustrated», 7 giugno 1965.
578. Eyes Have It, Says Doctor, «The Louisville Courier-Journal», 28 maggio 1965.
579. A Quick, Hard Right and a Needless Storm of Protest, art. cit.
580. No Fix, «The Louisville Courier-Journal», 28 maggio 1965.
581. Promemoria dell’Fbi, 30 luglio 1965, Fbi Vault.
582. Intervista a Geraldine Liston, Espn Classic.