Muhammad Ali allungò le sue lunghe gambe e si spaparanzò all’indietro nella sedia da giardino canticchiando un ritornello di Bob Dylan: «The answer is blowin’ in the wind».648 Era il 17 febbraio del 1966, e la domanda che gli ronzava in testa era: perché un ufficio di leva di Louisville aveva ribaltato il proprio giudizio e lo aveva classificato nella categoria 1-A, rendendolo di colpo idoneo al servizio militare?
«Perché io?» chiese mettendosi comodo davanti alla sua casa in cemento grigio di Miami, chiacchierando con reporter, vicini e amici. «Non me ne capacito. Come hanno potuto farmi questo, a me, al campione del mondo dei massimi?».
Due anni prima, quando ancora si chiamava Cassius Clay, non aveva passato l’esame psicoattitudinale per l’arruolamento. Da allora, la guerra in Vietnam si era intensificata. Dal 1964 al 1965, il numero di soldati americani morti nel paese del Sud-Est asiatico era aumentato di nove volte, da circa duecento a millenovecento. Nel 1966 il bilancio delle vittime sarebbe triplicato, arrivando a seimila.649 Sempre più giovani americani venivano precettati, e molti di coloro che in precedenza erano stati esentati erano oggetto di una nuova valutazione. Più aumentava il numero dei caduti, più si acuiva la frattura in seno all’opinione pubblica. Molti pensavano che se il Vietnam del Sud fosse finito in mano comunista, anche il resto dell’area avrebbe presto subìto lo stesso destino, mentre altri sostenevano che l’America non avesse alcun motivo per combattere in una nazione che perfino il nuovo presidente, Lyndon B. Johnson, nelle conversazioni private qualificava come un «merdoso paese di quarta categoria».
Ali ripeteva le sue rimostranze a un giornalista televisivo dopo l’altro. Dichiarò che tutti sapevano che la leva era manipolata per proteggere i bianchi ricchi, mentre i poveri e gli afroamericani venivano reclutati in quantità sproporzionata. I membri della Nation of Islam che giravano per casa lo avvisavano che sarebbe stato subito mandato in prima linea, e che i sergenti bianchi lo avrebbero torturato.650
«Come possono riclassificarmi 1-A?» domandava. «Come possono farlo senza sottopormi a un altro test per verificare se sono più o meno sveglio dell’ultima volta?».651
Il giornalista Bob Halloran di Cbs Evening News arrivò accompagnato da un cameraman. Entrò, staccò il telefono del pugile a sua insaputa affinché nessuno potesse interromperli e poi cominciò la sua intervista, chiedendo ad Ali un commento sulla decisione dell’ufficio di leva.652 Ali replicò con una raffica di parole: «Sissignore, per me è stata una vera sorpresa. L’altra volta non sono stato io a valutarmi 1-Y. È stato il governo a esaminarmi, a dichiarare che non ero idoneo. Ora sono diventato 1-A, ma non ricordo di essere stato chiamato per sottopormi a un altro test. Due tizi si sono riuniti e hanno stabilito che sono un 1-A senza sapere se sono come l’altra volta o meglio. Insomma, dovevano prendere trenta uomini di Louisville, Kentucky… Scegliere il campione dei massimi del mondo intero… Avrebbero potuto chiamare un sacco di giocatori di baseball. Avrebbero potuto chiamare un sacco di giocatori di football. Avrebbero potuto chiamare un sacco di giovani… che sono stati sottoposti al test e che sono 1-A. Mentre io, l’ultima volta che mi hanno valutato non lo ero. All’improvviso sembrano impazienti di spedirmi nell’esercito e di mettermi nella categoria 1-A, al posto di altri trenta o quaranta che avrebbero potuto scegliere, e a prendere questa decisione sono stati due tizi. E c’è un’altra cosa che non capisco, che non capisco davvero, perché me, un uomo che paga lo stipendio di almeno cinquantamila soldati in Vietnam, un uomo da cui il governo prende sei milioni di dollari l’anno per uno o due match, uno che può pagare tre bombardieri con un paio di incontri».653
Quella sera, Ali si mise davanti al televisore con gli amici per guardare il telegiornale della sera presentato da Walter Cronkite.654 Dopo un servizio su una sommossa in un istituto penale femminile di Indianapolis («La fine del mondo!» gridò qualcuno dei presenti in direzione del televisore) Cronkite annunciò la storia attesa da Ali.
«Oggi a Louisville…» cominciò il giornalista.
«Ssshhh!» fece il pugile.
Cronkite continuò: «…il campione mondiale dei massimi Cassius Clay è stato rivalutato come 1-A dall’ufficio di leva, il che lo rende immediatamente idoneo al servizio militare».
Poi sullo schermo apparve Ali, con le sue dichiarazioni focose, che si lamentava di essere stato riclassificato. Quando la sua tirata finì, nel televisore in bianco e nero ricomparve Cronkite, che precisò che per il momento non c’era nulla che facesse pensare che Clay potesse essere precettato o che il match del 29 marzo contro Ernie Terrell potesse essere cancellato.
«Non era male, no?» chiese Ali ai presenti nella stanza.
La risposta affermativa giunse di getto, accompagnata da una pubblicità della margarina Chiffon.
«Lyndon Johnson avrà ascoltato le mie parole?» domandò. «Lo stava guardando?».
«Certo che lo stava guardando!» urlò qualcuno.
«Lyndon Johnson lo guarda? Con due incontri, pago tre bombardieri!».
Sebbene non si sappia se il presidente abbia ascoltato i commenti di Ali, in compenso lo fecero milioni di suoi compatrioti. Il conflitto in Vietnam suscitava dibattiti accesi, ma nel 1966 la maggioranza degli americani sosteneva ancora gli sforzi di combattere il comunismo nel Sud-Est asiatico. Per i telespettatori e i lettori di giornali che vennero a sapere che Ali non intendeva prestare servizio nell’esercito, quella era l’ennesima prova del suo egoismo e del suo disprezzo per il proprio paese. Il pugile non affermò mai di essere contro la guerra per motivi politici, filosofici o religiosi, ma solo di non volerci andare, che l’ufficio di coscrizione avrebbe dovuto essere in grado di trovare qualcun altro che lo facesse al suo posto e che non gli importava se la nazione usava i soldi delle sue tasse per comprare cacciabombardieri che uccidevano i nemici vietnamiti.
Due giorni più tardi affinò le sue argomentazioni durante un’intervista telefonica con un cronista del «Chicago Daily News»: «Sono un membro dei Black Muslims, e noi non partiamo in guerra a meno che a dichiararla non sia Allah. Non ho nulla di personale contro quei vietcong». Prima di aggiungere: «So solo che sono considerati i neri dell’Asia, e io non mi batto contro i neri. Non sono mai stato lì e non ho nulla contro di loro».655 Forse era venuto a sapere che lo Student Nonviolent Coordinating Committee aveva preso posizione contro la guerra, sostenendo che fosse ingiusto spedire dei neri in Vietnam per combattere per la democrazia quando nel loro stesso paese non erano liberi. Ali dichiarò di aver visto bianchi bruciare le cartoline dell’esercito, e di aver scoperto che alcuni membri del Congresso si opponevano al conflitto vietnamita. «Se anche loro sono contro la guerra… perché mai noi musulmani dovremmo essere favorevoli?».
Ora stava utilizzando un argomento morale e religioso, probabilmente ispirato dal suo mentore, Elijah Muhammad, che aveva passato quattro anni in carcere durante la Seconda guerra mondiale per essersi rifiutato di combattere. Sam Saxon, che ormai aveva preso il nome di Abdul Rahman, affermava di essere stato lui a suggerire ad Ali le memorabili parole «non ho nulla di personale contro i vietcong». In seguito, quella frase attribuita generalmente ad Ali avrebbe fatto il paio con un’altra, che sarebbe comparsa su magliette e poster insieme all’immagine del pugile, diventando una delle citazioni più potenti mai attribuite a uno sportivo americano: «Nessun vietcong mi ha mai chiamato negro». Che abbia pronunciato la prima, o almeno qualcosa di simile, è quasi assodato, ma non c’è alcuna prova sul fatto che abbia detto la seconda, se non diversi anni dopo, durante le riprese di un film. Come avrebbe rimarcato Stefan Fatsis in un saggio del 2016, i dimostranti pacifisti l’avevano utilizzata ben prima che il pugile si esprimesse sulla guerra.656
Tuttavia, il suo rifiuto di accettare i vietcong come nemici evidenziava che le sue opinioni stavano prendendo forma. Il suo nemico non era nel Sud-Est asiatico, ma era il razzismo americano.
Quando ne riconobbe la risonanza, Ali iniziò a ripetere quella frase: «Non ho nulla di personale contro i vietcong». Sarebbe diventata la più memorabile di una vita piena di frasi memorabili. Era arguta, ribelle. Che Ali ne fosse convinto o meno contava poco, perché era fondamentalmente vera. Da solo – senza l’aiuto degli intellettuali o dei leader religiosi del paese – aveva preso una posizione che, paradossalmente, era molto americana. Come Henry David Thoreau, che si era rifiutato di pagare tasse che contribuivano a finanziare la schiavitù e la guerra messico-statunitense, come i neri che si rifiutavano di alzarsi dai banconi dei ristoranti riservati ai bianchi nel Sud del paese, Ali si schierava per la disobbedienza civile e la libertà.
Il 28 febbraio 1966, undici giorni dopo essere stato informato del suo nuovo status rispetto all’arruolamento, Ali inviò al Selective System una documentazione in cui si dichiarava obiettore di coscienza. Domandava di essere esentato per motivi religiosi dalla leva, che fosse sul fronte o nelle retrovie con funzioni impiegatizie. Citava Elijah Muhammad come la sua guida principale in ambito religioso e sosteneva di credere all’uso della forza «solo nello sport e come autodifesa» e, a riprova del suo credo, menzionava il divorzio «dall’amata moglie perché non voleva conformarsi alla mia fede musulmana».657
Il modulo fu per buona parte completato da un avvocato newyorchese, Edward W. Jackson, che precisava che il pugile gli aveva chiesto di registrare le sue risposte. Ma sulla prima pagina, dov’era richiesta una firma, fu lo stesso Ali a scrivere: «Nome da schiavo: Cassius M Clay Jr. VERO NOME: Muhammad Ali».658
Com’era prevedibile, il suo rifiuto di combattere per il proprio paese gli attirò ancora più odio.
Jim Murray del «Los Angeles Times» lo definì beffardamente «il più grande patriota americano dai tempi di Benedict Arnold, il candidato numero uno alla Medaglia del Congresso per la prudenza».659 Il giornalista aveva anche un suggerimento per il pugile, che continuava a chiamare Cassius Clay: «Va’ a trovare una madre in Iowa, o a Harlem se preferisci. Lei capirà di sicuro. Dille che hai la possibilità di guadagnare una montagna di soldi. Dille che hai due Cadillac, un’ex moglie, e un’intera religione da sostenere… Dille di mandare invece suo figlio. Hai dichiarato di non avere nulla contro i vietcong. Beh, su questo hai ragione, Cash. Perché partire in guerra per uno schifoso principio? Dopotutto, possiamo vederla così: mezzo milione di uomini si è fatto uccidere durante la guerra di Secessione per combattere la schiavitù. Scommetto che la metà di loro non sapeva nemmeno di cosa si trattasse… Quei poveri stupidi avrebbero dovuto bruciare le loro cartoline. O assumere un avvocato, come hai fatto tu. Beh, puoi anche vederla così: se non fossero morti per liberare la tua gente, una marea di avvocati sarebbe senza lavoro. Mio Dio! Forse lo stesso Elijah Muhammad si sarebbe ritrovato al verde. Stai sostenendo l’intera industria di fez». Altri giornalisti mettevano in dubbio l’intelligenza di Ali e affermavano che non comprendesse le questioni e i princìpi in ballo. Per alcuni di loro il suo rifiuto di essere arruolato era soltanto un modo per promuovere l’incontro con Ernie Terrell. E diversi altri lo ritenevano poco più che una marionetta di Elijah Muhammad, aggiungendo che sarebbe partito per il militare se solo quest’ultimo glielo avesse ordinato.
A Chicago, dove avrebbe dovuto combattere contro Terrell, la stampa locale chiese la cancellazione del match. Per gli editorialisti del «Chicago’s American», il nocciolo della questione era la serie di pretesti poco convincenti usati per rifiutare la coscrizione. Dal canto suo, il «Tribune» non voleva vedere i soldi dell’incontro affluire nella Nation of Islam attraverso la Main Bout Inc. Ben presto, gruppi di veterani di guerra e politici locali si unirono alla richiesta di annullamento del match. A un certo punto, Ali offrì delle scuse svogliate alla United Press International: «Se avessi saputo che le mie parole su temi politici sarebbero state prese sul serio… non avrei mai aperto bocca».660
Lo staff del pugile richiese un’audizione formale davanti all’Illinois State Athletic Commission. Bob Arum, giunto da Miami insieme a lui, pensava che il combattimento potesse essere salvato se il pugile avesse usato un po’ di tatto per manifestare le proprie posizioni, ma prima dell’audizione Ali fece visita a Elijah Muhammad, la cui reazione rabbiosa di fronte alla possibilità di nuove scuse fece colpo sul giovane discepolo.661 Davanti alla commissione Ali espresse il suo rimorso per coloro che avrebbero potuto subire dei danni economici dalla cancellazione del match e per i politici che si erano ritrovati in difficoltà per le sue dichiarazioni, ma quando un membro della commissione gli domandò se si pentiva dei suoi commenti antipatriottici, rispose di no, aggiungendo: «Non mi scuso perché non penso di doverlo fare». Circa mezz’ora dopo quelle parole, il procuratore generale dell’Illinois William Clark, invocando dei vizi formali nelle procedure di concessione delle licenze, decretò il match illegale. Come avrebbe detto Arum: «Ci avevano sbattuto fuori da Chicago».662
Che fosse ispirato dalla religione, dalla politica o dalla sua devozione per Elijah Muhammad, parecchi dei suoi connazionali ne avevano sottostimato l’impegno. La sua decisione fomentò la rabbia dei bianchi, per cui il campione dei massimi avrebbe dovuto fungere da modello e da simbolo della forza americana. Meno ovvio fu il suo effetto sulla comunità nera, in particolare sui giovani, tra i quali Ali stava emergendo come una possente icona. Per molti di loro, specie i più ribelli, la sua religione non contava. L’aspetto più importante era che resistesse all’autorità bianca e si schierasse apertamente contro il razzismo. L’aveva dimostrato davanti all’Illinois State Athletic Commission e sul ring contro Floyd Patterson. Come avrebbe scritto Eldridge Cleaver nella sua autobiografia del 1968: «Se la Baia dei Porci può essere vista come un destro preciso, sferrato alla mascella psicologica dell’America bianca, allora Las Vegas fu un perfetto gancio sinistro allo stomaco».663 Un esempio dell’impatto crescente di Ali: nel 1965, a Lowndes, Alabama, lo Student Nonviolent Coordinating Committee scelse l’immagine di una pantera nera come logo e la associò a uno slogan ispirato al campione: «Noi siamo i migliori». Di colpo, l’affermazione di un ego diventava una chiamata alle armi. Huey Newton, cofondatore delle Black Panthers, dichiarò che pur non avendo alcun interesse per Dio o Allah, i discorsi di Malcolm X e Elijah Muhammad erano stati cruciali nel suo processo di politicizzazione.
Nel corso di un’intervista apparsa nel 1970 su «Black Scholar», Ali avrebbe descritto la sua crescente influenza culturale: «Ero determinato a essere l’unico negro che i bianchi non sarebbero stati in grado di avere. Andate avanti e impegnatevi in una causa. E se non si tratta dei Black Muslims, unitevi almeno alle Black Panthers. Unitevi a qualcosa di cattivo».664
Adesso che il match contro Terrell era sfumato, Ali doveva trovarsi in tutta fretta un nuovo avversario. Era campione da due anni, e in quell’arco di tempo aveva combattuto soltanto un paio di volte. Era ora di fare soldi, di arricchirsi il più velocemente possibile, specie considerando che l’esercito degli Stati Uniti voleva fargli indossare una divisa e renderlo disoccupato. Il suo team adesso doveva implorare per un accordo. Dopo essere stato rifiutato dall’Illinois ed essere stato considerato persona non grata da diverse altre località, Ali e i suoi manager rivolsero le proprie attenzioni al Canada e annunciarono un match contro George Chuvalo per il 29 marzo al Maple Leaf Gardens di Toronto.
Il fatto di essere costretto a lasciare il suo paese, offrì ad Ali l’ennesima dimostrazione della sua importanza. «Agli occhi del mondo libero, la maniera in cui sono stato trattato è ingiusta. Tutto ciò mi rende ancora più grande. Ho sempre saputo di avere una missione. Ebbene, questo destino sta prendendo forma. Per essere grandi bisogna soffrire, bisogna pagarne il prezzo».665
Alcuni membri del Louisville Sponsoring Group cercarono di persuaderlo a raggiungere un compromesso sul servizio militare. Si recarono a riscuotere favori e ricevettero da uomini ben piazzati nel governo la rassicurazione che se Ali avesse accettato di servire il proprio paese, sarebbe stato tenuto lontano dal campo di battaglia. Con ogni probabilità, si sarebbe dovuto prestare a una serie di esibizioni per i soldati, esattamente come aveva fatto Joe Louis durante la Seconda guerra mondiale. Gordon Davidson, rappresentante del gruppo, volò a New York per sottoporre l’offerta al suo assistito. Lo considerava un ragazzo a posto, ma anche parecchio impressionabile. «Elijah Muhammad aveva instillato in lui una quantità considerevole di odio» disse. «Ali non credeva a tutta quella roba».666 Il legale sperava di fargli capire quanto aveva da perdere rifiutando l’arruolamento. Quando arrivò nella suite dello Sheraton di Manhattan, il giovane era circondato da decine di musulmani, tutti con l’abito nero. «Sul tavolo c’erano contratti per oltre un milione di dollari di svariate società, tra cui la Coca-Cola» ricordava l’avvocato. «Gli dissi: rischi che volino via tutti dalla finestra».
Ma Ali si mostrò irremovibile.
«La conversazione durò due ore» raccontava Davidson. «E alla fine mi disse: “Voglio ringraziarti perché so che avete a cuore i miei interessi”. Si mostrò molto gentile e riconoscente».
Chuvalo, come Rocky Marciano, apparteneva a quella categoria di pugili tutto orgoglio e attributi, un duro disposto a incassare un pugno per ogni colpo mandato a segno. Secondo Arum, che stava promuovendo il match e utilizzando la sua carta di credito personale per coprire le spese, non fu un evento facile da vendere.667 La stazza e il volto malconcio del canadese Chuvalo avrebbero fatto tentennare i più malintenzionati in una rissa da bar, ma era considerato un avversario troppo modesto per Ali. Nel tentativo di destare interesse per quella sfida senza appeal, quest’ultimo lo definì uno scontro internazionale che contrapponeva il campione americano e quello canadese e fece del suo meglio per dare l’impressione di temere la sconfitta: sosteneva che nelle sue vesti di «guerriero nella lotta per la libertà» negli ultimi mesi era stato troppo occupato per allenarsi a dovere.668 E quando Jimmy Ellis, uno dei suoi sparring partner, lo mandò al tappeto durante una seduta di guanti, i giornalisti sportivi conclusero che il detentore del titolo stesse dicendo la verità.669
Chuvalo aveva ventotto anni e un record di trentaquattro vittorie, undici sconfitte e due pari, ma era alto e grosso, e non era mai finito ko. Nel turbinio di dichiarazioni alla stampa prima dell’incontro, affermò che non sarebbe andato giù così facilmente come Liston. «Cazzo, mio figlio sarebbe stato in grado di incassare meglio quel colpo» dichiarò parlando del cosiddetto pugno fantasma scagliato a Lewiston. Un giornalista gli chiese se si riferisse al figlio maggiore, che aveva sei anni. «No, no» lo corresse Chuvalo. «Intendo Jesse, il più piccolo, quello di due anni. Quello più grande si offenderebbe se affermassi che non è un miglior incassatore di Liston».670
Il gong suonò. Ali usò il jab, e lo sfidante glielo lasciò fare. E ogni volta che il campione cessava di azionare il jab, Chuvalo accorciava e gli martellava la cassa toracica. A un certo punto, durante il primo round, il canadese mandò a segno quattordici ganci destri consecutivi sempre nello stesso punto, al fianco destro di Ali, prima che questi si allontanasse e replicasse.
«Più forte! Più forte» reclamava Ali.671
Nella seconda ripresa, il campione sollevò le braccia e rimase immobile, invitando il rivale a colpirlo di nuovo allo stomaco. Chuvalo eseguì.
«È l’occasione della vita per Chuvalo» dichiarò l’annunciatore a bordo ring. Nei primi due round fu lo sfidante a sferrare più pugni, centoventi contro novantadue.672 Un fatto di per sé già sorprendente. Ma ancor più sorprendente era il vantaggio dello sfidante nel numero di pugni pesanti sferrati, centosette contro trenta.
Il pugile canadese mise a nudo il punto debole che il leggendario allenatore Eddie Futch aveva notato in Ali: il campione non aveva un gran colpo d’incontro, e non lavorava mai gli avversari alla figura. Inoltre, a suo parere aveva una difesa «monolitica», perché si fondava interamente sulla sua abilità di arretrare, e non di schivare o deviare i colpi.673 A detta sua, compensava «con la velocità dei suoi riflessi e il suo gran cuore», parole che nel linguaggio pugilistico designano la capacità di restare cosciente mentre ti tempestano la testa di pugni. E sia Chuvalo che Ali ne erano provvisti.
Più di qualunque altro pugile incontrato fino a quel momento, Chuvalo costrinse il campione a impegnarsi al massimo, a rinunciare ai soliti espedienti e ad attingere da tutto il suo repertorio, alternando jab e ganci, e colpendo fino a ritrovarsi le braccia sfinite e le mani doloranti.
Nel primo match contro Liston, Ali aveva mandato a bersaglio novantacinque pugni. Nella rivincita gliene erano bastati quattro. Contro Patterson, aveva portato a segno duecentodieci pugni in dodici round. E ora, contro il canadese, aveva sferrato 474 colpi subendone 335 – di cui più di trecento pesanti. Non ne aveva mai incassati così tanti. «Nella mia testa» avrebbe raccontato un giorno Chuvalo «ero speciale… Mi dicevo in continuazione che non mi potevano far male. La parte folle di me si sentiva indistruttibile». Dopo il quarto round, Ali finì forse per pensare che il suo avversario fosse davvero indistruttibile, o almeno che credesse realmente nella sua indistruttibilità. Al termine dell’incontro, il campione avrebbe dichiarato che la testa del rivale «è stata la cosa più dura che abbia mai preso a pugni».674
Nel tentativo di preservarsi, Ali si mise a girare in tondo per il ring. Combatteva come un uomo che si prepara a una lunga serata e che è consapevole che saranno i giudici – e non una ferita al volto o una sventola da ko – a decidere probabilmente l’esito dell’incontro. Più di qualsiasi altro avversario precedente, Chuvalo aveva rivelato il modo in cui Ali poteva essere sconfitto: bisognava essere pronti a una nottata faticosa, stare al centro del ring, lavorare alla figura e martellare senza sosta. Tempestò Ali di colpi, obbligandolo per la prima volta ad arrivare alla quindicesima ripresa. Ma, con decisione unanime, i giudici assegnarono la vittoria al campione.
A fine serata, Chuvalo aveva il viso malconcio ma lo spirito intatto. Anni dopo avrebbe ricordato che Ali dopo l’incontro era dovuto andare in ospedale perché «pisciava sangue» a causa dei molteplici colpi subìti ai reni.
«Io?» avrebbe detto Chuvalo. «Io sono andato a ballare con mia moglie».675
648. Fighter Charges Board with Bias, «The New York Times», 18 febbraio 1966.
649. Statistical Information about Casualties of the Vietnam War, 29 aprile 2008, National Archives, http://www.archives.gov/research/military/vietnam-war/casualtystatistics.html#date.
650. Robert Lipsyte, An Accidental Sportswriter, Ecco, New York, 2012, p. 73.
651. Fighter Charges Board with Bias, art. cit.
652. Interviste dell’autore a Bob Halloran e Bob Arum, 17 novembre 2015.
653. Intervista a Muhammad Ali, s.d., registrazione audio, Jack Olsen Papers.
654. Ibid.
655. Clay Wants KO in ‘Flight of Century’, «The Tucson Daily Citizen», 28 marzo 1966.
656. Stefan Fatsis, No Viet Cong Ever Called Me Nigger, «Slate», 8 giugno 2016, http://www.slate.com/articles/sports/sports_nut/2016/06/did_muhammad_ali_ever_say_no_viet_cong_ever_called_me_ nigger.html.
657. Selective Service System, Special Form for Conscientious Objector, 28 febbraio 1966, National Archives and Records Administration.
658. Ibid.
659. Jim Murray, «The New Journal» (Mansfield, OH), 23 febbraio 1966.
660. Clay Not on March Draft List, «The Kokomo (IN) Morning Times», 22 febbraio 1966.
661. Report dell’Fbi, 16 gennaio 1967, Herbert Muhammad File, Malcolm X Manning Marable Collection.
662. Intervista dell’autore a Bob Arum, 17 novembre 2015.
663. Cleaver, op. cit., p.118 [trad. it. cit., p.104].
664. The Black Scholar Interviews: Muhammad Ali, in The Muhammad Ali Reader, cit., p. 89.
665. Clay Says He Is a Jet Plane and All the Rest Are Prop Jobs, «The New York Times», 25 marzo 1966.
666. Intervista dell’autore a Gordon B. Davidson, 18 aprile 2014.
667. Intervista dell’autore a Bob Arum, 17 novembre 2015.
668. Showdown with a Punching Bag, «Sports Illustrated», 28 marzo 1966.
669. Clay Knocked Down by Sparring Partner, «The New York Times», 20 marzo 1966.
670. Historicist: The Heavyweight Showdown, «Torontoist», 23 marzo 2013, http://torontoist.com/2013/03/historicist-the-heavyweight-showdown.
671. The Battle of Toronto, «The New York Times», 30 marzo 1966.
672. Pugni contati per l’autore da CompuBox Inc.
673. Intervista di Ron Fried a Eddie Futch, s.d., per gentile concessione di Ron Fried.
674. Champion Hails His Rugged Rival, «The New York Times», 30 marzo 1966.
675. George Chuvalo, Chuvalo, HarperCollins, Toronto, 2013, p. 176.