23. Contro le furie

Nel 1967 Muhammad Ali aveva venticinque anni, era il campione mondiale dei massimi, lo sportivo di gran lunga più famoso al mondo, il musulmano più noto d’America e il detrattore più visibile della guerra in Vietnam. Continuava a essere ossessionato da auto e case, e non vedeva l’ora di trovarsi una nuova moglie, ma l’argomento di cui parlava di più era la razza. La razza era la corrente elettrica che scorreva nel suo corpo.

«Immagina una casa in fiamme» disse a Jack Olsen, il reporter bianco di «Sports Illustrated». «Stai dormendo accanto al tuo compagno». Ali imitò il suono di qualcuno che russa. «Apri un occhio e ti accorgi che la casa sta bruciando. Il tuo compagno sta ancora dormendo». Oltre a russare, adesso stava anche fischiando. «Vedi la lava bollente e le travi ardenti pronte a crollare sul tuo compagno, e salti fuori dal letto. Esci di corsa all’aperto senza svegliarlo! Quando sei fuori, esclami [strinse le mani e alzò gli occhi al cielo]: “Oh mio Dio, cos’ho fatto!”. Sono stato così egoista e avido, ho pensato solo a me e ho lasciato il mio compagno dentro. Oh [torcendosi le mani] ormai sarà morto, la casa è crollata».691

Si fermò in maniera teatrale.

«E poi lui esce appena in tempo e ti guarda negli occhi! Lì, ti accorgi che dovrebbe ucciderti. Tu sai benissimo cosa faresti a qualcuno che ti ha abbandonato in una casa in fiamme… E lui dice: “Perché non mi hai svegliato? Perché mi hai lasciato in quella casa? [Gridando] La casa stava andando a fuoco! Mi avresti lasciato bruciare…!”. Beh, ecco come sono i bianchi americani. La casa brucia ormai da trecentodieci anni, e hanno lasciato dormire i negri. I negri sono stati linciati, uccisi, violentati, arsi vivi, trascinati per le città attaccati alle auto con le catene, mentre veniva versato alcol e trementina sulle loro ferite. Ecco perché oggi i negri hanno così paura. Glielo ficcano in testa da quando sono neonati. Pensaci! Ventidue milioni di neri in America, che hanno sofferto, partecipato alle guerre, che hanno subìto un trattamento che un essere umano non riesce nemmeno a immaginare, in giro per le strade americane… Affamati e senza nulla da mangiare, in giro per le strade senza scarpe ai piedi, che vivono di aiuti, di carità, in ospizi per poveri, ventidue milioni di persone che hanno servito fedelmente l’America, che hanno lavorato e che amano ancora il loro nemico, vengono tuttora trattati come cani e maltrattati».

Erano parole piene di forza e preveggenza. Ma, al tempo stesso, le sue opinioni potevano rivelarsi inafferrabili, e perfino contraddittorie. Non era questo a renderlo diverso. A renderlo diverso era il fatto che lo ascoltassero moltissime persone. I giornalisti ne trascrivevano le osservazioni. I discepoli di Elijah Muhammad seguivano le sue conferenze più volte al mese nelle moschee di tutta la nazione. Gli informatori dell’Fbi prendevano appunti e inviavano memorandum al quartier generale di Washington.

«Se l’integrazione assoluta rendesse felici sia bianchi che neri, sarei assolutamente a favore dell’integrazione» disse una volta a un giornalista. «Se a renderli felici fosse invece la separazione assoluta, ognuno per conto proprio, farei quello. Qualunque cosa renda le persone felici, affinché smettano di farsi sparare addosso, di nascondersi tra i cespugli, di farsi esplodere, di spararsi gli uni con gli altri e di rivoltarsi. Ma non penso che l’integrazione assoluta possa funzionare».692

I pugili sono ribelli di professione. Sono autorizzati a esercitare una violenza che ad altri non è concessa. Sono autorizzati a essere incivili. E Ali stava semplicemente allargando questo diritto al di fuori del ring. Voleva fare tutto ciò che diceva e rendere ogni sua azione una protesta. Appena ne aveva la possibilità, dichiarava che nessuno lo avrebbe mai addomesticato. Avrebbe combattuto e si sarebbe opposto, lo avrebbe detto e fatto, subito, tutte le volte. Sarebbe stato il campione ribelle dei massimi. Conduceva una vita superficiale, come la maggior parte di noi, costruendosi una carriera da intrattenitore, sperperando i suoi soldi per acquistare più auto di quante ne potesse guidare, eppure un preponderante spirito di ribellione lo stava guidando e forse redimendo. Ecco perché il suo rifiuto di accettare l’arruolamento attirava una tale attenzione e suscitava una simile rabbia, perché tutta la sua esistenza offendeva la maggioranza degli americani bianchi: il colore della sua pelle, la sua linguaccia, la sua religione e, ora, la sua mancanza di patriottismo. Per la prima volta in oltre quarant’anni, «The Ring», la bibbia della boxe, si rifiutò di nominare il pugile dell’anno, spiegando che Ali (nella rivista chiamato ancora Cassius Clay) «non può essere additato come un esempio da seguire per i giovani del paese».693

Le critiche non lo sfiorarono mai, forse perché non si aspettava che l’America potesse essere benevola nei suoi riguardi. A suo parere il problema risaliva alla schiavitù: «Beh, non siamo stati portati qui per essere dei cittadini dell’America bianca. La loro intenzione era che lavorassimo per loro – e che ci andasse pure bene. Ci facevano accoppiare, più eravamo e meglio era. Il grande schiavo nero era chiamato il maschio da monta. “Questo schiavo negro è in grado di procreare quindici bambini al mese!”. E appena nati, i piccoli venivano separati dalle madri. Così fabbricavano i vostri “negri”. Erano schiavi mentali. Ecco le persone che abbiamo ancora oggi in America».694 Tenendo conto di tutto ciò, chiedeva, come poteva un nero aspettarsi di essere trattato in maniera equa? «Quando riponete la vostra fiducia e il vostro futuro nelle mani di un altro popolo, state creando le condizioni per essere delusi e ingannati. Ma io non posso essere deluso. Non mi potete deludere se non vi chiedo nulla».

Ali stava semplicemente esprimendo un sentimento condiviso da numerosi afroamericani: non avrebbero mai ottenuto un accordo equo, perché un accordo equo non era possibile nelle condizioni che erano state imposte loro da lungo tempo. Perfino i neri che non si interessavano alla boxe e che non sapevano niente di leggi avevano la netta sensazione che Ali fosse vittima di pregiudizi. Ma fu la sua risposta, e non il suo status di vittima, a renderlo un eroe. Fu il suo rifiuto di cedere anche di fronte alle minacce di governo e autorità pugilistiche. «Un metro e ottantanove di altezza, cento chili di peso, bello come un adone, Muhammad Ali era un eroe nero in un paesaggio americano che coltivava ben pochi eroi neri» scrisse la giornalista Jill Nelson. «Eloquente, simpatico, straordinariamente virile, Ali non si lasciava tiranneggiare dai bianchi ed è sopravvissuto per raccontarlo, era il sogno di tutte le donne nere».695

La sua presa di posizione sulla guerra del Vietnam lo rese un simbolo di protesta contro un conflitto in cui il tasso di morti afroamericani era incredibilmente sproporzionato: rappresentavano il ventidue per cento dei decessi sul campo di battaglia, quando invece erano solo il dieci per cento della popolazione totale. Perché gli Stati Uniti stavano spendendo denaro e sprecando vite in nome della libertà in una terra lontana, mentre tra i propri confini continuavano a opporre resistenza alla causa della libertà? E perché gli interessi dei neri americani sembravano divergere da quelli del resto della nazione? Ali sollevò quelle questioni in un periodo in cui l’ostilità al conflitto nel Sud-Est asiatico si allargava a macchia d’olio.

Martin Luther King aveva iniziato a schierarsi contro il coinvolgimento americano in Vietnam, sebbene i membri del consiglio di amministrazione della Southern Christian Leadership Conference (Sclc) temessero che le sue parole sarebbero solo servite a irritare il presidente Johnson e a ostacolare il movimento per i diritti civili.696 King stava prendendo in considerazione un brusco cambiamento di direzione per la Sclc. Dopo il fallimento della campagna del 1966 contro la segregazione degli alloggi, e in seguito alle feroci sommosse di Detroit e Newark dell’estate del 1967, il leader del movimento per i diritti civili disse che solo una «radicale chirurgia morale» avrebbe potuto salvare la società americana. Se non si fosse fatto qualcosa al più presto – per fermare la guerra, combattere la discriminazione e porre fine all’oppressione dei poveri per mano del governo – King temeva lo scoppio di una guerra razziale senza quartiere che avrebbe portato alla nascita di uno stato di polizia di stampo fascista. Quello era il motivo per cui intendeva mettersi alla testa di un movimento più radicale, e la sua opposizione al conflitto vietnamita ne sarebbe stata uno dei pilastri.

Andrew Young Jr, direttore esecutivo della Sclc, sosteneva che la presa di posizione di Ali potesse aver recitato un ruolo nella decisione del reverendo King di opporsi apertamente alla guerra. «Più o meno nello stesso momento in cui Muhammad si dichiarava obiettore di coscienza, Martin cominciava a dire: “Non posso segregare la mia coscienza”» ha ricordato Young. «Dal mio punto di vista, tra i due ci fu una sottile influenza reciproca, riguardo alla loro coscienza e alla guerra in Vietnam».697

In un editoriale, il «New York Times» annunciava che il pugile «sarebbe potuto diventare un nuovo simbolo e un elemento di coesione per la sua opposizione all’arruolamento e al conflitto vietnamita. A Harlem, il ghetto più grande del paese, ci sono segnali che indicano… che il rifiuto di Clay all’esercito può avere un notevole impatto emotivo, specie tra i giovani».698

Tom Wicker del «Times» si chiedeva cosa sarebbe successo se qualche soldato avesse imitato il suo esempio e scelto di non combattere. «Il fatto è» scrisse «che sta interpretando la disobbedienza civile nella forma più estrema, sta rifiutando di obbedire alla legge della maggioranza sulla base dei suoi convincimenti personali, pienamente consapevole delle conseguenze… Che cosa accadrebbe se tutti i giovani in età per essere precettati assumessero la stessa posizione?».699 Una risposta a quella domanda arrivò dal presidente dell’House Armed Services Committee, il quale dichiarò che se Ali, «il grande teologo del potere dei Black Muslims», avesse ottenuto un rinvio, il potere presidenziale di mobilitare l’esercito sarebbe stato minato da una marea di subdoli obiettori di coscienza.700 Anche il membro del Congresso Robert H. Michel, dell’Illinois, condannò il pugile: «Mentre migliaia dei nostri giovani migliori combattono e muoiono nella giungla vietnamita, questo campione in piena salute si sta arricchendo grazie a una serie di incontri vergognosi. A quanto pare, Cassius combatterà contro chiunque a parte i vietcong».701 Michel proseguiva affermando che Ali si considerava «il migliore… Ma sono certo che passerà alla storia come il più misero uomo a essersi laureato campione mondiale dei pesi massimi, in passato un titolo degno d’onore».702

Anche le autorità del distretto militare erano preoccupate, e dichiararono che il pugile stava complicando il loro lavoro. Allen J. Rhorer, presidente dell’ufficio di leva di Calcasieu Parish, Louisiana, scrisse una missiva al procuratore generale Ramsey Clark dicendo che i membri del suo ufficio «avrebbero preso seriamente in considerazione le dimissioni» se non fosse stata adottata «un’azione immediata e vigorosa contro» Ali.703

Il pugile sosteneva di essere un ministro del culto musulmano e che passava il novanta per cento del suo tempo a pregare e soltanto il dieci a boxare. In realtà, non ottenne mai il titolo ufficiale di ministro e non ricoprì nessun’altra carica all’interno della Nation of Islam. Anzi, secondo un memorandum dell’Fbi del 17 marzo 1966, Elijah Muhammad affermò senza mezzi termini che Ali non era un ministro. Sempre in base a quel documento, in occasione di un imminente raduno il leader dell’organizzazione disse a un adepto che il pugile sarebbe stato il benvenuto, ma che non avrebbe dovuto ricevere nessun trattamento speciale o alcun tipo di onore. «Può venire. Liberissimo di farlo. Nessuno glielo impedisce. Ma non salirà sul palco per parlare. Non è un ministro… E non prenderà la parola a meno che non sia io a chiedergli di farlo, e anche in quel caso dirà ciò che voglio».704

Ciononostante Ali continuava a definirsi ministro, e le alte sfere della Nation of Islam non lo contraddissero mai pubblicamente. L’Fbi, nel suo documento, speculava sul fatto che Elijah Muhammad gli permettesse di proclamarsi ministro «per via del suo immenso valore in termini di pubblicità».705 La Nation of Islam lo aiutò anche a trovare un avvocato newyorchese, Hayden C. Covington, che aveva già difeso con successo alcuni testimoni di Geova accusati di renitenza alla leva. Covington e la Nation of Islam raccolsero le dichiarazioni giurate di oltre quattromila persone – tra cui molti seguaci dell’organizzazione – che affermavano che Ali fosse un ministro a tempo pieno.706 Il legale chiese inoltre a Angelo Dundee di firmare un documento che confermava che per Ali la boxe era soltanto un «secondo lavoro e un passatempo» e che la sua «attività principale» era la predicazione. In una lettera al pugile, l’avvocato scrisse: «Ho detto all’Onorevole Elijah Muhammad che li combatteremo finché l’inferno gelerà e alla fine festeggeremo pattinando sul ghiaccio».707

Il primo giudice a esaminare la pratica accolse il suo status di obiettore di coscienza. Forse temendo la reazione a catena paventata da Tom Wicker sul «New York Times», la Corte d’appello del dipartimento di Giustizia respinse la raccomandazione del giudice, sostenendo che il rifiuto di Ali si basava su questioni politiche e razziali, e non su un’obiezione morale alla guerra in sé. Le alternative erano prestare servizio nell’esercito o finire in carcere. A marzo ricevette la cartolina precetto che gli ordinava di presentarsi il mese successivo all’ufficio di leva di Houston.

Mentre i legali si affaccendavano, Ali si stava preparando al genere di match che sapeva come vincere. Il 22 marzo del 1967, dopo una preparazione ridotta ai minimi termini, affrontò Zora Folley al Madison Square Garden. Il suo avversario, quasi trentaseienne e con un record di settantaquattro vittorie, sette sconfitte e quattro pari, aveva otto figli, era un veterano della guerra di Corea e uno dei personaggi più cortesi e amabili del mondo della boxe. Perfino Ali non riuscì a trovare alcun motivo per arrabbiarsi con lui. A pochi istanti dall’inizio del match, alla domanda su cosa avrebbe fatto in caso di sconfitta, il campione rispose senza esitare: «Ritirarmi. Stasera stessa».708

Quando l’incontro cominciò, Ali sembrava svogliato, come uno troppo annoiato dal suo ospite a cena per degnarsi di fare conversazione. Mandò a bersaglio soltanto due colpi nel primo round, tre nel secondo e sei nel terzo. Saltellava in giro per il ring come se il suo unico scopo fosse di bruciare calorie. Folley mise a segno qualche buon colpo, ma non abbastanza per impensierire il rivale.

Nella quarta ripresa, Ali suscitò un improvviso entusiasmo mandando giù Folley, che però si rialzò prima che l’arbitro contasse fino a dieci e replicò con alcuni dei suoi migliori fendenti della serata. Nella quinta Ali sferrò con regolarità jab ficcanti, ripetendosi anche nella sesta. Ma nella settima la musica cambiò. Il campione non si stava più annoiando. Si scagliò addosso a Folley, tirando potenti diretti destri e ganci sinistri, e non più jab. Il che però lo lasciava sguarnito, consentendo allo sfidante di ribattere con i suoi pugni più efficaci fino a quel momento. Ali accettò quella punizione come inevitabile e si buttò di nuovo in avanti. A metà del round, ruotò il busto e lasciò partire un potente destro che atterrò sulla guancia del rivale. Ali ruotò di nuovo e ripeté il colpo, che raggiunse ancora il bersaglio, e poi osservò l’attempato Folley cadere a pancia in giù, le braccia larghe sul tappeto come un ubriaco disteso su un marciapiede.

Quando il commentatore televisivo riuscì ad avvicinarlo, il campione aveva il fratello accanto a sé e il padre subito dietro. Ali sorrise: «Prima di tutto vorrei dire As-Salaam-Alaikum al nostro amato leader e maestro, l’Onorevole Elijah Muhammad, mi sento davvero benissimo. Lo ringrazio per le sue benedizioni e le sue preghiere».

«Adesso parliamo del match» intervenne il commentatore.

E così fecero. Ali, come da tradizione, dichiarò di non essersi fatto nulla. Descrisse il pugno del ko e poi invitò il padre a mettersi davanti alla telecamera. «È il migliore di tutti i tempi» dichiarò un Cash raggiante con i capelli impomatati. «E non lo dico perché si tratta di mio figlio».

Dopo essersi rialzato da terra e aver recuperato lucidità, Folley, probabilmente un giudice più imparziale, giunse alla stessa conclusione del padre di Ali. «È sveglio» disse. «È il pugile più complicato che abbia mai visto. Ha disputato ventinove match ma si comporta come se alle spalle ne avesse un centinaio. Potrebbe scrivere un manuale di boxe, e i suoi avversari dovrebbero leggerlo prima di affrontarlo. Quello che fa non lo impari con l’allenamento. I movimenti, la velocità, i pugni, e il modo in cui cambia stile ogni volta che pensi di averlo capito… ha un modo di combattere tutto suo. È avanti rispetto a tutti i pugili di oggi, per non parlare di quelli del passato, i vari Jack Dempsey, Tunney come potrebbero reggere il confronto? Louis non avrebbe alcuna possibilità, è troppo lento. E Marciano non riuscirebbe a prenderlo, e non potrebbe mai sfuggire al suo jab».709

Alla fine Ali era riuscito a ottenere quel rispetto che diceva di meritarsi da quando aveva dodici anni. Soprattutto, erano pochi i pugili credibili che potevano sfidarlo. Si parlava di una rivincita con Chuvalo o Patterson. E all’orizzonte si profilava un giovane atleta di nome Joe Frazier, medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1964 e imbattuto dopo quattordici incontri. Ma in quel momento era difficile immaginarsi qualcuno in grado di sconfiggerlo.

L’unica minaccia che incombeva su di lui era la prigione.

«Ho lasciato le rubriche sportive» disse. «Adesso sono in prima pagina. Voglio sapere quello che è giusto, ciò che sarà giudicato in maniera positiva dalla storia. Sono stato messo alla prova da Allah. Abbandono il titolo, la ricchezza, forse il mio stesso futuro. Molti grandi uomini sono stati messi alla prova per le loro convinzioni religiose. E se supero questo esame, ne uscirò più forte che mai… Voglio soltanto giustizia. La storia me la accorderà?».710

691. Learning Elijah’s Advanced Lesson in Hate, «Sports Illustrated», 2 maggio 1966.

692. My Friend Cassius, «The Louisville Courier-Journal Magazine», 31 luglio 1966.

693. Hauser con Ali, op. cit., p. 280 [trad. it. cit., p. 301].

694. The Black Scholar Interviews: Muhammad Ali, «The Black Scholar», giugno 1970.

695. The Sex Symbol, «Inside Sports», 30 novembre 1980.

696. Intervista dell’autore a Andrew Young Jr, 11 agosto 2014.

697. Ibid.

698. Cassius vs Army, «The New York Times», 30 aprile 1967.

699. Tom Wicker, In The Nation: Muhammad Ali and Dissent, «The New York Times», 2 maggio 1967.

700. Clay May Cause Draft Law Change, «The San Antonio Express», 26 agosto 1966.

701. Congressman Takes Swing at Clay’s Draft Status, «The San Antonio Express», 22 febbraio 1967.

702. Memorandum dell’Fbi, 23 febbraio 1967, Fbi Vault.

703. Allen J. Rhorer a Ramsey Clark, 9 maggio 1967, Muhammad Ali Collection, National Archives and Records Administration.

704. Memorandum dell’Fbi, inviato dalla sede di Chicago al direttore, 17 marzo 1966, Fbi Vault.

705. Ibid.

706. Hayden C. Covington a Muhammad Ali, 2 settembre 1966, collezione personale dell’autore.

707. Ibid.

708. Filmato dell’incontro tra Muhammad Ali e Zora Folley, 22 marzo 1967. Intero incontro, round 1-7 e interviste, www.youtube.com.

710. Taps for the Champ, «Sports Illustrated», 8 maggio 1967.