Quando nel 1970 Ali si trasferì a Philadelphia, acquistò la casa di un faccendiere chiamato Major Benjamin Coxson. Major era il suo nome di battesimo, ma lui lo usava come un titolo nobiliare. «The Maje», come lo chiamava la gente, possedeva autolavaggi e concessionari d’auto, anche se la fetta più consistente dei suoi guadagni proveniva da attività palesemente illegali. Vestito sempre in maniera sgargiante, corrompeva funzionari municipali, finanziava traffici di droga ed era l’intermediario tra la mafia italiana e quella nera nella cosiddetta Città dell’Amore Fraterno. Inoltre, pare che fosse anche un informatore dell’Fbi.
Ali lo aveva conosciuto nel 1968, durante una serata di raccolta fondi per la Black Coalition, un’organizzazione di quartiere che aveva Coxson e Jeremiah Shabazz nel consiglio di amministrazione. Nel 1969, un giornale aveva presentato Coxson come l’agente del pugile. Quando quest’ultimo decise di lasciare Chicago per la East Coast, dichiarò, forse scherzando: «Il Sindaco mi ha fatto venire a Philadelphia».839 Coxson gli propose di vendergli la sua casa. Si trattava di un’elegante abitazione su due piani nel quartiere chic e a prevalenza bianca di Overbrook, già arredata, con un letto rotondo nella camera da letto principale, televisore a colori in ogni stanza (inclusi i bagni), ventidue telefoni e la moquette nel garage. Ali la pagò 92.000 dollari, quasi il doppio del suo valore.
Quando i giornali riportarono che Ali si era trasferito in una residenza di lusso in un quartiere bianco di Philadelphia, alcuni studenti universitari che stavano assistendo a una sua conferenza lo contestarono, chiedendogli per quale motivo un afroamericano che si opponeva all’integrazione non avesse optato per un quartiere nero. Ali rispose con una domanda delle sue: «Volete che compri una casa nel ghetto? Perché mai dovrei voler vivere tra la spazzatura, con il rischio che un topo morda le mie figlie?».840
Nel 1970 Major Coxson non era l’unico elemento nuovo del suo entourage. Senza la sua corte abituale e una routine quotidiana, Ali era più aperto (e vulnerabile) agli sconosciuti. «Andava in bagno, incrociava qualcuno e in un attimo il tizio in questione si trasformava nel suo miglior amico» raccontava Gene Kilroy, un bianco diventato il suo responsabile commerciale – e in apparenza uno dei pochi che non puntava ad arricchirsi personalmente.841 Kilroy aveva conosciuto il pugile alle Olimpiadi di Roma. In seguito, aveva lavorato a New York alla Metro-Goldwyn-Mayer. Quando Ali dovette smettere di boxare, Kilroy lo aiutò a organizzare le conferenze e ad assicurarsi che mandasse soldi ai genitori quando veniva pagato, e ingaggiò uno studio contabile che si occupasse di versare le sue tasse. Parte del fascino del pugile risiedeva nella sua spontaneità: chiunque incontrasse gli sembrava degno di essere conosciuto, perfino dopo dieci anni di notorietà, e nonostante gran parte di quelle facce nuove si approfittasse di lui.
Un giorno, nel 1970, un insegnante bianco di Philadelphia di nome Marc Satalof propose alla moglie di partire alla ricerca della casa di Ali.842 Dopotutto, nel vicinato non c’erano molte celebrità. Trovarla si rivelò facile. A Overbrook tutti sapevano quale fosse. Quando Satalof bussò alla porta, Belinda aprì e lo invitò a entrare. Il pugile stava guardando la televisione in salotto insieme ad alcuni amici. Satalof si presentò e gli chiese se avesse voglia di visitare la sua scuola, la Strawberry Mansion Junior High, che si trovava in un quartiere nero infestato da gang nella zona nord della città. Ali accettò senza esitare, e si presentò nel giorno fissato per parlare a diversi gruppi di studenti. Quando il pugile borbottò di essere stanco, Satalof pensò che stesse suggerendo con garbo che per lui era giunta l’ora di andarsene. Ma no, non intendeva quello, voleva soltanto fare un pisolino, prima di dedicarsi al resto degli studenti. Ali propose di andare a casa di Satalof, poco lontana da lì. Mentre Ali dormiva, un vicino dell’insegnante suonò il campanello: era preoccupato, perché in pieno orario di scuola era insolito vedere la sua auto nel vialetto. Satalof gli chiese di fare silenzio, per non disturbare Ali che stava riposando nella stanza accanto. Il vicino scoppiò a ridere, e replicò che se stava tradendo la moglie non doveva preoccuparsi, perché non avrebbe detto niente a nessuno. Satalof ribadì che si trattava davvero di Muhammad Ali. A quel punto il pugile, che aveva sentito la conversazione dall’inizio, spuntò come una furia dalla camera da letto, sferrando pugni a vuoto e fingendo di essere arrabbiato. Poi, dopo aver firmato un autografo per l’amico del padrone di casa, tornò a scuola e vi rimase altre tre ore, affinché ogni studente avesse la fortuna di sentirlo e per soddisfare tutta la gente che voleva un autografo.
All’incirca nello stesso periodo, un tifoso di nome Reggie Barrett lo invitò a combattere in un match di esibizione per raccogliere fondi a favore di una squadra dilettantistica della città di Charleston, in South Carolina. La prima scelta di Barrett era stata Joe Frazier, che però aveva declinato l’invito, e così si era rivolto a Bob Arum, che gli aveva consigliato di mettersi in contatto con Chauncey Eskridge, il quale a sua volta gli aveva fatto sapere che Ali avrebbe accettato se lo Stato avesse autorizzato l’evento. Barrett aveva contattato la Abc per capire se fosse interessata a trasmettere l’incontro di Ali in South Carolina. E dopo aver ottenuto il sì del canale televisivo, aveva firmato il contratto di affitto della County Hall di Charleston, capace di accogliere quattromila spettatori.
Ali arrivò due giorni prima del match, che aveva già registrato il tutto esaurito. «Sei un cattivo fratello a organizzare questa cosa a Charleston, in South Carolina» disse il pugile cingendo le spalle di Barrett con il braccio. «Ma sei fuori di testa?».843
L’appello per la renitenza alla leva era ancora in corso. Lui non saliva sul ring da oltre due anni e mezzo, e continuava a essere profondamente impopolare tra i bianchi, specie nel Sud del paese. Quando la notizia della sua comparsata in South Carolina si diffuse, i politici fecero enormi pressioni per annullare l’incontro. Il giorno dell’arrivo di Ali a Charleston, le autorità della contea ritirarono il permesso di utilizzare la sala. Barrett a quel punto cercò un altro spazio, ma invano. Mentre il pugile si preparava ad andarsene, Barrett si offrì di pagarlo per il tempo perso, ma lui si rifiutò. Poi gli diede il suo numero di telefono e gli disse di chiamarlo se poteva essere d’aiuto. Era il classico tipo di offerta che Ali faceva di continuo. Chiamami. Vieni a trovarmi. Vieni a lavorare per me. La prossima settimana ho una conferenza all’università, ci vediamo lì. Vieni a vedere il mio prossimo incontro. Ovviamente molti accettavano i suoi inviti, perché Ali era un personaggio divertente, famoso, e perché sembrava sinceramente felice di incontrare di nuovo quegli sconosciuti quando ricomparivano quasi come per magia.
Barrett in effetti lo chiamò, e poco dopo si rimise al lavoro per cercargli un altro match. Divenne ben presto uno dei suoi consulenti per gli affari, senza prendere il posto di Herbert Muhammad o Gene Kilroy, ma integrandoli, perché nell’entourage di Ali c’era sempre posto per un elemento in più. Anni dopo, quando Barrett sarebbe stato condannato per traffico di cocaina, Ali sarebbe stato chiamato a testimoniare sulla sua buona reputazione. «Ho avuto da subito la sensazione che potesse essere un buon amico» avrebbe detto il pugile al giudice, utilizzando una formula che avrebbe potuto ripetere per una quantità sterminata di persone. «Se fossi il Ranger solitario, lui sarebbe il mio Tonto».844
Di Tonto, Ali ne aveva diversi. Harold Conrad, il promoter che si era occupato di pubblicizzare il primo incontro con Liston, contattò ventidue Stati per capire se ci fosse un governatore o un presidente di commissione sportiva abbastanza coraggioso da offrire ad Ali la possibilità di combattere. Dal canto suo, Kilroy scriveva lettere e faceva telefonate. In California, in un primo tempo la commissione sportiva sembrò propensa all’idea, ma poi il governatore Ronald Reagan rifiutò. In Nevada le autorità pugilistiche diedero il loro assenso a un match di Ali, prima che la criminalità che gestiva gli hotel della città facesse saltare il progetto. Conrad lavorò a un incontro tra Ali e Frazier in un’arena per corride di Tijuana, promettendo al dipartimento di Giustizia americano che il pugile avrebbe passato non più di sei ore fuori dai confini nazionali. Ma anche quel progetto andò in fumo. Furono prese in considerazione altre località: Detroit, Miami, perfino Boley, una piccola cittadina dell’Oklahoma di settecentoventi abitanti, tutti neri. Kilroy e l’ex giocatore professionistico di football Ed Khayat fecero pressioni su alcuni funzionari del Mississippi affinché autorizzassero l’incontro. Ad un certo punto, l’illustre avvocato Melvin Belli incoraggiò Ali a intentare una causa contro gli Stati che gli stavano negando il diritto di guadagnarsi da vivere, ma lui rifiutò.845
Quando cominciò il suo esilio dalla boxe, Bob Arum mise in piedi una nuova società, chiamata Sports Action. Ora che Ali non combatteva, Arum non aveva alcun motivo per dividere con Herbert Muhammad e John Ali gli introiti della diffusione televisiva a circuito chiuso. E con la Sports Action, non era nemmeno più obbligato a farlo. Arum chiese a uno dei suoi nuovi partner, Bob Kassel, di capire se fosse possibile organizzare un incontro tra Ali e Frazier. Kassel telefonò al suocero, che viveva a Atlanta, che lo mise in contatto con uno dei più influenti politici neri della Georgia, il senatore Leroy Johnson, amato dai suoi elettori neri e rispettato da molti legislatori bianchi per la sua attitudine a scambiarsi favori politici.
Johnson studiò la legge statale e scoprì che la Georgia non aveva né una commissione pugilistica né delle regole che si occupassero di boxe. Di conseguenza, Atlanta avrebbe potuto ospitare il match se il sindaco e il consiglio comunale avessero acconsentito, e visto che Johnson aveva contribuito all’elezione del primo cittadino e di molti consiglieri, era convinto di ottenere il loro appoggio. Kassel e Arum gli offrirono l’intero incasso della biglietteria, mentre la Sports Action si sarebbe tenuta i profitti più lucrativi della diffusione televisiva a circuito chiuso.846 Johnson suggerì ai politici locali che per Atlanta fosse un’occasione unica di mostrare a tutto il mondo di essere diventata la città socialmente più evoluta e la meno divisa dal punto di vista razziale tra le grandi metropoli americane, una città «troppo occupata per odiare», come dichiarò uno dei finanziatori del match.847 Il sindaco, Sam Massell, spiegò che avrebbe sposato il progetto se il team di Ali avesse donato 50.000 dollari a uno dei programmi cittadini contro la criminalità.848 Per assicurarsi che non ci sarebbero state interferenze statali, Johnson incontrò il governatore della Georgia, Lester Maddox, che, come proprietario di ristoranti, era salito agli onori della cronaca per essersi rifiutato di servire dei clienti neri dopo l’approvazione del Civil Rights Act nel 1964. Da governatore, Maddox aveva sorpreso sostenitori e avversari assumendo e promuovendo funzionari neri e avviando un programma di scarcerazione anticipata nelle prigioni dello Stato. Johnson, che conosceva l’avversione di Maddox per i programmi di aiuto per i poveri, disse al governatore che a parte la boxe Ali non aveva altri mezzi per guadagnare, e che se non gli fosse stato consentito di salire sul ring avrebbe finito per richiedere un sussidio di disoccupazione.849
«Vada per il match!» dichiarò Maddox.850
Per dimostrare che era in grado di far venire Ali e organizzare un evento nel profondo Sud senza provocare sommosse o attacchi del Ku Klux Klan, Johnson mise in piedi un’esibizione al Morehouse College: il 2 settembre del 1970, tremila persone si accalcarono in una palestra per osservare l’ex campione del mondo fare i guanti per otto round contro tre avversari diversi. «Il tetto non è venuto giù» commentò «Sports Illustrated». «Nessuno ha lanciato bombe. Il fuoco eterno non è piovuto dal paradiso e nessuno si è trasformato in una statua di sale. E non c’è stato nemmeno un picchetto di protesta».851
Intorno al pugile si riunì la vecchia banda. Al suo angolo c’erano di nuovo Angelo Dundee e Bundini Brown, che era stato perdonato per l’ennesima volta dopo che aveva dato in pegno la cintura di campione del mondo di Ali a un barbiere di Harlem in cambio di cinquecento dollari («Non era come se l’avessi data a un banco dei pegni» disse Bundini a sua difesa. «L’ho data a un vecchio amico»).852
Quando si tolse la vestaglia e iniziò saltellare per il ring, Ali mise in mostra un girovita un po’ abbondante. Si muoveva, tirava qualche jab a vuoto, esibendo il suo gioco di gambe sempre convincente, e a volte si fermava per permettere ai suoi avversari di colpirlo sulle braccia e sulla parte superiore della testa, come se dovesse riabituarsi a incassare. Alla fine dell’esibizione, si sedette nudo nello spogliatoio a discorrere con i reporter, affermando che non era ancora pronto per Frazier, ma che lo sarebbe stato presto.853
Dundee era d’accordo. «C’è ancora tutto» dichiarò l’allenatore. «Tutto. È ancora in grado di fintare con l’anca, la mano e la spalla».854
Non tutti però ne erano convinti. Cus D’Amato, che si considerava uno dei più mordaci oracoli della boxe, spiegò che la velocità di Ali sembrava intatta, ma che le sue abilità difensive erano sensibilmente peggiorate. «Clay sostiene di essersi lasciato prendere apposta dagli sparring partner, di aver permesso che lo centrassero con colpi pesanti al volto e alla figura. Bene, vi posso garantire che nessun pugile si lascia mai colpire apposta. Fa male. Ti scuote il cervello. La verità è che non è stato in grado di sfuggire a quei tizi».855
E quelli erano semplici sparring partner, non avversari che mettevano in gioco le loro vite e le loro carriere. Per D’Amato, si trattava di un pessimo segno.
Frazier non aveva ancora accettato di incontrare Ali. Senza un’alternativa ovvia, lo specialista in pubbliche relazioni Harold Conrad sapeva cosa fare: doveva trovare un bianco che sfidasse Ali, il combattente per la libertà dei neri.
La scelta cadde su Jerry Quarry, un venticinquenne irlandese di bell’aspetto, figlio di un contadino immigrato.856 Nel 1969, Quarry aveva combattuto a viso aperto una feroce battaglia contro Frazier prima che una ferita all’occhio lo costringesse a gettare la spugna. In una categoria dominata da pugili neri, i giornalisti sportivi lo avevano ovviamente definito la «grande speranza bianca». Forse non era un grande, ma era sicuramente un buon atleta, e per Ali rappresentava un azzardo. Per il suo incontro dopo tre anni e mezzo di pausa, sarebbe stato preferibile affrontare un brocco. Ma lui era convinto di potersene sbarazzare.
Il match venne fissato per il 26 ottobre del 1970, con un contratto che assicurava all’ex campione 200.000 dollari e il 42,5 per cento degli introiti. Da par suo, Quarry si sarebbe intascato 150.000 dollari e il 22,5 per cento dell’incasso. Un mese dopo che Atlanta concesse ad Ali la licenza per combattere, un giudice del tribunale distrettuale del Southern District di New York stabilì che la decisione della commissione statale sportiva di bandirlo dalla boxe aveva violato il diritto di Ali di esercitare la sua professione. A intentare la causa per conto di Ali era stato il Legal Defense and Educational Fund della Naccp, evidenziando che altri criminali condannati avevano avuto il diritto di combattere nella Grande Mela. Il giudice Walter R. Mansfield si era trovato d’accordo e aveva definito la decisione della commissione di sospenderlo «intenzionale, arbitraria e irragionevole».857
Il carcere continuava a rimanere una possibilità, perché il ricorso del pugile contro la condanna per renitenza alla leva era ancora in ballo, ma intanto aveva di nuovo il permesso di combattere, almeno ad Atlanta e a New York.
Ali era consapevole della posta in gioco. Sapeva che in caso di sconfitta con Quarry tutto sarebbe cambiato. E sapeva che probabilmente la mossa più prudente sarebbe stata quella di ritirarsi. Avrebbe abbandonato la scena all’apice, imbattuto. E si sarebbe anche conquistato il rispetto di Elijah Muhammad. Avrebbe completato il suo martirio sacrificando la sua carriera. Sarebbe stato ricordato per sempre come un campione. Avrebbe conservato bellezza, salute e fama. Per certi versi, sarebbe stato immortalato come il principe della boxe e come uno dei più brillanti e influenti sportivi americani.
Ma non poteva gettare la spugna. Aveva bisogno di battersi. Aveva bisogno di soldi. Aveva bisogno di attenzioni.
Prese una camera in un hotel di Miami Beach, lasciando Belinda e le tre figlie a Philadephia, e ricominciò ad allenarsi alla Fifth Street Gym. Dalla sua ultima visita era stata passata una nuova mano di pittura, ma l’edificio restava sempre magnificamente trasandato.
Si mise al lavoro, facendo ciò che gli veniva meglio, alzandosi intorno alle cinque ogni mattina per una lunga corsa, tentando di liberarsi dei chili di troppo, preparando il corpo a causare danni e a subirli. Appiccicò una sua fotografia a uno specchio della palestra, una foto vecchia di cinque anni, scattata prima del secondo match contro Liston, quando era stato tonico e muscoloso come non mai. «Ero al massimo della forma» disse un giorno. «Guardate com’ero tirato e asciutto. Non tornerò mai più così».858 Chiese ai giornalisti di dirgli come lo trovavano. Era asciutto? Disse di sentirsi pronto per essere messo alla prova. Correva, faceva sacrifici, era sicuro che non avrebbe commesso errori nella preparazione. «Ma la solitudine mi rende pazzo. In tutti questi anni lontano dal ring non sono mai stato solo. Oh, me la sono spassata in giro per università e motel, a incontrare studenti, gruppi del Black Power, hippy bianchi». Adesso invece era quasi sempre solo, si svegliava alle cinque, andava a dormire alle dieci di sera, perennemente affamato, costretto a rifiutare le avance delle donne, e tutto ciò perché pensava «a quei pochi passi fino al ring e a tutti i volti che mi avrebbero guardato dicendo: “Ma è un miracolo! È così bello!”».
Disse che contavano tutti su di lui. «Ricevo lettere da fratelli neri che mi supplicano di stare attento… Non c’è bisogno che qualcuno mi ricordi di quanto tutto questo sia serio. Non mi batto solo contro un uomo, mi batto contro un sacco di uomini, per mostrare che non mi possono sconfiggere, che non mi possono conquistare… Se perdo, passerò in prigione il resto dei miei giorni. Se perdo, non sarò libero. Sarò costretto a sentire tutti che ripetono che ero una schiappa, che ero grasso, che mi sono unito a un movimento che mi ha fuorviato. E quindi, mi batto per la mia libertà».
«Ali! Ali! Ali! Ali! Ali! Ali! Ali! Ali! Ali!».
Era una novità. Non era mai stato acclamato in quel modo. Né come Ali né come Clay. In quasi tutti i match precedenti era stato il cattivo, la linguaccia, il moccioso, il traditore, quello che chiunque avrebbe voluto vedere uscire dal ring in barella, possibilmente lasciandosi dietro una scia di sangue. E ora che rischiava la prigione per renitenza alla leva, lui, il musulmano nero più odiato d’America, pochi istanti prima di affrontare un bianco nel grande Stato della Georgia… proprio ora la folla, perlopiù bianca, era dalla sua parte? Sembrava una scena uscita da uno dei peggiori incubi di Lester Maddox, un po’ come vedere Paul Robeson impersonare Rhett Butler in Via col vento… solo che quella era la realtà.
Gli appassionati neri arrivarono da tutto il paese, e tra di loro c’erano anche numerosi personaggi celebri e leader del movimento per i diritti civili: Sidney Poitier, Diana Ross, Hank Aaron, Coretta Scott King, Mary Wilson, Julian Bond e Andrew Young. Curtis Mayfield strimpellò l’inno nazionale con una chitarra acustica, e il comico Bill Cosby si sedette a bordo ring, in veste di analista televisivo, fornendo opinioni che non erano né divertenti né particolarmente analitiche. Il reverendo Jesse Jackson, la cui acconciatura afro era voluminosa quasi quanto quella di Diana Ross, andò a trovare Ali nello spogliatoio prima del match e, su suggerimento di quest’ultimo, guidò i presenti in una preghiera ecumenica.859 Lo storico della boxe Bert Sugar definì quell’evento la più grande esibizione di potere e denaro afroamericano mai allestita.860 Tra il pubblico figuravano alcuni tra i trafficanti di droga, magnaccia e faccendieri neri più famosi della nazione, grazie anche all’opera svolta da Richard «Pee Wee» Kirkland, il leggendario giocatore di basket dei playground di New York che di lì a poco sarebbe stato condannato per spaccio, il quale affermò di aver comprato cinquecento biglietti dell’incontro «perché ho pensato che sarebbe stato fantastico se molte delle persone con cui sono cresciuto a Harlem avessero potuto vedere Ali da bordo ring».861
La gente di Harlem percorse avanti e indietro Peachtree Street e alloggiò nei migliori hotel cittadini con un’esuberanza che mostrava da quanto tempo attendesse quel momento, e la possibilità di pavoneggiarsi con aria arrogante in giro per una città del Sud, indossando abiti da re, papponi e trafficanti di droga agghindati in maniera ancor più sfarzosa delle donne al loro fianco, ridendo, senza mostrare alcuna deferenza e appropriandosi della spacconeria di Ali. Solo Ali avrebbe potuto ispirare un tale spettacolo. Era un fenomeno, uno stato d’animo, un’attitudine, una sfida alla democrazia e al decoro. Era il Grande Equalizzatore. Era il pugno in faccia ai bianchi.
Non importava che l’uomo in questione sembrasse guidato più dagli umori che da una vera filosofia. Anzi, in realtà proprio quell’aspetto poteva essere d’aiuto. Adesso che Elijah Muhammad lo aveva sospeso dalla Nation of Islam, era più difficile da inquadrare. Secondo lo scrittore Budd Schulberg, in quel momento Ali «era riuscito a fondere ogni sorta di conflitto ideologico nella sua trascendentale bellezza nera».862 In qualche maniera, era diventato Marcus Garvey, W.E.B Du Bois, Paul Robeson, Adam Clayton Powell, Elijah Muhammad, Malcolm X, John Coltrane, Dizzy Gillespie, Bill Cosby, Jimmy Brown e Dick Gregory, tutti nella stessa persona.
La sera dell’incontro c’erano limousine dipinte con motivi psichedelici.863 Uomini in smoking viola, con baveri larghi come le ali di un Cessna. Camicie di seta sbottonate fino all’ombelico. Uomini che calzavano scarpe con le zeppe alte dieci centimetri. Pellicce di visone che arrivavano alle caviglie, borsalini di visone e farfallini di visone argento.864 Nel tentativo di essere all’altezza di quella sfilata di moda, Cash Clay indossò un doppiopetto bianco e un cappello a tesa larga con fascia rossa.865 Molti dei personaggi sontuosamente vestiti presenti in sala completavano il loro guardaroba con pistole nascoste, un fatto di cui il sindaco fu informato dalla sua guardia del corpo solo a fine serata.866
Se Ali era in ansia non lo diede a vedere. Passeggiò in mezzo ai suoi tifosi con slancio, pavoneggiandosi, boxando con l’ombra, volteggiando, mettendo in mostra il suo famigerato sorriso e lo spazio tra gli incisivi, godendosi ogni singolo minuto, ricordando a tutti che non era ingrassato e che la sua faccia non era diventata tonda; che era un uomo del popolo e il re del mondo, in particolare del mondo nero; che il suo esilio dalla boxe non aveva intaccato il suo ego. Era magnifico e fiero.
Dedicò la mattina del match a rispondere al telefono, e poi si diresse al Municipal Auditorium che, come avrebbe detto uno scrittore, «sembrava essere stato costruito per ospitare una riunione di massa tra genitori e insegnanti».867 Il suo spogliatoio era piccolo, poco più largo del lettino per massaggi piazzato a un’estremità. Sulla parete di fronte c’era una toletta con uno specchio contornato da lampadine. Jesse Jackson, Angelo Dundee e Bundini Brown erano accalcati nella stanza. In un angolo, George Plimpton era accovacciato con penna e taccuino, e prendeva appunti mentre il pugile discuteva con l’allenatore sulla conchiglia protettiva da indossare. Ali riteneva che quella della misura standard lo avrebbe fatto sembrare grasso. Dundee invece insisteva affinché la indossasse.868
Il boxeur ammirava la sua immagine allo specchio. Era di nuovo forte e magro, e il torace e gli addominali erano più grossi rispetto alla vigilia del periodo di inattività.869 Si pettinò i capelli. Boxò con l’ombra finché il petto e le spalle non scintillarono per il sudore. Poi qualcuno bussò alla porta: «È ora». Diede un’ultima occhiata alla sua immagine riflessa e uscì.
Per la prima volta avrebbe affrontato un avversario più giovane di lui. Dundee, Bundini e Jesse Jackson lo scortarono attraverso l’arena fino al ring. Jackson, sopra il frastuono, dichiarò ai giornalisti: «Se stasera perde, sul piano simbolico significherà che le forze del patriottismo cieco hanno ragione, che dissentire è sbagliato; che protestare vuol dire non amare il proprio paese. Questo match è la battaglia tra amalo-o-vattene e amalo-e-cambialo. Hanno tentato di obbligarlo a fare qualcosa che non voleva fare. Si sono rifiutati di credergli a proposito delle sue convinzioni religiose. Gli hanno tolto il diritto di esercitare la sua professione. Hanno tentato di sfiancarlo nel corpo e nella mente. Martin Luther King amava ripetere: “La verità annientata sulla terra risorgerà”. È l’etica nera. E sta accadendo adesso, qui in Georgia, e contro un bianco».870
Ecco un bel modo per mettere pressione.
Per l’Ali di un tempo, Quarry non sarebbe stato un problema. Era più basso di lui, più lento (tutti i massimi lo erano), pesava di meno, aveva braccia più corte ed era stato sconfitto non solo da Frazier, ma anche da George Chuvalo, Jimmy Ellis e Eddie Machen. Tuttavia, colpiva forte e sapeva incassare, e affermava di essersi allenato come mai prima di allora per quel match, consapevole senza dubbio che un’altra sconfitta gli avrebbe appiccicato addosso un’etichetta temuta da ogni pugile: mestierante.
Ali partì veloce, determinato, sferrando jab e combinazioni che martellavano il volto di Quarry. Non stava né scherzando né giochicchiando, come aveva invece fatto in alcune occasioni prima dell’esilio forzato. Il giovane Ali usava il jab e danzava, usava il jab e danzava, mentre l’Ali ventottenne alternava jab a colpi più decisi, servendosi del rapido sinistro per portare a segno fulminee combinazioni sinistro-destro-sinistro. Fin dal primo minuto, una cosa fu subito chiara: il suo jab era quello di sempre, anche se lo stava utilizzando meno del solito. Adesso era più massiccio, e i suoi novantasette chili rendevano quegli sfrigolanti jab ancor più sorprendenti, come fiamme che divampavano dalla bocca di un drago.
Restava solo da vedere come avrebbero reagito le gambe, il che forse poteva spiegare come mai si fosse allenato in maniera così dura. Nel primo round tirò sessantuno pugni, mandandone a segno venticinque, di cui sedici jab e nove più potenti. Alla fine della ripresa aveva l’aria esausta, e si stravaccò sullo sgabello «come una balena spiaggiata», per citare le parole del giornalista Jerry Izenberg.871
Nel secondo round fu quasi altrettanto attivo, sferrò quarantanove colpi e raggiunse l’avversario venti volte, ma nel terzo rallentò, era «sull’orlo dello sfinimento» secondo Dundee, riuscendo comunque a tirare trentanove pugni, di cui dodici a destinazione.872 Per sua fortuna, proprio uno di quei dodici colpi aprì una ferita sopra l’occhio sinistro di Quarry, inducendo l’arbitro a interrompere il match.
Bundini, Dundee, Jesse Jackson e il pittore LeRoy Neiman circondarono Ali sul ring, per celebrare la sua vittoria. Lui non si pavoneggiò, e non ringraziò nemmeno Allah o Elijah Muhammad. Preferì fare invece i complimenti all’avversario e porgere «un saluto ai Supremes, ai Temptations, a Sydney Poitier, a Bill Cosby e a tutti i miei amici presenti tra il pubblico, e anche a Gale Sayers, che si trova a Chicago».873
In seguito avrebbe ammesso di essere rimasto deluso dalla propria prestazione, sorpreso che il suo corpo non rispondesse come quattro anni prima.874
Tuttavia aveva vinto, ed era bello essere tornati.
Dopo l’incontro ci fu una festa. Gli inviti, distribuiti a molti degli spettatori neri meglio agghindati, annunciavano che un certo «Fireball» avrebbe organizzato una serata al 2819 di Handy Drive, in un ranch di Collier Heights, un quartiere di Atlanta abitato da parecchi neri illustri della città. La casa apparteneva a un noto faccendiere di nome Gordon «Chicken Man» Williams, e gli invitati erano soprattutto spacciatori, papponi e gangster. Al loro arrivo, furono intercettati da un gruppo di uomini armati e a volto coperto che li accompagnarono nello scantinato, li spogliarono lasciandoli in biancheria intima e ordinarono loro di ammucchiare armi e oggetti di valore e di stendersi a terra. Quando lo spazio a disposizione finì, gli ostaggi furono costretti a sdraiarsi gli uni sugli altri, impilati come tronchi. Alle tre del mattino in quello scantinato c’erano ormai almeno ottanta persone, incluso Cash Clay.875 Due giorni più tardi, l’«Atlanta Journal» riportò che erano stati rubati oltre 200.000 dollari, ma che solo cinque persone avevano sporto denuncia alle forze dell’ordine. La maggior parte di loro, come Cash Clay, era troppo imbarazzata per ammettere di essere stata raggirata. Sei mesi dopo la rapina, due dei sospettati furono abbattuti con colpi d’arma da fuoco all’esterno di una sala biliardo del Bronx.
«Se i ladri avessero saputo chi stavano derubando» dichiarò un detective della polizia di Atlanta «non lo avrebbero mai fatto».876
839. Cherry Hill Played a Big Role in Muhammad Ali’s Life, «The Courier-Post» (Cherry Hill, NJ), 13 settembre 2012.
840. Clay KO’d by Black Militants, «The Indiana Evening Gazette», 30 gennaio 1970.
841. Intervista dell’autore a Gene Kilroy, 4 maggio 2016.
842. Intervista dell’autore a Marc Satalof, 15 aprile 2015.
843. Intervista dell’autore a Reggie Barrett, 22 marzo 2016.
844. A Strange Case of Friendship, «Inside Sports», 31 luglio 1981.
845. Intervista dell’autore a Gene Kilroy, 22 agosto 2016.
846. Intervista dell’autore a Leroy Johnson, primo giugno 2016.
847. Welcome Back, Ali!, «Sports Illustrated», 14 settembre 1970.
848. Intervista dell’autore a Sam Massell, 10 maggio 2016.
849. Intervista dell’autore a Leroy Johnson, primo giugno 2016.
850. Ibid.
851. Welcome Back, Ali!, art. cit.
852. Ali Despite Millions Won, Faces Toughest Fight, Balancing Budget, «The New York Times», 25 marzo 1978.
853. Welcome Back, Ali!, art. cit.
854. Ibid.
855. Clay Doesn’t Feel D’Amato’s Definition of Pressure, «The Louisville Times», 26 ottobre 1970.
856. Jerry Quarry, 53, Boxer Battered by Years in the Ring, Dies, «The New York Times», 5 gennaio 1999.
857. 3-Year Ring Ban Declared Unfair, «The New York Times», 15 settembre 1970.
858. He Moves Like Silk, Hits Like a Ton, «Sports Illustrated», 26 ottobre 1970.
859. Intervista dell’autore a Jesse Jackson, 6 luglio 2016.
860. «Knockout», Atlanta, ottobre 2005.
861. Ibid.
862. Schulberg, op. cit., p. 78.
863. Ringside Crowd Forms Dazzling Backdrop, «The New York Times», 27 ottobre 1970.
864. Sport and Sociology at the Auditorium, «The Atlanta Journal-Constitution», 28 ottobre 1970.
865. Ringside Crowd Forms Dazzling Backdrop, art. cit.
866. Intervista dell’autore a Sam Massell, 10 maggio 2016.
867. Ali on Peachtree, «Harper’s Magazine», gennaio 1971.
868. Plimpton, op. cit., p. 157.
869. Ibid., p. 163.
870. Schulberg, op. cit., p. 74.
871. Intervista dell’autore con Jerry Izenberg, 22 giugno 2016.
872. Angelo Dundee, My View from the Corner, op. cit., p. 139.
873. Filmato dell’incontro tra Muhammad Ali e Jerry Quarry, www. youtube.com.
874. Ali con Durham, op. cit., p. 326 [trad. it. cit., p. 399].
875. Intervista dell’autore con Gene Kilroy, 4 maggio 2016.
876. $200,000 Robbery — “Bare Minimum”, «The Atlanta Journal-Constitution», primo novembre 1970.