Immaginate dieci milioni di persone, diceva Ali. Immaginate che esista uno stadio capace di contenere dieci milioni di persone, uno stadio così grande che un aereo ci metterebbe un’ora per sorvolare tutta la folla. È il numero di persone che lo avrebbe visto combattere contro Frazier.920 E quelli che non avrebbero potuto guardarlo, quelli che abitavano nelle città e nei remoti villaggi di tutti i continenti, avrebbero atteso con ansia di conoscere il vincitore.
«È il più grande evento nella storia del mondo» dichiarò.
Stava finalmente ottenendo le attenzioni che aveva sempre bramato. Anzi, se possibile aveva addirittura sottostimato la vastità della sua fama. La sera dell’8 marzo 1971, infatti, gli spettatori sparsi per tutto il globo che lo guardarono combattere contro Frazier non furono dieci milioni, ma trecento. E se non era il più grande evento della storia, di certo si trattava di uno dei più seguiti.
Prima del grande incontro, George Plimpton diede una festa al ristorante Elaine’s, ritrovo d’elezione tra gli altri di Norman Mailer, Pete Hamill e Bruce Jay Friedman. Gli autori e gli intellettuali scrissero del significato profondo della boxe. Parlarono di Ali e di come, in maniera alquanto inspiegabile, fosse diventato il supereroe di musulmani, neri indigenti, bianchi liberali, hippy, renitenti alla leva e di chiunque ritenesse che le carte fossero truccate a favore dei più potenti. Al party di Jack Kent, i miliardari socializzarono con star di Hollywood come Elia Kazan, Lorne Greene e Peter Falk. Ovviamente, anche Frank Sinatra e i suoi compari di Las Vegas celebrarono con fiumi di alcol. Il presidente Nixon fece installare alla Casa Bianca una linea speciale in modo da vedere il match di cui tutta l’America stava parlando.921
Il giorno del combattimento Ali, che temeva più la solitudine di Frazier, invitò un gruppetto di reporter nella sua stanza al New Yorker Hotel per guardare la televisione.
Più tardi passò anche Belinda, in cerca del marito. Non lo trovò, e nessuno sembrava sapere dove fosse finito. Inizialmente sospettosa, finì per arrabbiarsi. Quando telefonò a una camera di un membro dell’entourage del marito, a rispondere fu una donna. Belinda sentì in sottofondo una voce maschile.922
«Chi è al telefono?» sentì dire all’uomo.
«È mio marito?» gridò Belinda nella cornetta. «È Muhammad Ali?».
«Sì» rispose l’altra.
«Passamelo. È lui che sto cercando».
Ali venne all’apparecchio. «Che cosa vuoi?» domandò, come avrebbe ricordato la moglie anni dopo durante un’intervista.
Erano settimane che lei si lamentava con il marito perché non si stava allenando abbastanza duramente. E in quel momento la rabbia le fece perdere le staffe. «Cosa ci fai lì? È proprio questo di cui parlavo, Ali! È proprio questo di cui parlavo! Adesso vengo lì e ti faccio a pezzi!».
Poi riattaccò, si diresse alla stanza dove si trovava il marito e cercò di buttar giù la porta a calci, senza riuscirci. Tirò pugni finché Ali non venne ad aprire. Era nudo. Belinda entrò e trovò una donna nascosta nella doccia, anch’essa nuda.
«Non è come pensi!» strillò quest’ultima.
«Sai che c’è,» urlò Belinda «nemmeno lo vedo ciò che ho davanti agli occhi in questo momento. Non ci credo. Adesso vi uccido entrambi». Afferrò un coltello da carne.
«Ero in strada!» strillò l’altra. «Mi ha dato quaranta dollari! Non volevo farlo!».
In quell’istante, Belinda non riuscì a capire cosa la infuriasse di più: l’infedeltà del marito, l’approccio disinvolto al match che si sarebbe tenuto di lì a poche ore, il fatto che lui fosse in compagnia di una prostituta nello stesso hotel in cui alloggiavano la moglie e le figlie o che la prostituta in questione fosse brutta.
«Gridai» ricordava.923 «E poi gli dissi: “Senti Ali, niente di tutto questo è mai accaduto. Sto solo sognando, va bene? E se ritiri fuori l’argomento, giuro che ti spacco la testa. Se solo ti azzardi a tirarlo fuori di nuovo, ti ammazzo!”. Lui rispose: “Ok. Ok. Ok. Ok”. A quel punto me ne andai. Dentro la stanza ero stata coraggiosa, ma una volta fuori scoppiai a piangere come una neonata. Mi sedetti su un poggiapiedi del corridoio accanto alla finestra e piansi. Poi mi ricomposi, mi pulii la faccia e tornai dalle bambine. Scossi la testa e pensai: “Signore, abbi pietà. In che cosa mi sono ficcata? Non durerà a lungo. Non durerà a lungo”».
Espresse anche un desiderio: che Frazier battesse il marito.
La folla era multiculturale prima ancora che il termine venisse inventato, era un’esplosione di orgoglio, una sfilata di moda funk, una parata di ego e di potere resa ancora più delirante dalla droga. C’era tutto il mondo, e chi non c’era mentì e dichiarò di esserci. Tra quelli sicuramente presenti e che respiravano la stessa aria stantia del Madison Square Garden figuravano Frank Sinatra, Barbra Streisand, gli astronauti dell’Apollo 14, Sammy Davis Jr, il colonnello Harlan Sanders, celebre per essere il fondatore di Kentucky Fried Chicken, Hugh Hefner, Barbi Benton (l’accompagnatrice di Hefner, con una camicetta trasparente sotto una pelliccia di scimmia), Hubert Humphrey, Woody Allen, Diane Keaton, Miles Davis, Dustin Hoffman, Diana Ross (in pantaloncini di velluto nero), Ethel Kennedy, Ted Kennedy, il sindaco John Lindsay, Burt Bacharach, Robert Sargent Shriver, William Saroyan e Marcello Mastroianni. Bing Crosby optò invece per un posto alla Radio City Music Hall, tutta esaurita, dove avrebbe guardato il match grazie alla diffusione a circuito chiuso.924
A inizio serata, il fratello di Ali disputò il suo ottavo incontro da professionista. Rahaman era imbattuto, ma non aveva mai affrontato un avversario di livello. Al Madison Square Garden, prima del più importante incontro della carriera del fratello, Rahaman subì la sua prima sconfitta, una bella ripassata dall’inglese Danny McAlinden.
E poi arrivò finalmente il momento tanto atteso. Il momento dell’Incontro. Qualcosa di immenso, di eccessivo per i sensi degli spettatori del Madison Square Garden che videro i pugili marciare verso il ring. Il primo ad arrivare fu Ali, con una vestaglia rossa di velluto, pantaloncini rossi e scarpe bianche con lacci rossi. Frazier indossava una vestaglia di broccato verde e oro, e pantaloncini abbinati. I due erano in ottima forma. I produttori televisivi erano stati attenti a ogni minimo dettaglio, aiutandoli a decidere perfino i colori dei calzoncini, scegliendo per Ali un colore scuro che contrastasse la sua carnagione chiara e per Frazier una tonalità più luminosa che spiccasse con la sua pelle più scura.925 Durante le presentazioni, Ali danzò in giro per il ring, si avvicinò all’avversario e lo definì: «Zuccone!».
Frazier mantenne un atteggiamento disinteressato.
Mentre l’arbitro ricordava a entrambi le regole, i due pugili si punzecchiarono.
Norman Mailer ha scritto che l’inizio di un match «è l’equivalente del primo bacio in una storia d’amore».926 In realtà assomiglia più al primo missile in una guerra. Sia come sia, i primi scambi di quell’incontro mancarono il bersaglio. Ali lasciò partire jab e raffiche di combinazioni. Frazier li schivò, muovendo la testa veloce come i suoi pugni, avanzando furiosamente e cercando di farsi largo tra i jab dell’avversario. Ali arretrò tirando altri jab, ma la testa del rivale era in continuo movimento ed era di rado nel posto in cui l’altro si attendeva di trovarla. Ali pungeva come un’ape ma non volteggiava come una farfalla. Anzi, non volteggiava affatto. Fu subito chiaro che non voleva stancare Frazier, ma stava cercando di fargli male, di scollegargli le sinapsi, il più rapidamente possibile. Ali aveva i piedi piantati a terra e sferrava jab seguiti da rapidi ganci, tentando di capitalizzare il suo vantaggio in termini di altezza e allungo, con l’obiettivo di porre al più presto fine all’incontro. Joe restava curvo, un atteggiamento su cui aveva lavorato a lungo sotto lo sguardo di Eddie Futch. In palestra avevano teso delle corde attraverso il ring e lui si era abituato a evitarle, ad abbassarsi, colpire e abbassarsi di nuovo, a colpire centinaia, migliaia di volte. Ora si abbassava, tirava pugni e si gettava in avanti, scagliando bordate senza mai rimanere fermo.
Ali conquistò ai punti i primi due round, colpendo il bersaglio più dell’avversario, ma all’inizio del terzo, Frazier sorrise e invitò il rivale a venir avanti e combattere. Frazier toccò col gancio alla testa e alla figura, continuando a farsi largo con la forza. Ogni volta che metteva a segno un colpo potente, Ali scuoteva platealmente il capo, per dimostrare alla folla di non aver sentito nulla. Alla fine del round, Ali tornò all’angolo e rifiutò di sedersi, un modo per provare all’avversario che non era stanco. Si stava comportando come un bambino al parco giochi che fa le linguacce e schernisce il nemico, ma al nemico in questo caso non sembrava importare.
Gli appassionati di boxe rimasero sopresi nel vedere Ali sfidare Frazier sul suo terreno, a viso aperto, scambiando colpi anziché danzare e usare il jab. Stava combattendo come se credesse alle sue spacconerie, come se credesse di essere così più forte e più alto da non aver bisogno di affidarsi alla velocità. Frazier aveva gli occhi gonfi, la bocca piena di sangue, ma non smetteva di avanzare, di ringhiare. Nemmeno lo sfiancante jab sinistro di Ali era in grado di fermarlo. Si prese la sua bella dose di colpi, ma ogni tanto riusciva a scivolare sotto quei jab e a sferrare il suo marchio di fabbrica: il gancio sinistro.
Ali aveva previsto un ko alla sesta, ma in quella ripresa Frazier andava a tutta mentre lui cominciava a mostrare segni di affaticamento. Avvolse le braccia intorno al collo del rivale, si appoggiò alle corde e strofinò leggermente le mani sul volto dell’altro, come un uomo che dipinge un’inferriata. Durante il settimo e l’ottavo round, fece più o meno lo stesso, per riposarsi e forse per tentare di minare la volontà dell’avversario fingendo che avrebbe potuto continuare tutta la sera, come se le corde fossero la sua amaca, un angolo piacevole dove stendersi un po’ finché non fosse stato pronto a rimettersi all’opera. Ali derise Frazier per tutto il match, dicendogli che non poteva vincere.
«Non sai che sono Dio?» gridava.927
«Dio, mi sa che stasera sei nel posto sbagliato» replicò l’altro. «Ti conveniva essere da qualche altra parte, e non qui. Ti sto prendendo a calci nel culo, ed è solo l’inizio!».928
Il nono round fu di una violenza inaudita. I guantoni di Ali tempestarono la testa massiccia di Frazier, che replicò con dei colpi che sollevarono da terra il rivale. Il volto del campione era sempre più grumoso, come se si fosse appena infilato in un alveare. Gli spettatori erano in piedi. Se il match si fosse concluso in quel momento, probabilmente Ali avrebbe vinto ai punti. E se avesse potuto continuare a combattere in quel modo, avrebbe messo Frazier ko o avrebbe prevalso con decisione unanime dei giudici. Ma non era più in grado di tenere quel ritmo. Non ne aveva più.
Nell’undicesima ripresa, anziché attaccare Ali indietreggiò. Non si limitò ad appoggiarsi per l’ennesima volta alle corde, ma invitò Frazier ad avvicinarsi per colpirlo, come se gli occupanti di una roulotte non vedessero l’ora di essere investiti da un tornado.
«Che cosa sta facendo?» chiese l’ex campione dei mediomassimi José Torres. «È impazzito? Alla fine della decima aveva il match in mano e adesso sta mandando tutto all’aria».929
Frazier accettò l’invito, sollevando i piedi dal suolo per lasciar partire un gancio sinistro spacca-mento, seguito da un feroce gancio al corpo. Era il genere di pugni che un tempo Ali avrebbe schivato, ma stavolta, se anche la sua mente gli stava dicendo di muoversi, il corpo non rispose. Le sue ginocchia cedettero, e lui cercò di ritrovare l’equilibrio. Sembrò che stesse andando giù, scosso come non lo era mai stato nel corso di tutta la sua carriera, ma in qualche modo riuscì a riprendersi e a restare in piedi. Aveva una frase per descrivere quella sensazione di semicoscienza. La chiamava la «stanza del mezzo sogno» e un giorno l’avrebbe descritta: «Un forte pugno mi porta sulla soglia di questa stanza. Si apre e vedo lampeggiare luci al neon verdi e arancione. Vedo pipistrelli che soffiano nelle trombe, coccodrilli che suonano i tromboni e serpenti che ululano. Alla parete sono appese maschere mostruose e costumi da teatro. […] La prima volta che un pugno ti manda lì, tu ti spaventi e scappi, ma poi ti svegli e dici: “Be’, visto che era soltanto un sogno, perché non sono rimasto calmo […]?”. C’è solo il fatto che devi cacciartelo bene in mente e farti il tuo piano molto prima che cominci il mezzo sogno. […] Il pugno ti fa vibrare il cervello come un diapason. Non puoi permettere al tuo avversario di approfittarne. Devi fare in modo che il diapason smetta di vibrare».930
Ali era nella sua stanza del mezzo sogno. Al suono del gong, i secondi, nel tentativo di ridestarlo, gli gettarono dell’acqua in faccia prima che si sedesse sullo sgabello. Bundini Brown lo additò gridando: «Hai Dio al tuo angolo, campione!».931 L’arbitro, Arthur Mercante, si avvicinò per capire se ci fosse bisogno dell’intervento di un medico. Fu convinto a far proseguire l’incontro.
Ali passò i primi istanti della dodicesima ripresa a muoversi, come per testare le gambe. Frazier ricominciò a flagellarlo. Ali provò a replicare, ma era evidente che aveva le energie solo per combattere a folate, e non per un intero round. Nella tredicesima ripresa Ali ripartì con vigore, muovendosi con agilità. Conquistò qualche punto toccando il rivale col jab, senza però mai affondare. Dopo aver recitato il ruolo dell’aggressore per circa un minuto, tornò alle corde e Frazier, intravedendo una possibilità, esplose e lo tempestò con quarantasei colpi di seguito. Con la saliva sanguinante che gli colava dalle labbra gonfie e il volto ridotto a una maschera di lividi grotteschi, Frazier si scatenò, sferrando pugni con tutta la forza che aveva in corpo, quasi tutti a segno. Se la strategia di Ali di restare alle corde avesse funzionato, se gli avesse permesso di recuperare energie mentre l’avversario perdeva vigore, sarebbe stato salutato per l’ennesima volta come un genio della boxe. Ma in quell’occasione non stava funzionando affatto. Per Frazier, era come se il capitano Achab avesse trovato la balena bianca spiaggiata, pronta per essere squartata. Colpiva, colpiva, colpiva, lavorando alla figura e alla testa, toccando il bersaglio a piacimento. Si piazzò praticamente nell’ombelico di Ali e vi restò, in modo che il rivale potesse vedere solo il suo cranio. Era così vicino che Ali non avrebbe potuto allungare le braccia per ribattere nemmeno se lo avesse voluto. E più Frazier sferrava pugni, più Ali assumeva la posizione immobile di un sacco. La sua mascella cominciò a gonfiarsi come un palloncino marrone, suggerendo agli uomini del suo angolo che potesse essersela rotta.
Ali aveva un’ultima riserva di energia e nella quattordicesima ripresa lottò valorosamente. Ora, i pugili erano entrambi esausti. Era già un miracolo che riuscissero ancora a reggersi in piedi, figurarsi continuare a combattere. Ali, che amava definirsi il pugile più scientifico della storia, avrebbe forse cambiato idea, perché quell’incontro era tutto tranne che scientifico. Era una rissa sanguinosa. Era l’inferno.
Prima dell’inizio del quindicesimo e ultimo round, i due si salutarono toccandosi con i guantoni. Le sfavillanti luci sopra le loro teste proiettavano ombre sui loro volti tumefatti. L’aria puzzava di sudore e sigarette. Perfino gli spettatori erano sfiniti, ma erano in piedi e gridavano a gran voce di volerne ancora.
Ali iniziò danzando, come per comunicare al mondo che era ancora nel pieno delle sue forze, ancora veloce, tutt’altro che stremato. Aprì con un sinistro che fece fuoriuscire del sangue dalla bocca di Frazier. Quest’ultimo assestò qualche colpo al fegato dell’avversario per far capire che anche lui non era stremato, e poi legò. Si staccarono e si misero a girare in tondo. Frazier avanzò, così come accaduto per tutto il match. L’altro indietreggiò. Frazier caricò il sinistro – come avrebbe detto in seguito, facendolo arrivare fino ai roventi campi di rape della South Carolina, alla sua infanzia povera e piena di odio – e lasciò partire un gancio. Al momento dell’impatto con la testa di Ali, il sudore schizzò in ogni direzione. Il volto dell’ex campione venne sballottato. I suoi occhi si chiusero, la bocca si aprì e le ginocchia si piegarono. Atterrò su schiena e gomiti, la testa rimbalzò sul tappeto, mentre le gambe si dimenavano.
Eppure, incredibilmente, riuscì a rialzarsi.
E lo fece nel momento stesso in cui il suo corpo toccò terra.
Si rialzò e riprese a combattere.
In seguito, Angelo Dundee avrebbe raccontato che il suo pugile aveva perso conoscenza durante la caduta e che l’aveva ritrovata quando il suo posteriore aveva toccato il tappeto, ed è esattamente così che sembrava. Il gancio sinistro di Frazier gli aveva scosso il cervello, le cellule cerebrali si erano stirate e strappate, interrompendo temporaneamente il funzionamento e la comunicazione tra di loro. I ganci causano più danni al cervello dei jab perché il collo aiuta ad assorbire l’impatto di un pugno che arriva dritto al volto. Quando invece giunge dal lato, la testa ruota e oscilla, il collo non è in grado di attenuarne la forza e il cervello trema come una caramella di gelatina. Il che spiega la caduta di Ali. Ciò che però non spiega è come fosse riuscito a rimettersi in piedi, e a farlo così velocemente – ancora prima che l’arbitro potesse contare fino a quattro. Un potente colpo al capo è in grado di danneggiare gli assoni del cervello (le lunghe diramazioni che trasmettono i segnali attraverso il sistema nervoso), e in certi casi possono passare mesi o settimane prima della completa guarigione, che a volte può anche non verificarsi mai. Ma Ali si risollevò, restando in piedi e combattendo per gli ultimi due minuti e mezzo del match, mentre i ventimila del Madison Square Garden e i trecento milioni in giro per il mondo urlavano a squarciagola.
Era il coraggio a trascinarli? Era la neurologia? Era l’arroganza che prevaleva sulla fisiologia? I due continuarono a battersi finché finalmente arrivò il suono del gong e l’arbitro si frappose tra loro per porre fine a uno dei più intensi e migliori incontri nella storia del pugilato. I tifosi sciamarono sul ring quando Frazier venne decretato vincitore ai punti con decisione unanime.
Scrittori del calibro di Norman Mailer tentarono di descrivere la battaglia tra quei due uomini come qualcosa di quasi spirituale, qualcosa che andava ben oltre una sfida da uomo a uomo. «Ci sono altri linguaggi oltre alle parole, linguaggi che fanno capo ai simboli e alla natura. E ci sono i linguaggi del corpo. La boxe è uno di questi. È inutile cercare di capire un pugile professionista se non siamo disposti a riconoscere che parla con una padronanza del corpo che ha un’intelligenza distaccata, sottile e completa quanto qualunque esercizio intellettuale di un ingegnere sociale come Herman Kahn o Henry Kissinger».932 Dopo l’incontro, quel genere di astrazioni lasciarono il passo alla dura realtà del dolore e delle ferite. Ali era sdraiato su un lungo tavolo, immobile, gli occhi chiusi, nudo, coperto solo da un asciugamano.933 Angelo Dundee si trascinava per la stanza come se fosse smarrito o in lutto. Seduta su una panca accanto al tavolo, Odessa stringeva il figlio. «Si riprenderà» continuava a ripetere.
Belinda era introvabile. Ali si raddrizzò quando nello spogliatoio entrò Diana Ross. Quest’ultima prese da Bundini una borsa del ghiaccio e la premette sulla mascella del pugile, sussurrandogli nell’orecchio. Ali riuscì comunque a farle l’occhiolino.
Con la mascella che ricordava un piccolo ananas, Ali si recò al Flower First Avenue Hospital per sottoporsi a una serie di radiografie.934 I medici dissero che non c’era nulla di rotto, ma gli suggerirono di restare lì per la notte. Lui però non acconsentì. Non voleva che Frazier credesse di avergli fatto davvero male. Stava già parlando di una rivincita, e rifiutando le cure mediche stava lanciando la prima offensiva della sua battaglia psicologica.
920. Mailer, King of the Hill, cit., p. 62.
921. Connie Bruck, When Hollywood Had a King, Random House, New York, 2004, p. 309.
922. Intervista dell’autore a Khalilah Camacho-Ali, 23 dicembre 2014.
923. Ibid.
924. Where Were You on March 8, 1971, ESPN.com, http://espn. go.com/classic/s/silver_ali_frazier.html.
925. The Telecast of the Century, «The New York Times», 21 agosto 1972.
926. Mailer, King of the Hill, cit., p. 76.
927. Kram, op. cit., p. 144.
928. Trascrizione dell’intervista a Joe Frazier, Espn Classic, 17 gennaio 2001, per gentile concessione di Espn.
929. Torres, op. cit., p. 208.
930. Ali con Durham, op. cit., p. 405 [trad. it. cit., p. 497].
931. Everyone Will Remember What Happened, «Sports Illustrated», 15 marzo 1971.
932. Mailer, King of the Hill, cit., p. 17.
933. “I Ain’t No Champ”, Says Muhammad Ali, «Charleston Daily Mail», 9 marzo 1971.
934. Frazier Earns the Crown, «The New York Times», 8 marzo 1971.