A Harlem, lo definirono un incontro truccato. Alla Casa Bianca, il presidente Nixon esultò per la sconfitta di «quel coglione di renitente alla leva».935 Tutti avevano la loro opinione, anche se nessuna contava. Frazier aveva vinto, e Ali avrebbe dovuto risalire la china per riconquistare la corona.
Dopo l’incontro, «Sports Illustrated» spedì George Plimpton al nuovo domicilio del pugile a Cherry Hill, nel New Jersey, per vedere come stesse metabolizzando la sua prima sconfitta da professionista. Quando arrivò, Ali era nel vialetto a chiacchierare con i vicini, azzuffarsi per gioco con i cani, abbracciare bambini e firmare autografi.936 Ali invitò il giornalista e tutti i curiosi che si erano radunati per strada a entrare in casa, arredata solo in parte. Un ritratto a olio di Elijah Muhammad era posato a terra, appoggiato alla parete di una stanza accanto a un bouquet di fiori con un biglietto di Aretha Franklin.937 In un’altra camera, Belinda era seduta sul pavimento a guardare la televisione, disinteressata al marito e ai suoi ospiti.
Dopo la visita guidata dell’appartamento, Ali disse a Plimpton di essere pronto a parlare – ma avrebbe dovuto dividere l’intervista con altri due giornalisti, dei ragazzi di un liceo lì vicino che stavano preparando un articolo per il giornale della scuola, uno con il registratore in mano e l’altro con una Polaroid. Quando il secondo scattò una fotografia, Ali volle subito controllare se nell’immagine aveva la mascella gonfia. A quel punto, l’altro accese il registratore e chiese al pugile di reggere il microfono.
«Quando esce?» domandò Ali. «Come si chiama il giornale?».938
«“The Sentinel”. È un ciclostile» rispose il reporter. Spiegò che le foto sarebbero state appese nella bacheca dell’istituto perché quel tipo di stampa non permetteva di riprodurre immagini.
Ad Ali andava bene. Iniziò raccontando che la sera prima, insieme a dieci amici, era andato al cinema a Cherry Hill per vedere una sintesi di venticinque minuti del match contro Frazier. Si alzò dal divano e ricostruì la sua parte preferita, l’undicesimo round, quando era indietreggiato per tutto il ring, con Frazier che lo braccava, con andatura impettita, le mani basse, prima di sferrare il sinistro che lo aveva scosso come raramente gli era accaduto prima. «Quella lunga passeggiata di Frazier» disse. «Ci ha fatto morire dal ridere».939
Disse che quel gancio sinistro lo aveva colto alla sprovvista per tutto l’incontro. Perché continuava a farsi colpire? Aveva pensato che i primi due fossero stati una botta di fortuna, ma non avevano mai smesso di arrivare.
Il fotografo lo incalzò: «Come… insomma, che cos’è che non ha funzionato?».
Ali portò una mano all’altezza della testa. «È così che bisognerebbe fare» disse. «Le mie mani invece erano troppo basse».
«Non avresti potuto tirarle su?» domandò il giovane.
«Sembra facile, vero?» fu la replica di Ali.
Il fotografo gli chiese se stava ancora rimuginando sulla sconfitta.
«Meno di quanto mi sarei immaginato. Adesso, per me, la boxe è più un lavoro che la gloria del vincitore. Dopotutto, quando gli elogi finiscono,» e qui, secondo Plimpton, adottò il tono di voce, più basso e ipnotico, che di solito riservava a poesie e sermoni ispiratori «quando tutta la fanfara è finita, conta solo ciò che sei davvero. Malgrado tutto quel sangue, il mondo gira ancora. Ero così stanco. Ho perso. Ma non ho versato una lacrima. La vita va avanti. Non ho nulla di cui vergognarmi».940
Nel frattempo, Ali aveva un’altra sfida per cui essere preoccupato – la battaglia legale riguardo al suo arruolamento – e c’era più di una ragione per credere che avrebbe perso anche questa.
Nel 1969, la Corte Suprema aveva deciso di non esaminare il suo caso. Ali era riuscito a sfuggire al carcere solo perché il dipartimento di Giustizia aveva ammesso di aver intercettato alcune sue conversazioni, spingendo così la Corte Suprema a rinviare il contenzioso al tribunale distrettuale. Ali aveva perso di nuovo e, nel 1971, i giudici della Corte Suprema non sembravano voler riesaminare la sua vicenda. Di conseguenza, la condanna pronunciata dal tribunale distrettuale sarebbe stata confermata e lui avrebbe passato cinque anni in prigione.
Ma Ali ebbe la sua grande occasione. Il giudice della Corte Suprema William Brennan incoraggiò i colleghi a prendere in esame il suo caso, avanzando un argomento insolito. Non si aspettava che cambiassero idea, e nemmeno che Ali vincesse, ma considerate la reputazione del pugile e le proteste suscitate dal conflitto in Vietnam, Brennan temeva che gli americani potessero fraintendere il verdetto. Temeva che se il pugile non avesse almeno avuto l’opportunità di perorare la sua causa davanti ai giudici, potesse apparire come la vittima di una persecuzione politica.
Il 19 aprile del 1971, la Corte Suprema ascoltò le argomentazioni del processo Cassius Marsellus Clay Jr contro gli Stati Uniti. Ali veniva indicato con il suo vecchio nome perché non aveva presentato la documentazione necessaria per ufficializzare il cambio di identità. Inoltre, compariva «Marsellus» e non «Marcellus» perché nel 1961 il pugile aveva sbagliato a compilare il modulo per il Selective Service.941
Ali non presenziò all’udienza dibattimentale. A rappresentarlo c’era Chauncey Eskridge, la cui arringa, che in seguito sarebbe stata definita «confusa» da uno dei giudici, venne accolta con freddezza.942 A perorare la posizione del governo fu il sottosegretario di Stato al dipartimento di Giustizia Erwin Griswold, che contestò lo status di pacifista del pugile. Secondo Griswold, quando Ali aveva dichiarato di non «avere nulla di personale» contro i vietcong, non si stava opponendo a tutte le guerre, ma solo a quella in particolare. A suo parere, se i vietcong avessero attaccato i musulmani Ali avrebbe combattuto. E sostenendo di non volersi battere per un paese che lo trattava da cittadino di seconda classe, non stava rivendicando la sua posizione di pacifista ma esprimeva una posizione politica: non voleva combattere per quello specifico governo in quello specifico momento.
Quattro giorni dopo, cinque giudici contro tre (Thurgood Marshall si astenne) votarono a favore della conferma della condanna. Il giudice John M. Harlan fu incaricato di mettere nero su bianco l’opinione della maggioranza. Di solito, quell’operazione è poco più che una formalità, ma non in quel caso.
Harlan era un giudice conservatore convinto che i problemi sociali dovessero essere risolti dai legislatori, e non dai giudici. Suo nonno era stato un amico intimo del primo Cassius Marcellus Clay, l’abolizionista proprietario di schiavi del Kentucky. Nell’estate del 1971, Harlan aveva settantadue anni e soffriva di dolori tremendi, inconsapevole che stava morendo per un tumore al midollo spinale. Mentre si preparava a redigere il parere, uno dei suoi cancellieri, Thomas Krattenmaker, si propose di aiutarlo con le ricerche. In generale, i cancellieri erano giovani, tra i migliori studenti del paese e ostili alla guerra in Vietnam. Il ventiseienne bianco Krattenmaker aveva partecipato a manifestazioni pacifiste quando studiava alla Columbia, e prima di lavorare come cancelliere alla Corte Suprema aveva letto l’autobiografia di Malcolm X, che gli aveva trasmesso la passione e la sincerità con cui Malcolm e Ali affrontavano la propria religione.943 Era inoltre rimasto colpito dalla chiarezza con cui il pugile aveva espresso la sua opposizione alla guerra. «Quando aveva dichiarato “non ho nulla di personale contro i vietcong”» ricordava Krattenmaker in un’intervista «si era rivolto a ogni americano non ancora arruolato. La nostra nazione e la nostra cultura non erano in pericolo. Perché dunque stavamo combattendo?».
Krattenmaker comprese perché i giudici ritenessero che l’opposizione di Ali alla guerra fosse una questione razziale e politica. Perché in parte era così. Ma il giovane era convinto che il rifiuto del pugile avesse anche una dimensione religiosa, e che avesse più di un motivo per non voler combattere finché obbediva con sincerità alla ragione che la Corte considerava valida: l’opposizione a tutte le guerre sulla base delle proprie convinzioni religiose. Per godere dello status di obiettore di coscienza era necessario che, sulla base della propria educazione e fede, un individuo si opponesse con sincerità a ogni forma di guerra. Quaccheri e altri pacifisti lo erano, mentre i cattolici che giudicavano immorale il conflitto in Vietnam no. Come aveva stabilito la Corte poco tempo prima, i veri pacifisti non facevano distinzioni tra le guerre. Ali aveva ammesso che avrebbe partecipato a una cosiddetta «guerra santa» se a ordinarglielo fosse stato Allah. Questo significava che non era legittimato a rivendicare il suo status di obiettore di coscienza?
Krattenmaker non la pensava così. Incoraggiò il giudice Harlan a leggere il libro di Elijah Muhammad Message to the Blackman in America. Nel volume in questione, la guerra santa dei musulmani era un evento del tutto ipotetico e astratto, improbabile quanto l’Armageddon evocato dai testimoni di Geova. In altre parole, da un punto di vista pratico, i discepoli di Elijah Muhammad si opponevano sinceramente e religiosamente a tutte le guerre terrestri.
Harlan stava perdendo la vista, ma accettò di studiare Message to the Blackman in America, e dopo averlo fatto decise che il cancelliere aveva ragione. Il 9 giugno, in un memorandum alla Corte, annunciò che cambiava il suo voto, includendo una lunga lista di insegnamenti della Nation of Islam e citazioni del libro: «L’idea dominante dell’islam è fare la pace e non la guerra; il nostro rifiuto di girare armati è la dimostrazione che vogliamo la pace. Sentiamo di non avere il dovere di partecipare a una guerra al fianco di non-musulmani che ci hanno sempre negato giustizia e parità di diritti; e se dobbiamo essere esempi di pace e di rettitudine (così come stabilito da Allah) sentiamo di non essere in dovere di unire le nostre mani a quelle degli assassini e di uccidere chi non ci ha fatto niente di male. […] Crediamo che noi, che ci dichiariamo musulmani retti, non dovremmo partecipare a nessuna guerra che spezza vite umane».944
Il giudice William Douglas obiettò che il Corano autorizzava i musulmani a combattere la jihad contro gli infedeli. Come poteva definirsi pacifista chi era disposto alla jihad?
Con il voltafaccia di Harlan, ora i voti erano in parità, quattro a quattro. Stando così le cose, la condanna sarebbe stata comunque confermata e Ali sarebbe finito in carcere, ma il giudice Potter Stewart era contrariato. Era convinto che il pugile fosse stato condannato per motivi politici, e ora sembrava che la Corte Suprema lo avrebbe spedito dietro le sbarre perché se avessero stabilito che i membri della Nation of Islam potevano essere esentati dal servizio militare, alcuni suoi colleghi temevano un contraccolpo politico. Una simile decisione – non accompagnata da alcuna opinione scritta – si sarebbe rivelata disastrosa in termini di pubbliche relazioni per il dipartimento di Giustizia, e avrebbe potuto trasformare decine di migliaia di neri americani in nuovi musulmani.
Stewart suggerì un compromesso, basato su un cavillo, che avrebbe permesso alla Corte di annullare la condanna di Ali senza creare un precedente e senza decidere se il pugile e gli altri discepoli della Nation of Islam si opponessero sinceramente a qualunque guerra. La commissione d’appello che aveva rigettato il primo ricorso di Ali non aveva argomentato il suo verdetto: non credevano che si opponesse a qualunque guerra? Avevano stabilito che la sua presa di posizione non si basasse su convinzioni religiose? Senza conoscere le ragioni per cui la richiesta di Ali era stata respinta, non era possibile andare avanti e concedergli un dibattito equo. La sola opzione rimasta era l’annullamento della condanna.
Secondo Krattenmaker, Harlan definì quella decisione «facile facile», perché rimediava a un’ingiustizia senza creare un pericoloso precedente legale.945 Una decisione accettabile da tutti i membri della Corte. E infatti, il voto fu unanime.
Erano le 9,15 del mattino del 28 giugno 1971 nel South Side di Chicago, quando Ali venne a sapere la notizia.946 Era in giro con la sua Lincoln Continental Mark III verde e bianca e si era appena fermato davanti a un alimentari per bere una spremuta d’arancia. Stava tornando all’auto con il bicchiere in mano quando il proprietario del negozio era uscito correndo.
«L’ho appena sentito alla radio,» disse l’uomo trafelato «la Corte Suprema ha dichiarato che sei libero. Otto voti a zero».947 L’annuncio arrivava cinquanta mesi dopo il primo rifiuto di accettare l’arruolamento. In quel lasso di tempo, aveva speso circa duecentocinquantamila dollari in avvocati, una somma che sarebbe potuta essere anche più alta se avesse dovuto pagare tutto e se la Naacp e l’American Civil Liberties Union non avessero fornito gratuitamente i propri servizi.948 Il fruttivendolo abbracciò Ali, che lanciò un urlo e tornò dentro per offrire spremuta d’arancia a tutti i clienti.
Quando giunse al Lake TraveLodge, dove alloggiava con moglie e figlie, ad attenderlo c’era un capannello di reporter della televisione e della carta stampata. Ali mantenne un atteggiamento indifferente a beneficio delle telecamere. «Non ho intenzione di festeggiare» disse. «Ho già rivolto una lunga preghiera ad Allah. Ho festeggiato così». Poi proseguì: «Devo lodare Allah che è venuto nella persona del Maestro Faroud Muhammad, ringrazio Allah per avermi dato l’Onorevole Elijah Muhammad e la Corte Suprema per aver riconosciuto la sincerità degli insegnamenti religiosi che ho sposato».949
Si stava allenando per un match previsto per il 26 luglio contro Jimmy Ellis, il suo ex sparring partner e amico di Louisville. Stava anche sondando la possibilità di un incontro con la stella del basket Wilt Chamberlain, che sarebbe potuto essere un avversario interessante in virtù dei suoi due metri e sedici di altezza e i centoventicinque chili di peso. Alla fine, il match in questione non si sarebbe mai tenuto, in parte forse perché Ali, posando per delle foto pubblicitarie con lui in cui fingeva di tirargli un pugno, non era riuscito a resistere e aveva gridato «albero!», l’urlo dei taglialegna quando ne abbattevano uno.950
Ali dichiarò di voler combattere altri tre o quattro incontri prima di ritirarsi. Dopo aver sconfitto Frazier e aver riconquistato il titolo, avrebbe appeso i guantoni al chiodo, sarebbe tornato nella Nation of Islam come ministro e avrebbe passato i giorni in compagnia di moglie e bambine. Spiegò che lui e Belinda desideravano altri figli, di cui almeno cinque maschi. «Non posso rappresentare i musulmani finché non lascio lo sport. Ne ho parlato con Elijah Muhammad, che mi ha detto: “Se hai la boxe nel sangue, è ora di farla uscire”».951
Anche il suo corpo gli stava comunicando che la boxe non era un’opzione percorribile a lungo termine. Da quando aveva combattuto con Frazier, aveva preso almeno quattro chili. Dalla batosta subita al Madison Square Garden si era accorto di non aver abbastanza energie per allenarsi.952 Affermò che prima del suo esilio forzato dal pugilato correva otto-dieci chilometri al giorno, e poi andava in palestra per fare i guanti, saltare la corda e lavorare al sacco. Ora, dopo una corsetta di un paio di chilometri aveva bisogno di fare un pisolino. Era dovuto all’età? Ai tre anni e mezzo di inattività? Ai danni causati dai troppi colpi alla testa? Impossibile da stabilire, fatto sta che non era più lo stesso, sia dentro sia fuori dal ring, e lo sapeva. «Prima passavo tutto il tempo a danzare verso sinistra e verso destra, mi muovevo in continuazione e colpivo. Adesso non più. Mi resta solo un anno. Rischierei solo di trascinarmi e di farmi male. Finirei al tappeto più spesso».
Un reporter gli chiese se avesse intenzione di chiedere i danni a chi lo aveva privato di tre anni e mezzo di carriera. «No. Hanno fatto solo ciò che all’epoca ritenevano giusto. Niente di più».953
Ali aveva sconfitto l’America. Per Donald Reeves, studente nero che incontrò brevemente il pugile durante una sua visita alla Cornell University, Ali era tutto: il Principe Nero, Fratel Coniglietto, Davide-che-aveva-trionfato-su-Golia, un Uomo Invisibile che si rifiutava di non essere visto, un combattente maltrattato che mostrava ai neri cosa servisse per restare imbattuti. Ali era unico ai suoi occhi e a quelli di altri perché non era il leader di un’organizzazione, ma solo un uomo che sembrava essere al centro dei principali problemi del suo tempo. Per trionfare sui suoi avversari Ali utilizzava più il talento della forza; si rifiutava di giocare seguendo le regole dell’establishment; disprezzava il materialismo; affrontava la vita con un sorriso impertinente e uno straordinario senso dell’umorismo. Era un esempio fantastico per Reeves, e la fonte di ispirazione per un saggio che sottopose al «New York Times». «Ogni volta che Ali vince» scrisse Reeves «la vedo come una vittoria per i neri. Per esistere, un nero deve essere il più grande. Deve ripetere incessantemente “sono il più grande”, perché le persone potrebbero dimenticarselo. […] Ali ci tiene a essere guardato, ascoltato, conosciuto, e a conoscere sé stesso. Ha trasceso tutti i limiti imposti ai neri dal sistema bianco – e ovviamente cercano di spedirlo in prigione».954
Fuori dal ring, l’ascendente di Ali era più grande che mai. Aveva messo a rischio la sua carriera, aveva sfidato il governo federale e aveva vinto. Ma quando un cronista gli chiese come avrebbe utilizzato la sua enorme influenza, diede una risposta esitante, per non dire incomprensibile. «Non arriverei a dire che sono diventato un simbolo o un’autorità, mi schiero… con ciò che credo. Alcuni sostengono che sia un atteggiamento americano, altri invece che sia antipatriottico e riprovevole. Ogni individuo deve considerarlo… come vuole. Riguardo a ciò che penso sui diritti umani del movimento nero, la risposta è sempre la stessa. Vedete, dipende dal singolo individuo. Cerco di essere all’altezza delle mie convinzioni fondate sulla mia fede religiosa. Ma spero davvero che questo possa spingere i neri a fare ciò che gli sembra giusto e ad aiutare i loro fratelli nella strada verso la libertà e l’uguaglianza. È bello sapere che qualunque cosa io faccia aiuterà anche qualcun altro a fare del bene. Vorrei dire alla gente nera: bravi! Continuate a darci dentro. Continuate a rispettarvi tra voi e a fare in modo che i giovani possano istruirsi in modo che siano in grado di vivere da soli. Vorrei che tutti i giovani leggessero il “Muhammad Speaks”… La comprensione, la saggezza e la conoscenza che sono in quel giornale non si possono comprare. Andate nelle moschee di Elijah Muhammad. Questo è ciò che vedo, ciò in cui credo, e se amate me, allora vi piacerà anche il mio maestro».955
Dopo la decisione della Corte Suprema, durante le sue visite nei campus universitari Ali non parlò più contro la guerra, né pronunciò più alcun discorso nelle moschee della Nation of Islam, dove per via dell’editto di Elijah Muhammad era ancora indesiderato. Tuttavia, a sorprendere fu quanto poco affrontò questioni razziali e politiche. Dava l’impressione di essere soprattutto felice di poter nuovamente boxare. A sole quattro settimane dall’incontro con Jimmy Ellis, aveva un sacco di lavoro da fare e parecchi chili da buttare giù.
Il 25 giugno, a Daytona, partecipò a un’esibizione di sette round, gran parte dei quali contro un giovane pugile originario di Milwaukee, di nome Eddie Brooks, che secondo Rolly Schwartz, un arbitro olimpionico che assistette alla sfida, assestò dei bei pugni all’ex campione.956 Alla fine Ali era esausto, e le sue affermazioni su un imminente ritiro potevano essere prese sul serio: «Ancora un anno e smetto. Comincio a essere un po’ troppo vecchio per questa roba».957
Ali voleva che i suoi sparring partner gli facessero male. Pensava che la sofferenza fosse un aspetto fondamentale nella preparazione a un incontro, che ci si potesse abituare ai pugni alla testa e al corpo nello stesso modo in cui ci si abitua al cibo speziato mangiando peperoncini jalapeños. Gli effetti di quelle sessioni di guanti nel corso di tutta la carriera non sarebbero mai stati quantificati, ma a volte, anche a breve termine, era evidente che la sua strategia gli si rivoltava contro. A luglio, un giorno Brooks lo colpì al mento spedendolo al tappeto, sulla schiena, nella stessa maniera sorprendente e spettacolare dell’incontro con Frazier. Secondo alcuni resoconti della stampa, nel corso della stessa seduta Brooks lo mandò giù altre due volte, suggerendo che forse il primo ko gli avesse provocato una commozione cerebrale. In un’altra occasione, il campione europeo dei massimi Joe Bugner lo martellò con i suoi rapidi jab sinistri, mentre lui, piantato sui piedi, sembrava incapace di togliersi dalla loro traiettoria, o forse non gli interessava farlo.958 Per schivarli, avrebbe dovuto avere dei riflessi guizzanti e una tecnica che non possedeva più.
Una settimana prima del match, si lamentava ancora del rotolo di grasso che gli circondava il girovita ed evocava ancora il ritiro. Dichiarò che stava valutando una proposta fattagli da una grossa azienda sudafricana per tenere una serie di conferenze in quel paese dilaniato dal punto di vista razziale, aggiungendo di non aver alcuna remora etica a visitare il Sudafrica per conto di una società di bianchi: «Non ho intenzione di iniziare un bel nulla. Parlerò ai neri, ai bianchi e ad alcuni gruppi integrati, a gente di ogni tipo. Forse gli piace il modo in cui noi (musulmani) parliamo di separazione».959
Di fronte a Jimmy Ellis non dovette preoccuparsi delle sue incerte condizioni fisiche, quanto piuttosto dell’assenza al suo angolo di Angelo Dundee. Quest’ultimo infatti era l’allenatore di entrambi i pugili, ma riteneva di avere più responsabilità nei confronti di Ellis perché era anche il suo manager.
Lo sfidante aveva un record di trenta vittorie, con quattordici k.o., e sei sconfitte, e aveva battuto Floyd Patterson, Jerry Quarry e Oscar Bonavena. Secondo Dundee aveva una chance contro Ali, a condizione di tempestarlo al corpo e di stare alla larga dal suo jab.960
Ma il match non andò come aveva sperato Dundee. Ali mise in mostra un atteggiamento pigro, era lento e sovrappeso, ma aveva otto chili in più e possedeva molta più forza del rivale. Utilizzò il suo famigerato jab per impedire a Ellis di accorciare la distanza, come aveva fatto Frazier. I due erano amici d’infanzia. Avevano fatto i guanti assieme per centinaia di round e si erano affrontati da dilettanti. Ali era a suo agio, sicuro, faceva marameo all’avversario, abbassava le mani, danzava in giro per il ring, invitando l’altro a farsi avanti. Eppure, fece arrivare il match fin quasi al termine. Nelle battute iniziali del dodicesimo e ultimo round, lanciò quel genere di attacco a testa bassa tanto atteso dai tifosi. Fu solo allora che l’arbitro mise fine alla sfida.
A bocce ferme, Ali non si scusò per la scialba prestazione offerta. «Non volevo mica ammazzarmi per un incontro come questo. Mi sto solo allenando per Frazier».961
Se si stava davvero allenando per Frazier non aveva certo scelto la strada ideale. Nello spazio di ventisette mesi, a partire dalla sfida con Ellis, Ali combatté ben tredici volte, vale a dire circa ogni sessanta giorni, un ritmo davvero sorprendente. Nello stesso periodo, Frazier salì sul ring soltanto in quattro occasioni. In quell’arco di tempo perfino l’anonimo Jerry Quarry combatté meno di Ali.
Perché un uomo dovrebbe battersi tredici volte in soli ventisette mesi a meno di non esservi costretto? Perché infliggersi 139 riprese contro alcuni tra i pesi massimi più agguerriti, oltre ad altre migliaia con i suoi sparring partner? Perché incassare i 1800 colpi di quei tredici match? A cosa stava pensando? Quel ritmo era forse l’ammissione del fatto che disprezzasse il rigore imposto dagli allenamenti? Che si sentisse obbligato a mettersi alla prova? Che l’unico modo per restare in forma fosse sottoporsi a un fitto calendario di incontri? Aveva bisogno di soldi? Aveva bisogno di combattere spesso per dimostrare di meritare un’altra chance per il titolo? O era qualcosa di ancora peggiore? La sua capacità di giudizio era annebbiata dai danni cerebrali? L’incapacità di sottoporsi ad allenamenti rigorosi era in qualche modo connessa a un appannamento della mente dovuto ai troppi colpi subiti?
Ferdie Pacheco, che all’epoca stava al suo angolo, avrebbe dichiarato di aver riscontrato segni di danni permanenti al cervello di Ali dopo l’incontro con Frazier. Pacheco aggiungeva inoltre di avergli consigliato di smettere.962
Perché il pugile non lo ascoltò?
«Cazzo, se qualcuno vuole guadagnare soldi veloci non ci puoi fare nulla» spiegava Pacheco. «Nulla».963
Nessuno può affermare con certezza in che momento le lesioni cerebrali cominciano a interessare un paziente, ma negli ultimi anni la scienza ha compiuto enormi progressi al fine di identificare i segnali d’allarme, specie tra gli sportivi che ricevono con regolarità colpi alla testa. Verso i trent’anni, i tessuti cerebrali perdono progressivamente di elasticità, rendendoci ogni anno più suscettibili di subire danni permanenti a ogni colpo preso. I boxeur sono particolarmente vulnerabili. Dopotutto, lo scopo di questo sport è causare un trauma cranico all’avversario, mandarlo giù, fargli perdere conoscenza. Tentare di rendere la boxe sicura per chi la pratica significherebbe probabilmente decretarne la fine. I pugili prendono più colpi alla testa di qualunque altro atleta e, nel loro caso, spesso i danni rischiano di non essere valutati correttamente. Nel football americano, quando un giocatore esce per un trauma cranico o per valutare un possibile trauma cranico, viene sostituito. E la partita va avanti. Nella boxe, se un pugile non è in grado continuare, l’incontro finisce e il pubblico va a casa. Nella boxe, la capacità di scuotersi da un trauma alla testa e proseguire testimonia la forza e il coraggio di un atleta. Quando Ali si rialzò subito dopo essere stato spedito a terra dal gancio sinistro di Frazier, i giornalisti e i tifosi ne ammirarono il coraggio e la forza di volontà. Nessuno gli propose di sottoporsi a un test per valutare un’eventuale commozione cerebrale. Il pubblico lo acclamò. Gli uomini al suo angolo lo incitarono a continuare. Nemmeno dopo il match qualcuno si prese la briga di verificare se avesse subito un possibile trauma cranico.
I pericoli a lungo termine della boxe sono studiati dal 1928, quando un medico americano ha impiegato per la prima volta l’espressione punch-drunk, «ubriaco di pugni», per descrivere le disfunzioni cognitive riscontrate nei pugili: perdita della memoria, aggressività, stato confusionale, depressione, difficoltà di articolazione delle parole e, infine, demenza. Oggi, questa espressione viene usata per descrivere l’encefalopatia traumatica cronica, una malattia cerebrale degenerativa causata da traumi ripetuti. Ormai, gli scienziati sanno che perfino una scossa leggera, se reiterata, può causare al cervello dei danni permanenti. I ricercatori hanno studiato gli effetti degli infortuni alla testa sui giocatori di football, e la Nfl ha adottato delle misure per rendere la disciplina più sicura. I pugili, però, incassano più colpi alla testa dei giocatori di football, e in più non indossano caschi per attenuare i danni. In un anno, un pugile sottoposto a un intenso calendario riceve probabilmente più di mille colpi alla testa durante i match e altre diverse migliaia nel corso degli allenamenti. In una carriera decennale, i traumi di questo tipo possono essere decine di migliaia, ma nel mondo della boxe non esiste una procedura per stabilire quando una carriera debba essere interrotta. Negli Stati Uniti sono le commissioni statali a governare la boxe. Un pugile che non ottiene la licenza in uno Stato, prova da qualche altra parte. Non c’è nessun organismo nazionale o internazionale che fissi le regole o che si assuma la responsabilità di intervenire.
Ali subì tutti quei colpi alla testa? Sì, con tutta probabilità. Mentre entrava in quella che sarebbe stata poi descritta la fase migliore della sua carriera, c’erano già segnali preoccupanti, indizi che avrebbero dovuto dare l’allarme, visibili dal 1971 ogni volta che apriva bocca.
L’atto di parlare non è così semplice come appare. I circuiti dell’eloquio e del linguaggio nel cervello lavorano assieme per formare un messaggio e poi tradurlo in movimento attraverso più di cento muscoli, dai polmoni fino alla lingua e alle labbra, attraverso la gola, ed eseguono quei complessi movimenti muscolari che producono le onde sonore. È molto più difficile sferrare o evitare un jab. Ecco perché la difficoltà di articolazione del linguaggio è spesso uno dei primi indicatori di gravi lesioni o di malattie neurologiche. Ecco perché alcolizzati, vittime di arresti cardiaci e pazienti colpiti da malattie neurologiche come il Parkinson o la sclerosi laterale amiotrofica sbiascicano le parole. I segnali inviati dal cervello al corpo sono troppo compromessi perché tutto funzioni come dovrebbe. Secondo uno studio pubblicato nel 2017 da alcuni specialisti del campo dell’Arizona State University, nel 1967 Ali parlava al ritmo di 4,07 sillabe al secondo, vicino alla media di un adulto sano. Nel 1971, era calato a 3,8 sillabe, e la discesa sarebbe proseguita inesorabilmente, anno dopo anno, match dopo match, per tutta la sua carriera. Lo studio in questione esaminava i discorsi di Ali prendendo in considerazione decine di interviste televisive e analizzando la sua voce nel corso del tempo. Un comune adulto tra i venticinque e i quarant’anni non ha alcuna alterazione o quasi nella velocità di parola, mentre in quell’arco di tempo Ali subì un calo di oltre il 26 per cento. E anche la sua capacità di articolare le parole con chiarezza diminuì sensibilmente.
Il pugile impertinente fu ridotto poco a poco al silenzio, e non dal governo o dai critici, ma da sé stesso.
Aveva sempre dichiarato che non sarebbe finito come molti pugili del passato: con la bava alla bocca, rintronati, la memoria annebbiata, mettendo in mostra gli effetti di tutti quei pugni subiti per il resto della vita, come ombre in una vetrina di trofei.
Ma al pari di quei pugili, neanche lui si era accorto che era proprio quello che gli stava accadendo.
Centoquattordici giorni dopo il match contro Ellis, avrebbe affrontato Buster Mathis all’Astrodome di Houston. La vendita dei biglietti stava andando a rilento, e Ali non riusciva a trovare nulla di cattivo sull’avversario per risvegliare un po’ di interesse sulla sfida. Le sue sceneggiate stavano diventando vecchie. Le sue poesie erano ormai familiari. Gli sfottò a Howard Cosell trasmettevano la sensazione di un numero ben oliato. Le sue spacconate non stupivano più nessuno. Sapeva ancora come intrattenere il pubblico, ma non era più capace di irritare o sorprendere.
Quando il pubblicitario Bob Goodman gli fece sapere che avevano bisogno di qualcosa per attirare l’attenzione sull’incontro, il volto di Ali si illuminò. «Ce l’ho. Puoi farmi rapire! Chiudimi in una capanna in mezzo ai boschi. Mi allenerò lì. Nessuno ne saprà niente. E a pochi giorni dall’incontro mi troverete!».964 Goodman lo assecondò e disse che era una buona idea – a eccezione del fatto che probabilmente la gente non avrebbe comprato dei biglietti per un match in cui uno dei due pugili era sparito. Alla fine, solo 21.000 persone assistettero alla vittoria ai punti con decisione unanime di Ali contro Mathis.
Trentanove giorni più tardi affrontò Jürgen Blin, vincendo per ko alla settima ripresa. Novantasette giorni dopo combatté con Mac Foster, un incontro che durò quindici inutili round. A trentasette giorni di distanza sfidò e sconfisse George Chuvalo per la seconda volta. Cinquantasette giorni dopo, Jerry Quarry dovette arrendersi nel corso del settimo round a causa delle ferite subite. Ventidue giorni più tardi, tartassò Alvin Blue Lewis prima di chiudere la pratica all’undicesima ripresa. Dopo sessantatré giorni, danzò intorno a Floyd Patterson per alcuni round fino a quando provocò all’ex campione un taglio che lo costrinse a interrompere il suo ultimo match della carriera. Altri sessantadue giorni e all’ottavo round mise ko Bob Foster (che comunque riuscì a mandare a bersaglio parecchi jab pungenti e una delle migliori frasi mai pronunciate riguardo alla difficoltà di affrontare Ali: «Non era mai in un solo posto nello stesso tempo!»965).
Ottantacinque giorni dopo, nel giorno di San Valentino del 1973, maltrattò Bugner, senza però riuscire a metterlo al tappeto e vincendo ai punti con decisione unanime un match di violenza inaudita.
Ali faceva sembrare tutto facile, il che non corrispondeva affatto alla realtà. Quel jab folgorante, l’armonioso gioco di gambe, la potenza improvvisa. Esibiva tutto il suo repertorio con grazia e sicurezza: «Mi spiace, amico,» sembrava dire «ma io sono Ali».
Era sempre in viaggio, felicissimo. La mattina si allenava e di sera guardava la televisione. Nel suo letto sfilava un continuo viavai di donne. Si divertiva con Bundini. Scherzava con Dundee – lo stesso genere di scherzi fatti da bambino ai genitori, attaccando il filo alla tenda della sua stanza d’albergo e tirandolo fino alla porta, nascondendosi nell’armadio e spuntando fuori con un lenzuolo sopra la testa.966 In compagnia dei suoi amici del mondo della boxe, poteva tornare a essere un ragazzino.
Dopo l’incontro con Bugner aveva portato il suo record a quaranta vittorie e una sola sconfitta. Tutti quei match erano necessari? Probabilmente no, ma lo aiutarono a recuperare un po’ di brillantezza sul ring, dimostrando che non era ancora pronto ad abbandonarlo.
Di certo, le alternative non gli mancavano. La Warner Bros gli aveva offerto 250.000 dollari, oltre a una percentuale sugli incassi, per recitare nel Paradiso può attendere, remake di un film del 1941 intitolato L’inafferrabile signor Jordan, in cui l’anima veniva estratta prematuramente dal corpo di un pugile da un angelo troppo ansioso e messa nel corpo di un milionario ucciso da poco. Quando Ali rifiutò la parte, Warren Beatty, il regista, riservò per sé il ruolo da protagonista, dedito non più al pugilato ma al football americano. Il film, uscito nel 1978, ebbe un grande successo al botteghino e ricevette critiche entusiastiche. Se Ali avesse accettato, e se la sua interpretazione fosse stata accolta positivamente, forse la parabola della sua carriera sarebbe cambiata. Per il momento, continuava a essere un pugile. Hollywood poteva anche essere un’opportunità, ma il pugilato era una certezza e i soldi in ballo erano troppi perché potesse resistervi. Sfortunatamente, pagò anche un prezzo: perfino in quegli incontri relativamente facili, incassò oltre milleduecento pugni.
In parte il problema nasceva dal fatto che non era dotato di sufficiente potenza per chiudere in fretta un match, anche al cospetto di avversari mediocri. Nel corso della loro sfida, Foster andò al tappeto sette volte, ma in seguito si mostrò sprezzante rispetto alla forza del rivale. Riguardo a Frazier e ai suoi colpi, invece, Foster aveva detto: «Ho visto gli uccellini e ogni tipo di colore possibile. Pare che mi sia rialzato, ma onestamente non me lo ricordo».967 Ben diversi i suoi commenti su Ali, che anche quando vinceva con agio raramente schiacciava gli avversari. «Non li metteva ko,» spiegava Foster «cazzo, si limitava a stancarli. Finivano la benzina, non ce la facevano più… Mi ha mandato al tappeto sei o sette volte, ma non mi ha mai fatto male… Ali sa di non avermi fatto male!».
935. Muhammad Ali’s Philadelphia Story, «The Philadelphia Citizen», 6 giugno 2016.
936. Plimpton, Shadow Box, cit., p. 200.
937. Ibid., p. 201.
938. Ibid., p. 203.
939. Ibid., p. 204.
940. Ibid., p. 206.
941. “Classification Questionnaire”, Selective Service System, 13 marzo 1961, National Archives and Records Administration.
942. Marty Lederman, The Story of Cassius Clay vs United States, ScotusBlog.com, 8 giugno 2016, http://www.scotusblog. com/2016/06/muhammad-ali-conscientious-objection-and-the-supreme-courtsstruggle-to-understand-jihad-and-holy-war-the-story-of-cassius-clay-v-unitedstates.
943. Ibid.
944. Elijah Muhammad, op. cit., p. 322.
945. Intervista dell’autore con Thomas Krattenmaker, 29 giugno 2016.
946. A Day for Victory Outside Ring, «The New York Times», 29 giugno 1971.
947. Ibid.
948. Judges’ Decision Today: 5-3-1, Favor Ali?, «The New York Times», 28 giugno 1971.
949. A Day for Victory Outside Ring, art. cit.
950. Ali’s Remark Ended Wilt’s Ring Career, «Los Angeles Times», 15 gennaio 1989.
951. Ali Will Quit after Fighting Joe, «Lompoc (CA) Record», 23 giugno 1971.
952. A Day for Victory Outside Ring, art. cit.
953. Ibid.
954. Donald Reeves, The Black Prince, «The New York Times», 17 maggio 1971.
955. Muhammad Ali: World’s Greatest Fighter, «The Sacramento Observer», 25 febbraio 1971.
956. Tired Ali Unimpressive in Dayton Exhibition, Hints at Retirement, «Xenia (OH) Daily Gazette», 26 giugno 1971.
957. Ibid.
958. Ali Gets Down to Serious Work, «The New York Times», 24 luglio 1971.
959. The Lip Hits Deck, «Pacific Stars and Stripes», 24 luglio 1971.
960. Ibid.
961. Ali Stops Ellis in Closing Minute of 12th Round, «The New York Times», 27 luglio 1971.
962. Intervista dell’autore a Ferdie Pacheco, 30 dicembre 2013.
963. Ibid.
964. Intervista dell’autore a Bob Goodman, 4 dicembre 2014.
965. Intervista dell’autore a Bob Foster, 12 giugno 2014.
966. Intervista a Angelo Dundee, Espn Classic.
967. Intervista dell’autore a Bob Foster, 12 giugno 2014.