37. Una battaglia da portare a termine

Ali parcheggiò la Rolls-Royce grigia a un paio di metri dall’entrata del Roosevelt Hotel di New York e chiese a uno dei suoi amici di tenerla d’occhio per evitare di prendere una multa.1 Uscì dall’auto sotto un sole caldo e poi entrò nell’albergo, dove con Ken Norton avrebbe dovuto tenere una conferenza stampa per annunciare la loro intenzione di affrontarsi di nuovo il 10 settembre al Forum di Inglewood, Los Angeles, California. Ma una volta dentro, anziché dirigersi dove erano riuniti i reporter e i fotografi, Ali si lasciò cadere su una sedia in fondo alla sala e attese che i presenti venissero da lui. Cosa che ovviamente accadde.

Il suo era un tentativo di mostrarsi umile. In realtà, la sua interpretazione fu così convincente che un giornalista dichiarò che avrebbe dovuto ricevere l’Oscar appena rifiutato da Marlon Brando per la sua interpretazione nel Padrino.

«È stata la cosa migliore che mi sia mai accaduta» disse il nuovo Ali con atteggiamento in apparenza modesto, riferendosi alla batosta subita per mano di Norton.2

In bocca aveva ancora alcuni dei fili inseriti durante l’operazione per sistemare la mandibola rotta. I dottori sostenevano che tutto sarebbe tornato come prima, ma lui dichiarò che la sconfitta e quel grave infortunio lo avevano spinto a riconsiderare la sua vita, a rallentare, a staccare il telefono e a passare più tempo con i figli.

«Ne avevo proprio bisogno» affermò massaggiandosi la mascella e guardando Norton.3 «Grazie. Davvero».

Con indosso una camicia a maniche corte, giurò che d’ora in avanti sarebbe stato meno arrogante. Si sarebbe preparato meglio per il prossimo incontro. Se avesse perso di nuovo con Norton, continuò, a nessuno sarebbe importato nulla se avrebbe incontrato Frazier o Foreman. Perché sarebbe stato Norton il legittimo contendente al titolo, e lui sarebbe stato relegato in secondo piano.

«Avevo proprio bisogno di perdere quel match. È stato un bagno di umiltà necessario. Andrò ad allenarmi tra i boschi nel mio centro a Deer Lake, in Pennsylvania, e arriverò a Los Angeles solo pochi giorni prima dell’incontro. Alloggerò in una casa privata, basta hotel, basta tutta quella roba. Ci diamo un taglio. Basta sciocchezze».4

La rottura della mandibola ebbe perlomeno un risvolto positivo: per oltre quattro mesi e mezzo, Ali non prese nemmeno un pugno alla testa. Fino a metà agosto si rimise in forma senza mai fare i guanti con nessuno. Solo a quel punto, a quattro settimane dalla sfida, permise agli sparring partner di colpirlo. E subito dopo condivise la buona notizia con i giornalisti: la mandibola stava benone. Altro segnale incoraggiante: era sceso a novantacinque chili, ossia cinque in meno rispetto all’ultima volta che era salito sul ring.

Più invecchiava, e più faticava a concentrarsi per l’allenamento. A Deer Lake si svegliava ogni mattina alle quattro e mezza e faceva risuonare una campana da chiesa di trecentocinquanta chili comprata da un antiquario locale, per far sapere a tutti quelli che stavano lì che era sveglio e si era già messo al lavoro. Ali si circondò di oggetti di antiquariato. Voleva che il posto trasmettesse una sensazione di solidità. Quando Belinda andava a trovarlo, si sedevano in un vecchio calesse a due posti e osservavano il cielo in cerca dell’aereo madre citato da Elijah Muhammad nei suoi sermoni.5

Assunse una persona per trasportare nella proprietà alcune rocce, su cui il padre scrisse con la vernice il nome di campioni del passato. I primi furono Joe Louis e Rocky Marciano.

La tenuta non aveva nulla di lussuoso. C’erano sedie pieghevoli di metallo, sedie a dondolo di legno, tavoli di compensato e pavimenti di legno grezzo. Le pareti della palestra erano decorate con foto e copertine di riviste che ritraevano Ali, e con numerosi specchi. Quando il pugile non si allenava, il bungalow che ospitava la sala da pranzo era il centro di tutte le attività, il luogo dove tutti si riunivano per mangiare, bere e scherzare. La cucina aveva due fornelli, un lavello doppio, due frigoriferi, due taglieri e un paio di macchine per il caffè. Sul muro di fronte alla porta, Cash aveva dipinto un grosso cartello che recitava:

Regole della mia CUCINA

1. Siete Preggati di NON ENTRARE senza l’autorizzazione esplicita della cuocca.

2. La CUOCCA designa chi lava le pentole chi lucida le padelle chi sbuccia e raschia. La CUOCCA detiene L’AUTORITÀ SUPREMA SEMPRE.

3. NON SARÀ TOLLERATA NESSUNA RIMOSTRANZA su toast anneriti, zuppa troppo liquida e troppo aglio nello spezzattino.

4. Ciò che va nello spezzattino e nella zuppa non è affarre di NESSUNO.

5. Se proprio DOVETE mettere un dito in qualcosa ficcatelo nel bidone della spazzatura.

6. NON CRITICATE il caffè anche voi un giorno potreste essere vechi e scialbi.

7. CHIUNQUE invita qualcuno a cena senza avvertire riceverà una botta in testa con un oggetto afilato.

8. SIETE PREGATI DI ATENDERE Roma non è bruciata in un giorno e ci vuole un po’ per brucciare l’AROSTO.

9. SE PROPRIO DOVETE FREGGARE qualcosa in questa cuccina FREGGATE LA CUOCCA.

10. Questa è la mia cucina se non ci creddete iniziate a FARE QUALCOSA.

All’entrata non c’erano cancelli. La maggior parte delle porte era priva di serrature. I visitatori andavano e venivano a loro piacimento. Ali era facilmente accessibile. «C’era un andirivieni di celebrità e gente dello spettacolo, aspiranti pugili, persone che ambivano a diventare qualcuno» ricordava il promoter Bob Goodman.6 Perché ad Ali piaceva così. Quando si faceva dei nuovi amici, li invitava a lavorare al centro. Quando compariva un nuovo volto, gli habitué chiedevano: «E lui cosa fa?». Ad Ali non importava. Presumeva che i suoi nuovi impiegati avrebbero trovato un modo per rendersi utili oppure si sarebbero annoiati e avrebbero levato le tende.

«Appena un tizio stringe la mano di Muhammad, diventa subito il suo agente, il suo manager… gente disposta a fare tutto per te» spiegava Angelo Dundee, sull’orlo dell’esasperazione.7

Ali, a quell’epoca, nelle sei settimane di preparazione per un match normale, diceva di versare circa duecentomila dollari al suo entourage, di cui cinquantamila per Dundee, cinquemila per Rahaman, diecimila per Gene Kilroy e così via.8 Kilroy era uno dei pochi ad avere un ruolo ben definito. Si occupava dei viaggi. Quando squillava il telefono, era lui a rispondere e a decidere se chi era in linea fosse degno del tempo di Ali. Quando Marlon Brando o Ted Kennedy volevano incontrare il campione, era lui a interessarsi ai dettagli. Quando il pugile vide al telegiornale che una casa di riposo ebrea stava per chiudere perché non riusciva a pagare l’affitto, Kilroy fece una chiamata per fissargli una visita riservata e controllò che la struttura ricevesse i soldi di cui aveva bisogno. Pat Patterson, un ex poliziotto di Chicago, si occupava della sicurezza. Così come Walter «Blood» Youngblood, che in seguito avrebbe cambiato il proprio nome in Wali Muhammad. L’ex giornalista Lloyd Wells pensava a procurare le donne, per Ali e per chiunque fosse in cerca di rapporti sessuali occasionali.9 C.B. Atkins faceva da autista e da consigliere. La cuoca era Lana Shabazz, che preparava stinchi di agnello, bistecche, torte di fagioli e immense coppe di gelato per dessert. Bundini mangiava, beveva, motivava e intratteneva. Howard Bingham e Lowell Riley scattavano foto. Ralph Thornton parcheggiava le auto e spazzava i pavimenti. Booker Johnson dava una mano in cucina. Luis Sarria, il massaggiatore, era anche il suo personal trainer e lo sottoponeva a ore di addominali e di squat.

Anche Belinda e i bambini visitavano Deer Lake, ma di solito non si fermavano a lungo. I genitori passavano spesso. Rahaman era una colonna portante e il miglior sparring partner del fratello. Angelo Dundee invece si palesava solo quando si avvicinava il match e l’allenamento diventava serio.

I conflitti erano inevitabili, e le scazzottate non erano una rarità. L’unico collante di quella banda variopinta era Ali, la cui felicità era contagiosa. «Quelle persone sono la sua piccola città» disse una volta Herbert Muhammad. «Lui è lo sceriffo, il giudice, il sindaco e il tesoriere».10 Quando si annoiava, il pugile suggeriva una visita a un ospedale pediatrico o una passeggiata in un’affollata lobby di un hotel, dove sapeva che sarebbe stato riconosciuto. A volte apriva l’elenco telefonico e chiamava numeri a caso per vedere come avrebbero reagito degli sconosciuti all’altro capo del filo ricevendo una telefonata di Muhammad Ali. Quando la madre di Kilroy ebbe un infarto, Ali telefonò all’ospedale e chiese alle infermiere che ricevesse le migliori cure possibili. «La trattarono come la regina di Saba» ricordava il figlio.11 E quando la donna si riprese, Ali visitò la struttura della contea di Bucks, in Pennsylvania, per ringraziare chi l’aveva ricoperta di attenzioni.

«Lo amavamo tutti» diceva Lowell Riley, il fotografo assunto da Herbert per scattare fotografie per conto del «Muhammad Speaks». «Non lo facevamo per soldi. Penso che volessimo stare con lui per com’era… Non sapevamo nemmeno quanto ci avrebbe pagato. Dopo gli incontri, lui e Herbert si sedevano e ti arrivava un assegno. Non avevamo contratti».12

In quel periodo, Ali perse uno dei personaggi più coloriti della sua cerchia. Nell’estate del 1973, Major Coxson e la moglie furono uccisi nella loro casa del New Jersey. Girarono voci che i mandanti di quell’omicidio, simile a un’esecuzione, appartenessero alla mafia nera di Philadelphia. Ma anche senza Coxson il campo era un perenne carnevale, con giornalisti che comparivano e scomparivano così in fretta che il pugile perlopiù non si degnava nemmeno di impararne i nomi. Alcuni di quelli che si proclamavano manager o agenti avevano i loro trucchi per arrotondare le entrate. Uno di loro spiegava ai giornalisti che le interviste con il pugile costavano cinquanta dollari, una somma che ovviamente finiva dritta nelle sue tasche.13 Una volta, un membro dell’entourage presentò ad Ali un uomo nero su una sedia a rotelle con un cappello dei Dodgers. Il personaggio in questione, al quale erano state amputate entrambe le gambe, si presentò come Roy Campanella, l’ex giocatore dei Dodgers, e disse di avere un disperato bisogno di denaro. Tutti, compreso Ali, sapevano che non si trattava del vecchio giocatore di baseball. Ciononostante, il pugile tirò fuori una mazzetta di banconote e gliela regalò.

Poi, quando Dundee gli chiese perché avesse dato dei soldi a un palese truffatore, replicò: «Ang, noi le gambe ce le abbiamo».14

Malgrado tutte le distrazioni di Deer Lake, Ali ce la mise tutta per essere pronto per Norton. Dundee affermò che il suo atleta non era mai stato così in forma.15

E Ali, che ormai aveva smesso di fingersi umile, concordò: «Sono uno spettacolo per il mondo intero. Norton non ha una sola possibilità, perché danzerò per tutta la notte! Oh, amico, non avrò un grammo di grasso, nemmeno l’ombra, sarò in condizioni perfette per danzare. Siete tutti invitati al Gran Ballo di Muhammad Ali».16

«Sei tu quello speciale» gridò Bundini all’inizio del primo round mentre Ali attraversava il ring in direzione di Norton.17

Norton avanzò, la mano destra a protezione del mento e muovendo la sinistra davanti a sé. Ali assunse la stessa postura, seppur con le mani decisamente più basse dell’avversario. I loro piedi sinistri si trovavano a pochi centimetri l’uno dall’altro quando volarono i primi colpi, un sinistro corto di Norton seguito da un destro corto di Ali.

Tutto il round trascorse tra urla e respiri pesanti.

Ali danzò, come promesso, e fu sufficiente per eccitare da subito gli spettatori. Avevano pagato per vedere quella versione di Ali, anche se per il momento non si erano visti né colpi incisivi né sangue.

Norton si comportava come se i pugni dell’altro non gli facessero nulla, come se fosse disposto a incassare jab finché avesse avuto la possibilità di ricambiare. Cosa che avvenne.

Nel quinto round Ali rallentò in maniera quasi impercettibile. Era ancora sulle punte, sempre in movimento, ma Norton adesso si faceva strada con più facilità. Alla fine del round, Norton accorciò le distanze e rimase lì, affondando un pugno dopo l’altro nel fegato del rivale.

«Sei mio!» gridò Norton al suono del gong.

Nella sesta ripresa entrambi i pugili mandarono a segno colpi violenti, e il volto di Norton cominciò a gonfiarsi sotto l’occhio destro. La sua fiducia era altalenante. Nella settima, seguì il rivale in giro per il ring, martellandolo con fendenti roboanti, e proseguì nel suo assalto anche nell’ottava, andando a bersaglio con un gancio che fece strabuzzare gli occhi ad Ali, per la sorpresa o per il dolore. Nel corso della nona si scambiarono le bordate più pesanti, come cannoni che si bombardano da distanza ravvicinata. I commentatori televisivi gridavano in preda all’eccitazione. Il pubblico reclamava a gran voce di volerne ancora.

All’inizio del dodicesimo e ultimo round, era difficile prevedere chi dei due pugili fosse in vantaggio ai punti. Erano entrambi esausti, entrambi provati. Se non ci fosse stato un ko, la decisione sarebbe stata nelle mani dei giudici seduti a bordo ring.

Ali uscì dall’angolo danzando di nuovo, senza dubbio nel tentativo di mostrare ai giudici che era ancora fresco, ancora in forze, sebbene non lo fosse. Sferrò i primi colpi efficaci del round, e continuò in quel modo. Tempestò Norton, sommergendolo di pugni, impedendogli di pensare o di ribattere. Quei tre minuti erano una prova di forza, e a vincerla fu Ali. Al gong finale, era così carico di adrenalina – o forse così furioso per non essere stato in grado di assumere prima le redini del match – che tornando all’angolo colpì per sbaglio Bundini Brown. Poi si appoggiò con espressione calma ai tenditori delle corde e attese il verdetto.

L’annuncio arrivò in fretta: Ali aveva vinto per decisione non unanime.

Non gongolò. Non saltò in giro per il ring proclamandosi «il più grande». Sorrise mestamente e offrì una confessione.

«Sono più stanco del solito» dichiarò al centro del ring. Si fermò, prima di aggiungere: «A causa della mia età». Di lì a quattro mesi avrebbe compiuto trentadue anni.

Quattro mesi e mezzo dopo aver sconfitto Norton, Ali affrontò per la seconda volta Joe Frazier. Senza cintura in ballo, e considerando che Frazier era stato massacrato da Foreman, l’incontro non aveva la stessa portata drammatica della prima volta. Ciononostante, il vincitore avrebbe avuto la possibilità di sfidare Foreman e riprendersi la corona. Inoltre, era indubbio che Frazier fosse la scintilla capace di accendere alcune caratteristiche fondamentali di Ali.

Quest’ultimo aveva sempre deriso gli avversari, e curiosamente aveva tormentato più i neri dei bianchi. Con i bianchi tendeva a scherzare. A volte arrivava perfino a elogiarli per la loro intelligenza e la loro durezza. È possibile che per i match con i pugili bianchi avesse la sensazione di non doversi impegnare più di tanto per far vendere i biglietti. Al contrario, nei confronti dei neri era capace di esibire una vera e propria rabbia. Tentò di disumanizzare molti dei suoi avversari neri, così come avevano tentato di fare a lungo i suprematisti bianchi. Aveva etichettato Liston un «brutto orso», Patterson un coniglio ed Ernie Terrell uno Zio Tom. Alcuni sostenevano che agisse in quel modo per insicurezza – perché proveniva da una famiglia relativamente stabile e da un quartiere relativamente agiato, a differenza di alcuni dei suoi rivali, cresciuti in condizioni più modeste. Un comportamento decisamente perverso, se si pensa al tempo che aveva passato a elevare la propria razza. E ora, prima della rivincita contro Frazier, stava toccando il fondo. I suoi attacchi erano più meschini, più personali e più sprezzanti, e suggerivano che per una volta si sentiva davvero minacciato.

Ali si era convinto di aver vinto la prima sfida con Frazier, che fossero stati i giudici ad aver preso la decisione sbagliata. E di questo cercò di convincere anche stampa e tifosi. Tirò poi fuori le sue vecchie rimostranze sul rivale, definendolo troppo ignorante e troppo brutto per essere un vero campione. Intervista dopo intervista, Ali lo bollava come stupido e indegno del rispetto dei tifosi neri. Mentre gli altri avversari erano riusciti a snobbare le provocazioni di Ali o a riderci su, Frazier non ne fu capace. Era ferito, e si vedeva. Si mise sulla difensiva, citando le sue credenziali come uomo del popolo e ricordando ai giornalisti di essersi sempre comportato bene con l’avversario, di averlo sempre apprezzato e di aver perfino cercato di aiutarlo durante il suo esilio dalla boxe.

Ali non sembrava fare distinzioni tra un rivale e un nemico, e nessuno gli intimò di chiudere la bocca. Nessuno gli disse che si stava comportando in maniera immatura. Il 24 gennaio del 1974, a quattro giorni dal match, Ali e Frazier si trovarono in uno studio televisivo di New York insieme a Howard Cosell per rivedere e commentare la loro prima sfida. Avevano promesso di non parlare dei rispettivi ricoveri in ospedale dopo quel primo match. Ali era ancora sensibile riguardo ai danni inflittigli da Frazier alla mascella, e quest’ultimo era tuttora arrabbiato perché l’altro si era vantato di essere rimasto meno di lui in ospedale dopo l’incontro.

Per buona parte della trasmissione i due fecero i bravi, ma quando il filmato del match si avvicinò alla fine e le telecamere indugiarono sulla guancia gonfia come un pallone di Ali, Frazier non riuscì a trattenersi: «Ecco perché è finito all’ospedale».

L’altro lo fissò. «Sono stato in ospedale dieci minuti» disse. «Tu ci sei rimasto un mese. Adesso vedi di stare zitto».

«Mi stavo riposando» rispose Frazier.

«Io non volevo nemmeno andarci in ospedale… il che dimostra quanto sei scarso» replicò Ali. «Insomma, ma lo vedete quanto è ignorante quest’uomo?».

Frazier scattò dalla sedia, si tolse l’auricolare e squadrò l’altro dall’alto in basso.

«E come l’avresti capito che sono ignorante?».

Il volto di Ali si illuminò di un’aria maliziosa.

«Siediti, Joe. Siediti, Joe».

Il fratello di Ali entrò sul set, pronto ad affrontare Frazier.

«Vuoi immischiarti anche tu?» gli chiese Frazier.18

Ali si alzò e mise un braccio intorno al collo del rivale, che si abbassò cercando di divincolarsi. «Siediti, sveltina Joe» disse Ali. Frazier gli diede una spallata nel fegato, e poi i due si ritrovarono a rotolare per terra mentre i membri dei rispettivi entourage accorrevano per separarli. Non ci fu nessun vero pugno e nessuno si fece male.

Frazier si raddrizzò e uscì. Ali si risistemò il completo e tornò a sedersi accanto a Cosell.

In seguito, entrambi si videro comminare una multa di cinquemila dollari per condotta giudicata degradante per la boxe.

Quattro giorni dopo il loro alterco televisivo, al Madison Square Garden si svolse il vero match. Nella boxe, così come nel cinema, i sequel tendono spesso a essere deludenti. Nel caso di Ali-Frazier parte seconda, i due erano un po’ più vecchi, un po’ più bolsi, ma il loro secondo scontro fu tutt’altro che deludente.

Questa volta Ali non fece il pagliaccio. Danzò. Mosse le gambe. Nel primo round subissò l’avversario di jab e combinazioni, sovrastandolo. Dominò anche nel secondo mettendo in seria difficoltà il rivale, che però si salvò grazie a un colpo di fortuna: a dieci secondi dal gong, l’arbitro Tony Perez credette per errore che la ripresa fosse terminata e fermò Ali che stava per chiudere in bellezza.

Col trascorrere dell’incontro, Ali evitò gli scambi a viso aperto e si tenne alla larga dalle corde. Si muoveva lateralmente, saltellando, sfruttando tutto il ring, non affidandosi solo al jab ma mischiando ganci e combinazioni. Quando l’altro cercava di accorciare nel tentativo di affondare colpi all’addome, Ali gli passava il braccio sinistro intorno al collo chiudendo poi la presa con il destro. Un altro arbitro avrebbe potuto intimargli di smetterla di legare e affibbiargli una penalità, ma Perez glielo consentì per quasi tutta la durata del match.

Sebbene all’incontro mancasse il ritmo e l’atmosfera da incubo della prima volta, fu comunque alquanto violento. Centinaia di colpi brutali raggiunsero il bersaglio. Dopo cinque round, Ali aveva rallentato un po’ la sua azione e Frazier aveva l’occhio destro gonfio. Quest’ultimo mandò a segno alcuni incisivi ganci sinistri, in particolare nella settima e nell’ottava ripresa, ma Ali riuscì sempre a legare e a sventare gli attacchi. All’inizio della nona, Frazier uscì dall’angolo sorridendo, invitando l’altro a venirgli contro, e Ali non se lo fece ripetere. Nonostante il sangue che fuoriusciva dal naso e il viso sempre più gonfio, disputò il miglior round della serata, conquistando punti grazie a rapide combinazioni accompagnate dalla folla che scandiva il suo nome.

Negli ultimi tre round i due contendenti tennero un ritmo frenetico, scambiandosi bordate e dando tutto ciò che avevano in corpo. Il boato del pubblico del Madison Square Garden cresceva insieme alla violenza della battaglia. Il match era sul filo dell’equilibrio. I due avevano portato all’incirca lo stesso numero di colpi. Quelli di Frazier erano probabilmente più potenti, ma Ali si muoveva in maniera più elegante e sembrava più attivo. Frazier non era abbastanza veloce o forte per bloccare l’avversario alle corde com’era accaduto tre anni prima.

Ali aveva il naso ricoperto di sangue e gli occhi pesti. Il volto di Frazier ricordava un vecchio bidone della spazzatura in alluminio che fatica a conservare la sua forma originaria. Nella dodicesima ripresa Ali ricominciò con il gioco di gambe e sferrò combinazioni fulminee, ma l’altro replicò con diversi fendenti al volto. «Devi bloccarlo per vincere!» gridò Dundee, mentre il suo pugile inseguiva per il ring l’avversario e il tempo scorreva.19 È possibile che stesse semplicemente incitando il suo atleta o che fosse davvero convinto che Frazier fosse in vantaggio ai punti.

Quando suonò il gong finale, Ali si diresse all’angolo, affollato da un bislacco gruppetto di uomini: Ali si dondolava da un piede all’altro, Bundini aveva l’espressione corrucciata, Kilroy perlustrava il perimetro, Rahaman e Angelo Dundee sembravano inermi e inquieti come dei futuri padri nella sala d’attesa di un reparto maternità.20 Il ring si riempì di fotografi, reporter e tifosi che fingevano di avere il diritto di trovarsi lì. Erano tutti in attesa.

Red Smith del «New York Times», da sempre critico nei confronti di Ali, riteneva che avesse vinto Frazier, che gli aggressivi e tonanti pugni di Joe avessero inferto più danni dei ficcanti jab di Ali, scagliati mentre arretrava.21 Poteva essere vero. E, come suggeriva lo stesso Smith, forse era anche vero che Ali conquistasse dei round per il solo fatto di essere Muhammad Ali, la più grande stella del firmamento della boxe. Il che non significa per forza che le decisioni dei giudici pendessero dalla sua parte perché lo apprezzavano o perché vederlo vincere significava incrementare gli interessi economici delle persone coinvolte in quello sport. Poteva esserci una ragione più semplice e impercettibile. Molto semplicemente, Ali attirava più attenzioni di qualunque altro pugile. Combatteva con così tanta eleganza che era difficile staccargli gli occhi di dosso.

Faziosi o meno, i giudici giunsero a una decisione unanime: il vincitore era Ali.

Nello spogliatoio Ali mangiò un ghiacciolo con le labbra gonfie. Riconobbe i meriti di Frazier, affermando: «Per due volte mi ha tolto la terra da sotto i piedi». Ma, aggiunse, era riuscito a sopravvivere «perché ho la capacità di tirarmi fuori dai guai».22

Aveva sconfitto il rivale perché si era allenato duramente, aveva combattuto con intelligenza, legando e mostrando una capacità sbalorditiva di restare in piedi pur venendo tartassato da pugni che avrebbero mandato al tappeto qualunque altro essere umano, o quasi.

In seguito, qualcuno gli chiese cosa si provasse a essere colpito da Frazier. «Prendete un ramo di un albero e picchiatelo a terra, e sentirete la vostra mano fare boingggggg…» disse. «Ecco, farvi pestare produce lo stesso genere di scossa in tutto il corpo, e ci vogliono almeno dieci o venti secondi per liberarsene. Ma nel frattempo ti colpiscono di nuovo, e ti becchi un altro boingggggg… Sei frastornato e non sai dove sei. Non c’è dolore, solo una sensazione di scuotimento. Ma quando mi succede so già come comportarmi, in automatico, un po’ come un impianto di spegnimento che scatta quando c’è un principio di incendio. Quando rimango intontito, non so esattamente dove mi trovo e cosa sta accadendo, ma mi dico sempre che devo continuare a danzare, correre, legare, abbassare la testa. Me lo ripeto sempre quando sono cosciente, e così quando rimango tramortito viene fuori in automatico».23

Nelle settimane e nei mesi successivi al match, un aspro dibattito oppose giornalisti e tifosi: i giudici avevano preso la decisione corretta? Era il classico genere di interrogativi convulsi che segue una sfida rimasta in bilico fino all’ultimo. Ali aveva vinto, e due fatti erano incontestabili: Ali e Frazier restavano due straordinari guerrieri malgrado il declino della loro classe, e tutto il mondo stava già reclamando a gran voce la bella.

1. New Act, Same Ali, «The Ames (IA) Daily Tribune», 4 maggio 1973.

2. Ibid.

3. Wired Jaw Fails to Silence a Humble Ali, «The New York Times», 4 maggio 1973.

4. Ibid.

5. Richard Hoffer, Bouts of Mania, Da Capo Press, Boston, 2014, p. 118.

6. Intervista dell’autore a Bob Goodman, 4 dicembre 2014.

7. Angelo Dundee, trascrizione dell’intervista a Espn SportsCentury, s.d., per gentile concessione di Espn.

8. Ali, of Course, Favors Louisville Bout, But , «The Louisville Courier-Journal», 25 marzo 1975.

9. Intervista dell’autore a Khalilah Camacho-Ali, 21 novembre 2014.

10. Ali and His Entourage, «Sports Illustrated», 25 aprile 1988.

11. Ibid.

12. Intervista dell’autore a Lowell Riley, 14 marzo 2014.

13. Angelo Dundee, trascrizione dell’intervista a Espn SportsCentury, cit.

14. Ibid.

15. Sights and Sounds from Muhammad Ali, «The New York Times», 6 settembre 1973.

16. Ali Is “Dancing” on His Mountaintop, «The New York Times», 26 agosto 1973.

17. Ali vs Norton II, www.youtube.com.

18. Muhammad Ali, Joe Frazier Scuffle in TV Studio, Abc-TV, 24 gennaio 1974, http://abcnews.go.com/WNT/video/muhammad-ali-joe-frazier-scuffle-tv-studio-14906366.

19. Once More, from Memory This Time, «The New York Times», 29 gennaio 1974.

20. Muhammad Ali vs Joe Frazier 2 Full Fight, www.youtube.com.

21. Daniel Okrent (a cura di), American Pastimes: The Very Best of Red Smith, Literary Classics of the United States, New York, 2013, p. 418.

22. Ali Says “No Bad Feeling between Us”, and Talks of Super Fight III, «The New York Times», 29 gennaio 1974.

23. Playboy Interview: Muhammad Ali, novembre 1975.