38. Cuore di tenebra

Era il giorno di San Valentino del 1974, George Foreman continuava a passeggiare in tondo in un parcheggio di un motel di Dublin, California, cinquanta chilometri a est di San Francisco.24 Don King lo tallonava.

Malgrado fosse il campione mondiale dei massimi, Foreman non era felice. Il suo matrimonio era finito.25 Non aveva fiducia nei suoi manager.26 Guardava con diffidenza le celebrità e gli speculatori che si atteggiavano come se fossero i suoi nuovi migliori amici. E sentiva anche la mancanza della madre. Per Ali, il titolo dei pesi massimi era stato una corsa su un tappeto volante, tutta emozioni, svolte rapide e viaggi verso destinazioni esotiche. Per Foreman era invece una fonte di tristezza. Aveva generato in lui un «vuoto terribile». A suo dire, stava diventando «ogni giorno più meschino».27

Big George si stava preparando per sfidare Ken Norton, ma chi ne capiva di soldi lo stava già esortando a pensare più in là e a raggiungere un accordo per incontrare Ali, sostenendo che sarebbe stato il più grande incasso nella storia dello sport. Foreman non sapeva di chi fidarsi. Adesso era Don King a corteggiarlo. Foreman girava in tondo per il parcheggio con Don King alle calcagna, che non smetteva di parlare e agitava dei fogli di carta.28

Da una delle stanze dell’hotel, il socio di King, Hank Schwartz, osservava dalla finestra i due uomini descrivere dei cerchi. Ecco il motivo per cui Schwartz aveva scelto proprio King per la sua società di televisione a circuito chiuso, la Video Techniques: aveva bisogno di qualcuno capace di legare con i pugili e conquistare la loro fiducia. Ma in quel momento si chiese: che cosa stava dicendo? Perché ci stava mettendo così tanto? E che cos’erano quei fogli che aveva in mano?

In seguito King avrebbe ricordato la sua conversazione con Foreman: «George,» disse «so che c’è gente che ti ha fottuto. Ma lascia che ti dica questo: ti sto dando l’occasione di guadagnare cinque milioni di dollari. Non farti sfuggire quest’opportunità».29

Foreman non ci credeva. Non credeva che Ali avrebbe combattuto con lui.

«Posso consegnartelo» disse King. «Ho la sua parola».

King aveva già incontrato Ali e Herbert Muhammad, e aveva esortato il pugile a rifiutare un accordo con Bob Arum che voleva organizzare una rivincita con Jerry Quarry. King sosteneva che Arum non fosse in grado di comprendere l’essenza nera di Ali e non capisse quanto sarebbe stato importante, agli occhi dei neri di tutto il mondo, che Ali riconquistasse il titolo portatogli via dal governo bianco e razzista dell’America. «Non è un match come un altro» aveva argomentato. «Libertà. Giustizia. Ecco cosa conquisterai per il tuo popolo riprendendoti la cintura».30 Poi si era addentrato nei dettagli economici, spiegando che avrebbe dato cinque milioni a ciascun pugile – una cifra che rasentava l’assurdo, il doppio di quanto intascato da Ali e Frazier per la loro rivincita nel 1971. A testimonianza della sua serietà, King disse che gli avrebbe dato un anticipo di centomila dollari alla firma del contratto il 15 febbraio, altri centomila il 25 dello stesso mese, una lettera di credito di 2,3 milioni il 15 marzo e una per i restanti 2,5 milioni novanta giorni prima del match.31 Se King avesse saltato una sola scadenza, Ali avrebbe potuto tenersi i soldi già ricevuti e rinunciare al match. E se non fosse stato in grado di raggiungere un accordo simile con Foreman, l’intesa sarebbe stata invalidata e Ali si sarebbe potuto tenere i primi centomila dollari.

Ecco perché King si trovava in quel momento davanti al motel di Foreman: per perorare la sua causa. Diceva il vero quando affermava che Ali aveva acconsentito alla sfida. King non sapeva come avrebbe fatto a racimolare i soldi per pagare i due pugili – con Schwartz non avevano nemmeno il denaro sufficiente per i primi centomila dollari destinati a ciascun contendente. Ma quello era un problema di cui si sarebbe occupato più tardi.

«Questa è la mia proposta» disse a Foreman. Si fermò, imitato dal pugile. Indicò il suo braccio. «E io sono nero. È un’occasione, un’occasione irripetibile per mostrare a tutti i neri che, insieme, possiamo avere successo. Come nessuno ha mai creduto».32

Brandì i fogli sotto il naso di Foreman. Alla fine, dopo due ore a fare su e giù per il parcheggio, il campione firmò.33

Poco dopo, quello stesso giorno, King rintracciò il socio al bar del motel e gli mostrò i documenti. I fogli erano completamente bianchi a eccezione delle firme di Foreman. Una di queste era all’altezza del primo terzo della pagina, l’altra in mezzo e una in fondo. King aveva spiegato al pugile che avrebbe riempito le pagine con tutti i dettagli necessari e poi le avrebbe sottoposte al suo avvocato. Avrebbe deciso quale firma utilizzare in base alla lunghezza del contratto.34

Alla fine, promise King, Foreman avrebbe preso duecentomila dollari più di Ali. A quest’ultimo, invece, aveva promesso esattamente il contrario.35

A dispetto delle belle parole di Don King, il match tra Ali e Foreman non avrebbe portato giustizia e libertà ai neri d’America. Ma restava pur sempre un accordo importante. Dopo tre anni e mezzo lontano dalla boxe, Ali si era ripreso la scena, aveva sconfitto gli unici due pugili capaci di batterlo e si era guadagnato la possibilità di misurarsi per il titolo mondiale, l’onore individuale più alto per uno sportivo, un titolo che aveva strappato a Sonny Liston e che gli era stato sottratto dal governo degli Stati Uniti, il titolo che anelava da quando si chiamava ancora Cassius Clay Jr ed era un ragazzino smilzo che si allenava con un poliziotto bianco nel seminterrato del Columbia Auditorium, nella città di Louisville, Kentucky, in un’epoca in cui vigeva ancora la segregazione razziale.

All’alba dei trentadue anni, dopo averne trascorsi molti ad autoproclamarsi «il più grande di tutti i tempi», stirando le ultime due vocali con intento enfatico, «il più grande di tuttiii i tempiii!», ora avrebbe avuto un’altra possibilità per dimostrarlo.

Erano passati vent’anni da quando si era allacciato per la prima volta un paio di guantoni da boxe sotto lo sguardo di Joe Martin e dieci da quando aveva battuto Liston e annunciato la sua adesione alla Nation of Islam. Nell’arco di quel decennio era passato da eroe a cattivo e di nuovo eroe. Aveva combattuto la legge, il razzismo, le autorità bianche che ritenevano che un atleta nero dovesse limitarsi a fare il proprio lavoro e tenere la bocca chiusa. Aveva sempre combattuto contro un nemico, anche se, a un osservatore distratto, sembrava inventarselo lungo il percorso, scegliendo le cause religiose e politiche in modo capriccioso, come avrebbe potuto fare un uccello che decide su quale cavo telefonico posarsi. La sua schiettezza e il suo entusiasmo spingevano la gente a credere in lui, qualunque cosa dicesse. Andy Warhol, che la sapeva lunga su immaginario e icone popolari, dopo averlo incontrato all’inizio degli anni Settanta, commentò: «Non fa che ripetere di continuo le stesse frasi semplici finendo per bombardare le orecchie delle persone. Ma può dire quello che vuole grazie al suo splendido aspetto».36

Nel 1973, i leader americani e quelli vietnamiti avevano ormai trovato un accordo per porre fine alla guerra. La battaglia per i diritti civili aveva in buona parte lasciato le strade spostandosi nei tribunali e nelle assemblee legislative statali e federali. Ali sembrava uscire sempre vittorioso, sempre dalla parte giusta di ogni questione sociale rilevante.

Anche nel rapporto con la Nation of Islam, il suo istinto e la sua buona sorte lo avevano aiutato. Anni prima, l’annuncio della sua adesione al gruppo religioso gli era costato in termini di popolarità e di sostenitori. Lo aveva costretto a una scelta dolorosa tra l’amico Malcolm X e il mentore Elijah Muhammad. Lo aveva reso un emarginato del movimento per i diritti civili. Ma, nello stesso tempo, la Nation of Islam lo aveva dotato di disciplina e capacità di concentrazione, codici di vita da seguire sempre, e gli aveva trasmesso la sensazione di avere un obiettivo e di appartenere a una comunità. «Se non ci fosse stata la Nation of Islam» diceva Kilroy «avrebbe rischiato di ritrovarsi a pulire le fermate degli autobus di Louisville».37

Perfino la sua espulsione si era rivelata un colpo di fortuna. La Nation of Islam stava perdendo influenza nella cultura americana e nei primi anni Settanta iniziava a disgregarsi. Un’inchiesta del «New York Times» rivelò che l’organizzazione era a corto di soldi e che alcuni membri si stavano dedicando a furti con scasso, estorsione e rapine.38 Per rimpolpare le casse, Muhammad Ali era stato mandato in Libia, dove aveva incontrato il presidente locale Gheddafi e il dittatore dell’Uganda Idi Amin Dada per ottenere prestiti e donazioni.39 In Uganda, Amin Dada chiese ad Ali di combattere contro di lui, un privilegio che sarebbe stato ricompensato con 500.000 dollari in contanti. Di fronte all’esitazione del pugile, Amin indicò una pistola: «E adesso che mi dici, Muhammad Ali?».40 Ali disse che era giunto il momento di lasciare l’Uganda. Gheddafi ebbe un atteggiamento più amichevole e offrì tre milioni. Ma la Nation of Islam navigava ancora in cattive acque. Secondo il «Times» Elijah Muhammad soffriva di demenza senile e aveva perso il controllo dell’organizzazione. Da un punto di vista operativo il suo posto era stato preso da John Ali, il segretario nazionale, che cercò più finanziamenti in Medio Oriente e promise che la Nation of Islam avrebbe ammorbidito le sue posizioni contro i bianchi e si sarebbe rivolta verso un islam più tradizionale. Non fu un caso che mentre cercava di riconquistarsi una chance per il titolo mondiale, e via via che la sua popolarità cresceva, Ali smise del tutto di parlare di astronavi che sarebbero arrivate per eliminare la razza bianca, smise di esigere che l’America bianca cedesse un’enorme quantità di terreni per creare una nazione indipendente nera, smise di definire i bianchi diavoli dagli occhi azzurri, smise di elogiare segregazionisti come George Wallace e smise di presentarsi con fez e farfallino ai raduni di musulmani. Escludendo il tappeto da preghiera che teneva nel bagagliaio dell’auto e le urla occasionali che lo apostrofavano come «negro renitente alla leva», non era così diverso da molti altri idoli dello sport americano. Negli anni Settanta, non era raro trovare alla parete della stanza di un ragazzino bianco di periferia il poster di Ali accanto a quelli di Mark Spitz, Walt Frazier, Pete Rose e Franco Harris.

Non tutti, però, amavano la nuova versione del pugile. «Quando tornò al pugilato divenne il beniamino dell’America» diceva Jim Brown «e questo fu un bene per il paese, perché l’ammirazione per lui era trasversale a neri e bianchi e offrì loro un terreno comune. Ma l’Ali di cui l’America finì per innamorarsi non era più lo stesso di cui mi ero innamorato io. Per lui non provavo più il sentimento di un tempo, perché il combattente che amavo era svanito. In qualche modo era diventato parte dell’establishment».41 Brown era inoltre rimasto sconcertato dall’etichetta di Zio Tom che Ali aveva usato per infangare Joe Frazier e altri pugili afroamericani. A suo parere «era un colpo sotto la cintura».42

Brown aveva ragione. Ali si era avvicinato all’opinione dominante americana, e l’opinione dominante americana si era avvicinata a lui. La riprova arrivò nel 1974, due sere dopo la battaglia tra Ali e Frazier al Madison Square Garden, quando Bob Dylan si esibì nella stessa arena. Negli anni Sessanta Ali era stato accusato di essere antipatriottico, e Dylan definito un cantante folk hippy. Avevano entrambi tenuto duro, ma alcuni provavano tristezza nel vederli adesso: due sopravvissuti in un’epoca a cui nessuno dei due apparteneva davvero. Gli anni Sessanta erano finiti e, malgrado il rumore e i punti messi a segno dai dimostranti durante quello straordinario decennio, la sensazione prevalente era che si fosse persa l’occasione per una trasformazione fondamentale, che il governo americano fosse indifferente e autocratico come sempre, che il paese continuasse a essere spaccato da ineguaglianze basate su razza e classe sociale. La grande ribellione non aveva raggiunto il proprio obiettivo. Gli hippy stavano voltando pagina, trovavano un lavoro e si spostavano in periferia. Tiravano fuori le loro vecchie magliette sporche e i loro jeans solo per andare ai concerti di Bob Dylan, ma il mattino successivo si rimettevano il completo e la cravatta per dirigersi nei loro uffici in centro. Le loro prese di posizione e le loro canzoni piene di energia non avevano sortito grande effetto.

Nel suo match contro Foreman, Ali avrebbe cercato per l’ennesima volta di mostrare la propria rilevanza. Si sarebbe trovato al centro di uno dei più grandi spettacoli che il mondo avesse mai visto, che avrebbe forse contribuito più di ogni altra cosa a definire il suo lascito, non solo come pugile ma anche come eroe nero.

Adesso che Foreman e Ali avevano siglato i contratti, o quantomeno dei fogli bianchi che sarebbero diventati tali in seguito, King e Schwartz dovevano trovare al più presto dieci milioni di dollari e una sede per l’incontro. Due o tre giorni dopo aver ottenuto le firme di Foreman, Schwartz prese un aereo diretto a Londra per incontrare un possibile investitore, mentre King si rivolse a Jerry Perenchio, l’uomo che aveva organizzato la prima sfida tra Ali e Frazier. Andò male a entrambi. Ormai mancavano solo una manciata di giorni al primo versamento – centomila dollari a ciascun pugile – e pochi mesi per procacciarsi i restanti dieci milioni.

A furia di brigare, Schwartz trovò un investitore inglese disposto a offrirgli 200.000 dollari, permettendogli così di guadagnare un po’ di tempo. Secondo un memorandum dell’Fbi, King e Schwartz ricevettero inoltre 500.000 dollari da un pezzo grosso del crimine organizzato di Cleveland, la città natale di King.43 Ma non erano comunque abbastanza. Un giorno, Schwartz fu contattato da un americano che lavorava come consulente finanziario in Germania e Belgio.44 Uno dei suoi clienti era Joseph Mobutu, il sanguinario dittatore dello Zaire che possedeva in Svizzera miliardi messi da parte illegalmente dopo anni passati a confondere il ministero del Tesoro zairese e i suoi conti personali. Definito un «caveau ambulante con un cappello in pelliccia di leopardo», Mobutu si era appropriato delle ricchezze del suo paese e aveva mandato in bancarotta la sua moralità.45 Il consulente finanziario dichiarò che il suo cliente avrebbe coperto tutte le spese dell’incontro, anticipando dieci milioni di dollari, a condizione che si svolgesse in Zaire.

L’Antartico? La Siberia? Una nave in mezzo all’oceano Indiano? C’era sulla faccia della terra un luogo meno inverosimile dello Zaire per organizzare un evento sportivo di tale portata?

Lo Zaire era una delle nazioni più povere, corrotte, politicamente instabili, inaccessibili e indecifrabili del pianeta; aveva ispirato Joseph Conrad per il suo Cuore di tenebra, un luogo dove perfino in pieno Ventesimo secolo la maggioranza della popolazione era composta da cacciatori-raccoglitori che vivevano in villaggi rurali sprovvisti di elettricità e acqua corrente, che non comunicavano con telefono, televisione o radio, ma attraverso una rete di fiumi nascosti dalla giungla; un posto dove chi contestava o indisponeva il regime di solito veniva giustiziato.

Ma davanti a tutto questo Schwartz si limitò a replicare: «Io me ne sbatto».46

Ebreo di Brooklyn e veterano della Seconda guerra mondiale, Schwartz se ne sbatteva del fatto di essere in trattative con un consulente economico che rappresentava un feroce dittatore. A lui e a King non importava che il più grande stadio dello Zaire potesse accogliere solo 35.000 persone e non avesse un parcheggio attiguo. A loro non importava che l’incontro si sarebbe dovuto svolgere alle quattro di mattina di Kinshasa per poter essere visto alle dieci di sera sulla costa Est degli Stati Uniti, o che avrebbe potuto essere annullato se le piogge stagionali fossero arrivate in anticipo rispetto al solito. A loro non importava che praticamente tutto il materiale necessario per la trasmissione televisiva sarebbe dovuto arrivare dall’America o dall’Europa. E che Kinshasa, una città di un milione e mezzo di abitanti, avesse soltanto cinquecento stanze d’albergo degne di tal nome. E che, come scrisse Norman Mailer, i giornalisti o i tifosi che avessero voluto recarsi in Zaire per l’incontro, avrebbero potuto viaggiare solo dopo «essersi vaccinati contro colera, vaiolo, febbre tifoide, tetano, epatite… per non parlare delle iniezioni contro la febbre gialla e delle pillole per la malaria». Peraltro, a loro non importava nemmeno che un incontro per il titolo dei massimi in Zaire avrebbe consolidato il potere di Mobutu e causato ulteriori sofferenze a ventidue milioni di zairesi, che ne avevano già subite in ingenti quantità.47

Neanche a Muhammad Ali importava. E se la situazione politica in Zaire o le conseguenze morali di fare affari in quel paese in qualche modo lo turbavano, non lo disse mai. Era Ali. Le consuete norme di comportamento per lui non valevano. La sua razza, la sua religione, la sfida al suo stesso governo, il suo rifiuto di partecipare alla guerra in Vietnam lo avevano reso uno dei simboli di ribellione più visibili al mondo. Per certi versi combattere in Africa aveva senso, e bastava a spazzare via tutto il resto. Per Don King sarebbe stato un «happening nero simbolico», e quella vaga glorificazione trovava il favore di Ali. Così come, ovviamente, i cinque milioni di dollari. Ma l’uomo di spettacolo e il mago delle pubbliche relazioni che si nascondevano nel pugile capirono immediatamente la potenza dell’immagine: due neri americani che si affrontavano per il titolo mondiale dei massimi nel cuore dell’Africa, il continente dove i loro antenati erano stati venduti come schiavi, un posto dove i neri stavano ancora lottando per liberarsi dal colonialismo. Il vincitore di quel match sarebbe diventato il più grande guerriero nero del pianeta, l’uomo che aveva il coraggio di sfidare i demoni, l’uomo che aveva sconfitto la supremazia bianca, il vero campione della gente di colore, privata del diritto di voto e umiliata in tutto il mondo.

L’accordo era stato raggiunto. Ali avrebbe affrontato Foreman il 25 settembre del 1974, a Kinshasa.

Quantomeno, Ali doveva avere una vaga conoscenza della storia recente dello Zaire. Nel 1963, dopo l’assassinio di John F. Kennedy, Malcolm X aveva fatto infuriare Elijah Muhammad criticando il presidente e lasciando intendere che aveva avuto ciò che si meritava. All’epoca, l’attenzione si era concentrata sulla frase «si raccoglie sempre ciò che si semina», ma negli altri suoi commenti, Malcolm aveva elencato i crimini di cui si erano macchiati Kennedy e la sua amministrazione, crimini che includevano tra gli altri l’omicidio di Patrice Lumumba, il primo capo di governo nero dello Zaire (all’epoca nota come Repubblica Democratica del Congo).

Naturalmente, i problemi dello Zaire erano iniziati ben prima di Kennedy. Per oltre un secolo, il paese centrafricano era stato squassato da alcuni dei peggiori scandali, delle più sporche truffe e dei più ferali doppi giochi che il mondo avesse mai visto. Grande all’incirca come tutta l’Europa occidentale, il paese possedeva incredibili ricchezze: oro, diamanti, cobalto, rame, stagno e tantalio. Nel Diciannovesimo secolo, il re del Belgio Leopoldo II aveva costruito la propria fortuna e rafforzato l’economia del suo paese esportando immense risorse dal Congo che, senza mai averci messo piede, trattava come la sua colonia personale. Per estrarre i minerali aveva fatto ricorso al lavoro forzato, e quando i lavoratori si opponevano venivano puniti. Le schiene erano flagellate a colpi di frusta, le mani amputate con il machete, i corpi trapassati con le baionette e gettati nei fiumi. Conrad si ispirò a personaggi di quell’epoca per creare il colonnello Kurtz di Cuore di tenebra, che infilzava sulle sue staccionate le teste degli africani che aveva punito mentre lavoravano per estrarre avorio, caucciù e altro. Nel 1908 il Congo era diventato ufficialmente una colonia belga. Nel 1960 aveva conquistato la libertà come Repubblica del Congo, prima di diventare Repubblica Democratica del Congo. Nel 1965, all’età di trentacinque anni, Joseph-Désiré Mobutu aveva assunto la presidenza, grazie all’appoggio statunitense. Nel 1971, aveva cambiato il nome del paese in Zaire e si era ribattezzato Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Za Banga, che significava «il guerriero onnipotente che, grazie alla sua resistenza e alla sua irremovibile volontà di vincere, andrà di conquista in conquista lasciandosi dietro il fuoco». Come segno di umiltà, Mobutu aveva vietato i titoli come «eccellenza» e «presidente», e con lo stesso spirito di modestia ed egualitarismo aveva bandito dal paese anche le cravatte, una mossa che nel 1974 gli avrebbe fatto conquistare parecchi punti tra i giornalisti sportivi.

Mobutu aveva ben presente il potere dei soldi. I soldi gli permettevano di comprare aerei da caccia per il suo esercito e ottenere così la forza necessaria per rinsaldare la propria posizione, arricchirsi ancora di più e mandare i figli a studiare in Belgio o comprare dimore stravaganti a Bruxelles e Parigi. I soldi avrebbero obbligato il grande Muhammad Ali a venire in Zaire, e con lui sarebbero arrivate anche le televisioni. Muhammad Ali non avrebbe risolto i problemi del paese. Non lo avrebbe catapultato nel Ventesimo secolo e non avrebbe posto fine a secoli di sofferenza. Ma la sua presenza avrebbe promosso la reputazione di Mobutu, e avrebbe mostrato al mondo che almeno un po’ di ordine era stato imposto in quello che era stato a lungo uno dei paesi più caotici e pericolosi della terra.

24. Intervista dell’autore a Hank Schwartz, 27 luglio 2016.

25. Newfield, op. cit., p. 52.

26. George Foreman, By George: The Autobiography of George Foreman, Villard Books, New York, 1995, pp 99-100.

27. Ibid., p. 99.

28. Intervista dell’autore a Hank Schwartz, 27 luglio 2016.

29. The Fight’s Lone Arranger, «Sports Illustrated», 2 settembre 1974.

30. Ibid.

31. Intervista dell’autore a Hank Schwartz, 27 luglio 2016.

32. The Fight’s Lone Arranger, art. cit.

33. Intervista dell’autore a Hank Schwartz, 27 luglio 2016.

34. Ibid.

35. Hank Schwartz, From the Corners of the Ring to the Corners of the Earth, Civcom, Valley Stream, NY, 2009-10, p. 155.

36. Victor Bockris, Muhammad Ali In Fighter’s Heaven, Cooper Square Press, New York, 2000, pp 125-126.

37. Intervista dell’autore a Gene Kilroy, 16 maggio 2014.

38. Black Muslim Group in Trouble from Financial Problems and Some Crime, «The New York Times», 6 dicembre 1973.

40. Kram, Ghosts of Manila, cit., p. 9.

42. Intervista dell’autore a Jim Brown, 25 giugno 2014.

43. Memorandum dell’Fbi, 11 marzo 1975, Herbert Muhammad File, Malcolm X Manning Marable Collection, cit.

44. Intervista dell’autore a Hank Schwartz, 27 luglio 2016.

45. The Man Who Stole a Country, «Mail and Guardian (Johannesburg)», 12 settembre 1997.

46. Ibid.

47. Zaire Prepares with Pride to Become Battleground for Foreman Ali Fight, «The New York Times», 2 luglio 1974.