41. Rumble in the jungle

Erano le due del mattino del 30 ottobre, il giorno del match. Muhammad Ali era in piedi sulla riva dell’imponente fiume Zaire, un tempo noto come Congo. Alberi caduti venivano trascinati dalla corrente come fiammiferi. In cielo brillava una luna pallida. L’aria era calda e umida. Ali, vestito di nero, era circondato dai suoi uomini più fidati. Rimasero in silenzio, come soldati che si stavano preparando a una missione pericolosa.

Un’ora più tardi, nel suo spogliatoio all’interno dello stadio di Kinshasa, il pugile cercò di allentare la tensione.

«Beh, che avete? Ve la state facendo tutti addosso?».130

Disse che il film che avevano visto la sera prima, Gli orrori del castello di Norimberga, quello sì che faceva paura, non certo Foreman. «È soltanto l’ennesimo giorno spettacolare nella vita di Muhammad Ali!». Alzò gli occhi al cielo, fingendo di aver paura, e poi indossò un paio di pantaloncini con bordi neri e una lunga vestaglia a frange decorata con un motivo africano nero. Di solito era Bundini a scegliere le vestaglie, e in quel momento ne aveva una tra le braccia, con i colori dello Zaire e una mappa del paese all’altezza del cuore. Ma Ali non voleva mettere quella suggerita dall’amico.

«Guarda qua, questa è tutta un’altra cosa» disse il pugile, roteando di fronte uno specchio. «È africana. Guarda nello specchio».131

Bundini si rifiutò.

Ali lo schiaffeggiò.

«Quando ti dico di guardare, lo fai! Non provarci mai più!».

Ma Bundini non guardò.

Ali lo schiaffeggiò di nuovo.

Tuttavia, l’altro si rifiutò per l’ennesima volta di prendere atto della vestaglia di Ali.

Il pugile fece spallucce e si sedette in fondo al lettino per i massaggi, sotto le pale dei ventilatori che giravano lentamente sul soffitto. Mormorò a bassa voce tra sé e sé una cantilena. Recitò vecchie poesie e gli slogan preferiti, come se stesse passando in rassegna la propria carriera: «Fluttua come una farfalla, pungi come un’ape… non puoi colpire ciò che non vedi… mi hanno spezzato… sono andato giù… ma non mi hanno messo ko… quando ti mettono ko dev’essere buio… dev’essere strano venire fermati dall’arbitro». Poi concluse: «Su! Andiamo a fare una rissa nella giungla!».

Saltò giù dal lettino e tentò di confortare Bundini. «Bundini!» gridò. «Che ne pensi, danziamo?».

Nessuna risposta.

«Non danziamo, Bundini? Sai che non posso farlo senza di te».

L’amico era ancora triste. Alla fine rispose: «Dannazione, campione. Per tutta la notte».

«Danziamo con lui?».

«Per tutta la notte!».

Una voce annunciò: «Dieci minuti».

Dundee bendò le mani di Ali e quindi si assicurò di prendere con sé tutto il necessario per il match: bastoncini cotonati nel taschino della camicia, una fiala di sali dietro all’orecchio, polvere coagulante e garze nella tasca posteriore sinistra dei pantaloni, coagulanti liquidi e forbici chirurgiche in quella destra e un kit con borsa del ghiaccio, altre garze, un paio di lacci supplementari, un paradenti di riserva e altri sali.

Herbert condusse il pugile in bagno – l’unico posto dove potevano avere un po’ di privacy – e pregò con lui.

Ali attraversò con calma lo stadio fino al ring, circondato dalla solita cricca – Rahaman, Dundee, Herbert, Bundini, Kilroy, tutti con l’aria da funerale – e da decine di soldati zairesi con elmetti bianchi. Un ritratto gigante di Mobutu si stagliava sopra lo stadio. Ali sorrise quando sfilò davanti a Joe Frazier, seduto in prima fila, poi superò le corde e iniziò a scaldarsi e a boxare con l’ombra. Si tolse la vestaglia, il corpo scuro scintillante sotto le luci del ring mentre un assortimento di volti scuri lo osservava muoversi. Mentre danzava e agitava le braccia, la folla scandì il suo nome come se avesse provato quel momento per mesi. E, per certi versi, era stato proprio così.

Erano quasi le quattro del mattino. Migliaia di sedie vicine al quadrato erano vuote. Si trattava di quelle da duecentocinquanta dollari, riservate agli americani e agli europei che Don King aveva sperato di convincere a venire fin lì. Ma oltre la cerchia degli eletti, più di quarantamila zairesi attendevano in un ampio e basso ovale che si estendeva in lontananza. A quelli che occupavano i posti più economici, Ali e Foreman sarebbero sembrati due puntini scuri i cui gesti rapidi e discreti sarebbero stati difficili da discernere. Sopra il ring era stato eretto un tetto ondulato per proteggere i pugili in caso di acquazzoni tropicali, riducendo così ulteriormente la visuale ai posti più distanti. Gli spettatori sembravano indifferenti a quel problema o all’eventualità di inzupparsi in caso di pioggia. Avevano atteso svegli tutta la notte. Adesso era arrivato finalmente il momento dell’azione. «Ali boma ye!» cantavano. E il pugile agitava il braccio guidandoli come un direttore d’orchestra.

In tutto il mondo, la gente era pronta ad assistere all’incontro. In parecchi paesi sarebbe stato visto gratuitamente sulle televisioni di casa. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Canada le persone andarono nei cinema per guardarlo sul grande schermo. A New York, dove il match sarebbe iniziato alle dieci di sera ora locale, circa duemila appassionati avrebbero riempito la Grand Ballroom del Waldorf-Astoria, pagando ottantacinque dollari per match, cena e whisky a volontà.132 Nei drive in della zona di New York, i prezzi erano di circa ottanta dollari a macchina. Al Madison Square Garden, dove si erano radunati anche ex campioni come Jack Dempsey, Jimmy Braddock e Gene Tunney, il prezzo era di trenta dollari a persona. Perfino fuori dalla Grande Mela i biglietti erano cari, arrivando per esempio a venti dollari a Milwaukee e a diciassette a Salt Lake City. Ali si era pavoneggiato affermando che il match avrebbe avuto due miliardi di spettatori. Non sarebbe stato così. Cinquanta milioni lo avrebbero visto in diretta, mentre tra i trecento e i cinquecento milioni lo avrebbero guardato in differita.133 Ciononostante si trattava di un numero enorme e, per molti di loro, Ali non era solo un pugile sfavorito, un americano nero e un musulmano. Era un simbolo di ribellione.

A Kinshasa il cielo prometteva pioggia. Ma aleggiava anche una minaccia di violenza. Un paese intero attendeva quel momento da mesi. Centinaia di soldati circondavano il ring e si erano piazzati in punti strategici dello stadio – abbastanza per trasmettere un’impressione di forza, ma non per tenere a bada quarantamila zairesi se le nuvole si fossero aperte e il diluvio avesse impedito il match o, peggio ancora, se Foreman avesse finito il rivale con una sola legnata.

Arrivò anche Foreman. Una banda suonò prima l’inno americano e poi quello zairese. Mentre Dundee gli infilava i guantoni da otto once, Ali gridò in direzione del rivale, schernendolo. Continuò a provocarlo anche quando l’arbitro Zack Clayton chiamò i contendenti al centro del quadrato per ripassare le regole. «Idiota!» gli urlò. «Ti farai prendere a calci davanti a tutti questi africani!».134

L’arbitro gli ordinò di chiudere la bocca, ma lui non obbedì. «Senti parlare di quanto sono feroce da quando eri un bambinetto che se la faceva addosso!» ringhiò. «Stasera te ne darò tante da farti piangere come un neonato!».135

Il gong suonò. Dopo aver ripetuto senza sosta per mesi che avrebbe danzato, che per sconfiggere un avversario lento di piedi come Foreman bisognava danzare, e dopo aver ripetuto pochi istanti prima, negli spogliatoi, che era arrivato finalmente il momento di danzare, Ali non lo fece. Invece, avanzò pesantemente verso il centro del ring, come un uomo animato da una pulsione di morte, andando incontro all’avversario.

I cronisti appollaiati intorno al quadrato si alzarono in piedi.

«Oh mio Dio, è truccato» gridò Plimpton, riuscendo a malapena a sentire la propria voce nel boato generale.136 Pensava che il pugile sarebbe rimasto immobile, prendendosi un solo pugno e cadendo a terra come aveva fatto Sonny Liston a Lewiston.

Ma Ali aveva altre idee per la testa. Alcune settimane prima del match, aveva chiesto consiglio a Cus D’Amato. Il leggendario allenatore gli aveva spiegato che Foreman era un bullo, e che il modo migliore per combattere un bullo era colpirlo forte per primo. Mostrargli di non avere paura.137

Ed è ciò che fece Ali. Mandò a segno i primi due pugni, e per i primi trenta secondi continuò in quel modo, troppo impegnato per darsi la pena di danzare. Quando Foreman prese il controllo delle operazioni, chiudendolo all’angolo, i secondi di Ali urlarono a squarciagola, allarmati, come se lui fosse un nuotatore finito per sbaglio nei pressi di uno squalo. Ma anche lì, invece di danzare via, si spostò dall’angolo alle corde che, come aveva scritto Plimpton su «Sports Illustrated», per un «pugile sfinito di solito erano il primo passo verso il tappeto».138 Assomigliava a un suicidio pugilistico, se non fosse stato che la maggior parte dei colpi del campione andava a vuoto o finiva sulle braccia di Ali. Ben presto, quest’ultimo era di nuovo al centro del ring, da dove assestò un solido diretto destro al volto del rivale. Foreman replicò con un sinistro deciso alla testa.

Il round proseguì in quel modo, con due marcantoni che si scambiavano bordate, accompagnati dalle urla della folla. Ali sorprese tutti mostrandosi deciso a battersi a viso aperto, mentre l’altro lasciava partire pugni larghi, ampi e inefficaci, convinto di aver bisogno di un solo colpo ben assestato. Furono tre minuti emozionanti. Alla fine del round, Foreman si sedette sullo sgabello e sorrise. Era il suo genere di match. Se l’intenzione di Ali era scambiarsi pugni, lui si sarebbe volentieri adeguato. Se Ali voleva starsene alle corde e lasciarsi investire dai suoi colpi migliori, avrebbe fatto anche quello, se possibile ancor più volentieri.

In seguito, Ali avrebbe spiegato che voleva vedere se l’avversario sapeva uscire dalla sua stanza del «mezzo sogno», quel luogo dove finisce un pugile quando i propri segnali cerebrali si offuscano.139 Visto che Foreman aveva vinto a mani basse la maggior parte dei suoi incontri, lo sfidante sospettava che non avesse la capacità di fuggire da quella stanza. Ma, al termine della prima ripresa, la sua strategia creò il panico al suo angolo.

«Ma che stai facendo?».

«Perché non danzi?».

«Devi danzare!».

«Sta’ lontano dalle corde…».

Ali si limitò a rispondere: «Zitti. So cosa sto facendo».

Il secondo e il terzo round furono simili, soltanto più lenti. Foreman caricò a testa bassa come un toro, spingendo l’avversario alle corde. Ali si inarcò all’indietro, gli occhi spalancati, in allerta per il pericolo, mentre il rivale lo tempestava. Invece di levarsi dalle corde e danzare in giro per il ring, utilizzando la sua maggiore velocità, rimase immobile, tirando rapide repliche, mandando a segno un pugno ogni due o tre di Foreman. Di lì a poco, stava scuotendo il capo e strillando al rivale – «È tutto ciò che sai fare? È tutto ciò che sai fare?» – così come aveva fatto con Frazier nel corso della loro prima sfida. Qual era il suo piano? Lasciarsi colpire da Foreman? Incassare i migliori pugni dell’avversario nella speranza che a un certo punto avrebbe finito la benzina? Quella prospettiva inorridì gli uomini al suo angolo. Era una strategia che aveva fallito sia contro Frazier che contro Norton, e sembrava ancor più suscettibile di fallimento contro il possente Foreman.

«Danza! Danza!» gridavano i suoi secondi.

Nella terza ripresa mantenne lo stesso approccio, combattendo dalle corde, prendendo Foreman per la testa e sussurrandogli all’orecchio alcune parole per scoraggiarlo. A un minuto dalla fine del round, Foreman lo toccò con i migliori fendenti della serata, tre destri incisivi, tutti a segno alla testa. Ali lo afferrò per il collo e gli parlò di nuovo, senza dubbio per sminuire la sua potenza, prima di replicare con una raffica negli ultimi dieci secondi.

I colpi di Ali scuotevano Foreman, e in alcuni casi lo fecero perfino barcollare. Ma il campione, che continuava ad avanzare pesantemente, restava pericoloso. Quando caricava, Ali si appoggiava alle corde, lasciando il suo corpo sospeso sopra le macchine da scrivere della fila dedicata alla stampa. Plimpton avrebbe scritto che sembrava «qualcuno che si affaccia dalla finestra per vedere se c’è un gatto sul tetto».

«È il meglio che sai fare?» Ali irrise il rivale attraverso il paradenti nel corso della quarta ripresa. «Non sai colpire… Mostrami qualcosa! Ridammela! È mia! Ora è il mio turno!».

Negli ultimi trenta secondi del round toccò infatti a lui, che uscì dalle corde e si lanciò all’attacco, lasciando partire pugni ficcanti e troppo veloci perché Foreman riuscisse a bloccarli.

Gli occhi del campione adesso erano gonfi. Si spostava sempre più faticosamente, sembrava qualcuno bisognoso di un pisolino.

Foreman non aveva un piano di riserva. Sapeva combattere solo in un modo. Quando i suoi colpi rallentarono, Ali rimase alle corde, in paziente attesa del contrattacco. Dopo la quinta ripresa, gli uomini all’angolo di Foreman, Dick Sadler e Archie Moore, iniziarono a lamentarsi del fatto che le corde fossero troppo allentate, che Ali si incurvava così tanto all’indietro che i colpi del loro assistito non avevano alcuna possibilità di arrivare a destinazione. Le loro proteste furono inutili. A un osservatore superficiale, poteva sembrare che Ali stesse lasciando fare tutto il lavoro all’altro. Ma non era così. In realtà, stava mandando a segno lo stesso numero di pugni di Foreman. La grossa differenza era che ogni suo pugno era efficace, mentre quelli dell’avversario andavano a vuoto o al massimo cozzavano contro le sue braccia. C’era poi un’altra differenza rilevante: Foreman combatteva per tutti i tre minuti di ogni singolo round, mentre Ali conservava le energie e attendeva gli ultimi trenta secondi per dare il meglio. Sapeva che a forza di caricare colpi potenti il rivale si sarebbe stancato, e che lo sarebbe stato ancora di più nei secondi finali di ogni round. Sapeva che a quel punto i suoi pugni avrebbero causato più danni. Sapeva che Foreman non avrebbe avuto il tempo di replicare. Sapeva che le sue raffiche avrebbero impressionato i giudici. A un certo punto, dopo essere emerso dalla sua posizione prona e aver investito l’avversario con un colpo particolarmente pesante, Ali si voltò verso Jim Brown, uno dei presentatori del combattimento, e fece l’occhiolino, come per dire: «Ho tutto sotto controllo».

Nella sesta ripresa, Ali sorprese Foreman prendendo subito il centro del ring e toccandolo alla fronte con tre sinistri precisi. A ogni jab, gli spettatori gridarono il suo nome come se fossero il suo coro personale.

Jab.

«Ali!».

Jab.

«Ali!».

Jab.

«Ali!».

A metà del round, Ali tornò alle corde per riposarsi. Appoggiò il sedere alla seconda corda partendo dall’alto e attese che Foreman venisse a picchiarlo. Un adagio nel mondo della boxe dice che se qualcuno prova a fare quindici riprese con un sacco, a vincere sarà il sacco. In quel momento Ali era il sacco. In seguito, lui e altri avrebbero chiamato quella difesa passiva rope-a-dope, suggerendo che Ali avesse attirato il rivale in una trappola. In realtà quella strategia non era stata pianificata, e non poteva certo essere presentata come un colpo di genio di Ali. Aveva reso monotono il combattimento. Quella strategia era semplicemente figlia della necessità. Era il trionfo del masochismo. Ali non possedeva più né la velocità per fuggire né la forza o le energie per replicare per più di pochi secondi a round. La sua unica speranza era provare a resistere più di Foreman. «In tutta la storia della boxe» avrebbe scritto Mike Silver «questa non-strategia ha funzionato soltanto in un’occasione».140 In quella.

«È tutto ciò che sai fare?» gridò Ali a Foreman.

La risposta era sì.

Alla fine del round, il più grosso e spaventoso peso massimo dai tempi di Sonny Liston stava ormai tirando pugni che avrebbero potuto a malapena rovesciare un vaso. Assomigliava sempre più alla mummia a cui lo aveva paragonato Ali, una creatura mezza morta, troppo lenta per nuocere a chicchessia.

Quando la campanella annunciò l’inizio della settima ripresa, Ali tornò alle corde, mettendosi a sedere e attendendo come al solito l’assalto di Foreman. Ancora una volta, negli ultimi trenta secondi partì all’attacco. Mentre il cronometro ticchettava, Ali colpì il rivale con un destro incrociato che lo fece ruotare di quasi 180 gradi. Il sudore formò un’aureola intorno alla testa del campione, che barcollò e poi si raddrizzò.

Ali gridò: «Hai ancora otto lunghi round da fare. Deficiente. Otto!».141

«Ho la sensazione che George non ce la farà» dichiarò Joe Frazier ai telespettatori di tutto il mondo al termine della settima ripresa.142

All’inizio dell’ottavo round Foreman si alzò traballante. Dato che aveva bisogno di una vittoria per ko, lasciò partire colpi larghi, molti dei quali a vuoto o innocui.

Ancora una volta lo sfidante rimase in attesa. A trentadue secondi dalla fine del round, lasciò volar via una combinazione sinistro-destro, entrambi a bersaglio. Aspettandosi una replica si coprì subito il volto, prima di tirar fuori il sinistro, toccare con un altro destro e quindi con un’altra combinazione. Adesso sembrava sospinto da una nuova carica di energia. Uscì dall’angolo e si mise al centro del ring, da dove scagliò un sinistro, un destro e quindi un altro sinistro. Foreman perse l’equilibrio. Alzò le mani in aria, come la vittima di una rapina, mentre il rivale faceva partire il quinto colpo consecutivo senza replica.

«Oh mio Dio! È fottuto!».

Il pugno seguente finì dritto alla testa. Foreman incespicò e poi allungò le braccia nel vuoto mentre ruzzolava a terra. Ali caricò il braccio girando intorno all’avversario, ma non ebbe nemmeno bisogno di colpire di nuovo. Foreman crollò al tappeto.

Lo sfidante alzò le braccia al cielo. Un attimo dopo la folla invadeva il ring.

A distanza di anni, Foreman avrebbe detto di essere stato drogato dal suo stesso allenatore prima del match. I decenni passati sono serviti soltanto a rafforzare la sua convinzione. Se la spiegava così: prima dell’incontro di solito evitava di bere acqua, cercando di disidratarsi affinché il suo corpo apparisse magro e muscoloso. Attendeva fino a pochi istanti prima dell’incontro per berne un goccio. In Zaire, Sadler gliene diede un po’ prima dell’inizio della sfida. A suo parere, sapeva di medicina. Ma quando se ne lamentò, l’allenatore gli disse che era matto, che si trattava della stessa acqua che beveva ogni giorno da quando era arrivato in Africa. Foreman ingerì il resto. In seguito avrebbe raccontato di essersi sentito intontito una volta sul ring. Non era a causa né del caldo né dell’umidità. Si trattava di una sensazione di intorpidimento mai provata prima. Dopo il match si ricordò dell’acqua e si convinse di essere stato drogato.

«Lo so» avrebbe raccontato in un’intervista quattro anni più tardi. «Lo so cos’è successo».143

Perché mai il manager avrebbe dovuto drogarlo? Foreman sospettava che Sadler avesse raggiunto un accordo con Herbert Muhammad: lascia vincere Ali e monetizziamo la rivincita.

Foreman si chiedeva se avesse perso per colpa dell’acqua o perché Ali era stato il pugile migliore, e sembrava un uomo che pur consumato dal risentimento desidera mostrarsi magnanimo. «Non voglio dire che è stata l’acqua a battermi. È Muhammad Ali ad averlo fatto. Con il suo diretto destro. Il destro più veloce in cui mi sono imbattuto nella mia vita. È quello ad avermi battuto. Resta il fatto che hanno messo qualcosa nella mia acqua».

Foreman si lamentava inoltre del fatto che l’arbitro, Zack Clayton, gli avesse concesso soltanto otto secondi invece di dieci per rialzarsi dopo il ko. In quel caso, le immagini dell’incontro sembrano dargli ragione. Il conteggio di Clayton appare troppo rapido. Quando aveva iniziato a contare, mancavano solo otto secondi alla fine del round. La campanella che ne decretava la fine avrebbe dovuto suonare prima che l’arbitro arrivasse a dieci. E, anche non tenendo conto del gong, Foreman sembrava essersi rimesso in piedi prima che Clayton avesse finito il conteggio.

Eppure, mentre il campione si rialzava, Clayton stava già agitando le braccia e decretando Ali vincitore per ko.

Foreman sosteneva che Sadler gli avesse chiesto 25.000 dollari in contanti prima del match.144 I soldi, secondo il pugile, erano per Clayton, per assicurarsi che non favorisse Ali. Foreman affermava di averglieli dati e che il suo allenatore li avesse a sua volta girati all’arbitro. Tuttavia, continuava, anni dopo avrebbe scoperto che anche Herbert Muhammad aveva allungato dei contanti a Clayton, in apparenza per lo stesso motivo, per essere certi che non si lasciasse condizionare. E, secondo Foreman, Herbert aveva dato «un po’ più» di 25.000 dollari.

Sollecitato sull’argomento, Gene Kilroy avrebbe risposto stizzito: «Stronzate! Abbiamo pagato soltanto diecimila dollari!».145

Le teorie complottistiche sarebbero continuate per decenni, ma senza arrivare a nulla. Dieci anni e mezzo prima, alla vigilia del combattimento contro Sonny Liston, Cassius Clay aveva utilizzato un pennarello per scrivere «campione mondiale dei massimi» accanto al proprio nome sul materasso della sua casa di Miami. Ora, sebbene il suo nome fosse cambiato, il titolo era di nuovo nelle sue mani, rendendolo il secondo pugile della storia capace di riconquistarlo dopo averlo perso.

Ali lasciò lo stadio all’alba. Salì con Belinda sul sedile posteriore di una Citroën. Il resto della sua banda occupò un paio di autobus. Seguendo una macchina della polizia con il lampeggiante arancione, formarono una carovana che attraversò Kinshasa «come… una colonna militare che percorre i territori occupati» avrebbe scritto Plimpton.146 La folla si radunò lungo le strade per festeggiare. Cantavano tutti: «Ali! Ali! Ali!». Quando il corteo abbandonò la città per tornare al centro d’allenamento, altra gente venuta a sapere della notizia si assiepò lungo il tragitto. Nuvole basse e pesanti volteggiavano sopra le colline. Il sole del mattino virò sul verde. Una pioggia torrenziale si abbatté sul tetto dell’autobus e dell’auto di Ali. Plimpton si ricordò che aveva piovuto anche a Miami, dopo la vittoria scioccante di Cassius contro Sonny Liston.147 All’epoca, il pugile era soltanto un moccioso dotato di fegato. Adesso era un sovrano che contemplava un altro dei suoi regni attraverso i finestrini rigati dalle gocce di pioggia.

«Piovono rane dal cielo» disse Bundini mentre il corteo rallentava per la tempesta.148

Il giorno successivo, ridendo, Ali si attribuì il merito di aver ritardato il temporale abbastanza per lasciar finire il match.

Con la vittoria sul poderoso Foreman, il mito di Ali si amplificò ulteriormente. Era il gigante John Henry che martellava la montagna, ma ancora più in grande, perché lui distribuiva martellate in giro da anni – a Sonny Liston, a Floyd Patterson, ai giornalisti bianchi che gli avevano detto di chiudere la bocca e limitarsi a combattere, a Lyndon B. Johnson, a Nixon, alla Corte Suprema degli Stati Uniti, a Norton, a Frazier, e adesso a George Foreman, il cattivo per eccellenza.

Da quindici anni ripeteva al mondo: «Sono il più grande!». Chi mai avrebbe potuto dargli torto?

E nel frattempo non aveva mai smesso di essere un personaggio seducente, il che era forse la sua impresa più sbalorditiva. Malgrado le spacconate, sapeva ridere di sé stesso. Ammetteva di essere il buffone di corte diventato re, non il legittimo erede al trono. Un minuto annunciava che avrebbe chiamato il presidente Gerald Ford per vedere se poteva essere di aiuto al proprio paese come diplomatico, e quello dopo eseguiva un trucco di magia con tre pezzi di corda di diverse lunghezze che, abracadabra, diventavano tutti della stessa lunghezza. Nonostante le sue smargiassate e la brutalità dello sport al quale si dedicava, con la sua spensieratezza era riuscito a farsi amare sia dai neri che dai bianchi. Il razzismo permeava ancora la società americana. Le ferite del Vietnam erano ancora aperte, i veterani tornavano in patria senza arti e con pulsioni suicide, e non c’erano parate per la vittoria. L’americano medio non aveva più fiducia nella classe dirigente, e non sapeva più a cosa avrebbero dovuto assomigliare l’eroismo e la galanteria in un’epoca caratterizzata da cinismo e disperazione crescenti. Ed ecco che Ali – un uomo che avrebbe dovuto avere tutto il diritto di essere infuriato – si mostrava ancora esuberante, sempre ottimista, sempre bello e sempre vincitore. Non era l’eroe ideale americano, ma quello ideale per il suo tempo.

Adesso cosa avrebbe fatto?

Ammise di non esserne certo.

«Ma io so che aver battuto George Foreman e conquistato il mondo con i miei pugni non porta la libertà al mio popolo. Sono ben consapevole che devo andare oltre e prepararmi per qualcosa di più».

«So» disse «che sto per entrare in una nuova arena».149

130. George Plimpton, Breaking a Date for the Dance, «Sports Illustrated», 11 novembre 1974.

131. Ibid.

132. A Lot of Fans Will See Fight — But Not in Zaire, art. cit.

133. Foreman 3-1 over Ali in Zaire Tonight, «The New York Times», 29 ottobre 1974.

134. Dundee, op. cit., p. 184.

135. Ali con Durham, op. cit., p. 403 [trad. it. cit., p. 494].

136. Plimpton, Shadow Box, cit., p. 324.

137. Intervista dell’autore a Gene Kilroy, 22 maggio 2016.

138. Plimpton, Breaking a Date for the Dance, art. cit.

139. Ali con Durham, op. cit., p. 405 [trad. it. cit., p. 497].

140. Mike Silver, The Arc of Boxing, McFarland, Jefferson, NC, 2008, p. 123.

141. Ali con Durham, op. cit., p. 411 [trad. it. cit., p. 497].

142. Ali vs Foreman, www.youtube.com.

143. Intervista dell’autore a George Foreman, 28 settembre 2015.

144. Ibid.

145. Intervista dell’autore a Gene Kilroy, 22 maggio 2016.

146. Plimpton, Shadow Box, cit., p. 329.

147. Plimpton, Breaking a Date for the Dance, art. cit.

148. Plimpton, Shadow Box, cit., p. 332.

149. Mailer, The Fight, cit., p. 222 [trad. it. cit., pp 244-245].