47. «Ve lo ricordate Muhammad Ali?»

«Una stella del cinema!» urlò Ali. «Sono una steeellaaa del ci­nemaaa!».280

Un mese dopo aver annunciato il ritiro, era a Miami a girare la storia della sua vita e a parlare del suo futuro da star hollywoodiana.

«Il mio volto vale miliardi» disse. «Ho sempre avuto il ruolo del Numero Uno. Non posso mica fare lo sguattero. Alcuni campioni del football accettano la parte del cameriere mentre qualche omosessuale si prende quella del protagonista. Io devo essere l’eroe. Come Charlton Heston, lui ha una bella immagine. Mosé. In Airport 75 era il capitano, un vero uomo. Sempre distinto, sempre di classe». E non ci sarebbero state scene di sesso. «Kissinger non si presterebbe mai,» dichiarò riferendosi al segretario di Stato «e io sono più grande di Kissinger».281

E anche più bello, ma quello era scontato.

Due settimane più tardi, mentre girava una scena a Houston, Ali annunciò ai giornalisti di essere pronto a salire di nuovo sul ring.

«Voglio Foreman. Voglio annientare Foreman».282

In realtà non aveva alcuna fretta di affrontare l’avversario più pericoloso in circolazione. Intanto si sarebbe misurato con Duane Bobick o Earnie Shavers. Solo dopo sarebbe toccato a Foreman. E a quel punto, verosimilmente si sarebbe ritirato.

Nell’attesa, continuava a distribuire soldi con la stessa generosità con cui offriva le sue opinioni personali, come se ne avesse una scorta infinita. A Chicago, durante l’inverno, un giorno disse all’amico Tim Shanahan che doveva acquistare un regalo di compleanno per Veronica. Era appena stato pagato per il match con Norton, e stava pensando di comprarle una Mercedes. I due salirono su una delle sue Cadillac e andarono a scegliere il modello. Lungo la strada, Shanahan gli suggerì di farsi anche lui un regalo.

Un’idea che piacque ad Ali, che rispose: «Andiamo a prenderci una Rolls!».283

Fermata successiva: un concessionario Rolls-Royce di Lake Forest, zona periferica della città, dove, secondo Shanahan, il pugile scelse una Corniche in due tonalità di verde foglia da 88.000 dollari. Nel 1976, una casa valeva all’incirca la metà. Ali andò via alla guida dell’auto senza sborsare un dollaro, spiegando al venditore di contattare il suo legale e accordarsi per il pagamento. Ma mentre si allontanavano, l’amico gli ricordò che in teoria si erano recati lì per il regalo di Veronica.

E così il pugile fece dietrofront e tornò dal concessionario.

«Avete qualche macchina simpatica da donne?» chiese.

Il venditore gli mostrò un’Alfa Romeo decappottabile grigio metallizzato, proponendogli uno sconto. Quando Ali rientrò a casa e mostrò alla moglie il regalo, lei salì sull’auto, si voltò verso di lui e disse: «Non so guidare col cambio manuale».

A quel punto, Ali diede l’Alfa all’amico e uscì di nuovo per acquistare una Mercedes.

Dei sei milioni pattuiti per il match contro Norton vide soltanto una piccola parte. Herbert Muhammad si intascava tra il 30 e il 40 per cento dei suoi introiti lordi – e non solo quelli generati dalla boxe. Il figlio di Elijah amava ripetere per scherzo che se qualcuno avesse avvicinato per strada il pugile offrendogli cinque dollari per urinare in un bicchiere, avrebbe fatto bene a ricordarsi di pagare anche il suo manager.284 Di quei sei milioni, due finirono direttamente nelle tasche di Herbert e altri due furono accantonati per il fisco. Inoltre, una fetta consistente del suo denaro serviva per gli alimenti delle ex mogli, per i figli, le tasse di proprietà e gli stipendi di autisti, addetti alla sicurezza e via dicendo.

Non è mai per i soldi; è sempre per i soldi. E così, quasi otto mesi dopo aver sconfitto Norton e aver annunciato il ritiro, Ali era di nuovo sul ring, questa volta contro il tutt’altro che temibile Alfredo Evangelista, «la lince di Montevideo», che non aveva mai combattuto negli Stati Uniti, che aveva all’attivo soltanto sedici incontri da professionista e che di recente aveva perso contro il carneade Lorenzo Zanon. Perfino gli esperti di boxe non sapevano quasi nulla di lui. «Sa qual è stata la cosa più eclatante di quell’incontro?» si vantava Don King. «Che sono riuscito a far guadagnare 2,7 milioni ad Ali per affrontare un tizio scelto a caso».285 Nemmeno Ali seppe inventarsi nulla per promuovere la sfida. Dopo aver visto alcuni filmati dell’avversario, dichiarò ai reporter: «Non mi sembra uno che picchi particolarmente duro».286

In effetti, era proprio così. Ma nemmeno Ali picchiava duro. Evangelista durò per quindici interminabili e monotone riprese al Capital Centre di Landover, Maryland. Ali vinse per decisione unanime, ma non riuscì a convincere gli appassionati che avevano sborsato centocinquanta dollari a biglietto. Fece qualche passo di danza. Mostrò un po’ del suo gioco di gambe. Si dedicò a un po’ di rope-a-dope. Sferrò qualche pugno qua e là. Ma, per gran parte dell’incontro, diede l’impressione di sapere benissimo cosa bastasse fare per guadagnarsi l’assegno e di non voler correre rischi inutili. Gli spettatori fischiarono lo spettacolo offerto. Dopo pochi round i giornalisti smisero di prendere appunti. Per quelli che assistettero al match da casa, quantomeno la telecronaca di Howard Cosell garantì un minimo di divertimento. «Stiamo assistendo a uno spettacolo di varietà» commentò il giornalista già durante la prima ripresa.287

«Immagino che il pubblico si diverta» dichiarò più tardi. «Di certo, io non mi sto divertendo».

Quando i pugili passavano lunghi momenti girando per il ring senza colpirsi, Cosell si lasciava andare a considerazioni beffarde del tipo: «Beh, e io che ho sempre pensato che i Nicholas Brothers anni fa si fossero esibiti nel miglior numero di danza che avrei mai potuto vedere!».

Quando Ali andò all’angolo, si tolse i guantoni e invitò Evangelista a colpirlo al mento, Cosell disse: «Questo atteggiamento non mi piace proprio e, sinceramente, non sono contento che sia trasmesso».

Nella settima ripresa, durante la quale il campione non riuscì a mandare a bersaglio neanche un pugno, Cosell dichiarò: «Bisognerebbe cominciare a chiedersi se Ali sia in grado di fare qualcosa, perché, arrivati a questo punto, almeno per rispetto di sé stesso, ci si aspetterebbe che facesse qualcosa. Guardate qua. Ogni commento è superfluo».

«A nessuno piace prendersela con un vecchio cavallo» disse all’inizio dell’undicesimo round «ma ciò a cui stiamo assistendo è davvero penoso. Viene da chiedersi se sia rimasto qualcosa del grande pugile di un tempo. Guardate come va a vuoto. Guardatelo. Ve lo ricordate Muhammad Ali?».

Alla fine, il giornalista definì l’incontro un «esperimento di ipnosi riuscitissimo».

Dopo il match, intervistato da Cosell al centro del ring, con una serie di consonanti e vocali impastate Ali promosse il suo imminente film, elogiò Wallace Muhammad e tentò di ringraziare qualcuno di cui non si ricordava il nome.

Ancora una volta, perfino in un’esibizione raccapricciante, anche in un match combattuto soltanto per soldi, era stato costretto a ricorrere alla tattica del rope-a-dope, e a battersi per quindici round incassando 141 colpi da un giovane grande e grosso. Vinse ai punti per decisione unanime, ma perse sotto molti altri aspetti.

Il 19 giugno del 1977, un mese dopo aver battuto Evangelista, Ali sposò Veronica Porche con rito civile al Beverly Wilshire Hotel di Los Angeles. La futura sposa informò i giornalisti di essersi già convertita all’islam.288 Ali indossava un frac bianco, guanti bianchi, una camicia con ruches bianca e scarpe sempre bianche. Veronica si presentò in abito bianco con un lungo strascico. La coppia era in piedi sotto una tettoia di metallo decorata con garofani bianchi. C’erano poi due gabbie bianche per uccelli, ognuna delle quali conteneva due colombe bianche.289 Passarono la luna di miele alle Hawaii, ma Ali non era il tipo di persona capace di starsene spaparanzato in spiaggia. E visto che preferiva firmare autografi e fingere di boxare con gli sconosciuti che incontrava per strada o nelle lobby degli hotel, decise di portarsi dietro Howard Bingham per fargli compagnia.290 La vacanza durò solo pochi giorni, dopo i quali Ali ritornò in palestra per prepararsi per l’avversario successivo: Earnie Shavers.

Shavers aveva ventidue anni e lavorava alla catena di montaggio di una fabbrica automobilistica di Youngstown, Ohio, quando era entrato in palestra e aveva infilato un paio di guantoni per la prima volta. Era salito sul ring con un giovane che sapeva come muoversi, come abbassarsi e schivare, come tenere le mani alte, punzecchiare con jab fluidi e sferrare rapide combinazioni. Shavers lo aveva buttato giù con un singolo pugno, lasciandolo incosciente al tappeto.291

Tra il 1969 e il 1977 Shavers vinse cinquantaquattro incontri da professionista, tutti per ko tranne due. «Io e George Foreman» avrebbe dichiarato a distanza di anni «siamo stati forse i più grandi picchiatori della storia».292 Di sicuro, sono stati tra i migliori. Shavers non era un pugile elegante. Non faceva ricorso a combinazioni pungenti. Il suo jab non suscitava grande paura. Si spostava senza particolare grazia. Ma non ne aveva bisogno, perché la sua mano era pesante come un cric. Come avrebbe commentato uno dei suoi avversari, «se ti colpiva a giugno ti risvegliavi a luglio».293 Colpiva così duro che perfino Frazier e Foreman si erano ben guardati dall’affrontarlo.

Il che sollevava l’ovvia domanda: perché invece Ali aveva accettato?

«Dio non ha creato il mento perché sia preso a pugni» disse una volta l’allenatore Ray Arcel.294 Ali sapeva che il suo mento non era stato fatto per essere preso a pugni, ma sapeva anche che il suo mento poteva essere preso a pugni, e che lui sarebbe comunque stato in grado di restare in piedi e mantenere la testa relativamente lucida. Era quella certezza ad averlo portato fin lì. Ma, sfidando Ernie Shavers, si stava assumendo un rischio enorme. E Herbert Muhammad e gli altri che lo avevano incoraggiato ad accettare l’incontro gli stavano rendendo un pessimo servizio. Ferdie Pacheco lo avrebbe definito «un atto di negligenza criminale».295

I due si sfidarono il 29 settembre del 1977 al Madison Square Garden, davanti a una platea televisiva di oltre settanta milioni di spettatori su NBC-TV. Si stimava che il 54,4 per cento dei televisori americani fosse sintonizzato sul match.296 Shavers era il genere di pugile che di solito puntava a una rapida vittoria. Ma, come tutti, era consapevole che Ali non si sarebbe fatto mettere ko così facilmente, e pertanto si era preparato a un match lungo. Eppure, nel secondo round sembrò che non avrebbe avuto bisogno di troppa autonomia. Ali stava affrontando a viso aperto quell’insidioso picchiatore, senza danzare, senza schivare. Se si fosse allenato in maniera seria per quel match, avrebbe potuto sconfiggere Shavers nello stesso modo in cui aveva sconfitto Foreman: muovendosi in giro per il ring per qualche round, facendolo stancare, e poi mettendolo giù. Ma stavolta non era al massimo della forma e non si stava muovendo bene, ed era finito a scambiarsi bordate con uno dei più pericolosi picchiatori di tutti i tempi. Shavers sfoderò un destro così violento che scaraventò all’indietro l’avversario di un metro. Quando rimbalzò contro le corde, Ali sembrava un grosso sacco da cento chili. Le sue ginocchia cedettero ma, mentre il suo corpo cominciava a piegarsi in avanti, ritrovò l’equilibrio. Si aggrappò al rivale e, appoggiato a lui, fece il pagliaccio a beneficio del pubblico. Spalancò bocca e occhi, come per dire: Wow, questo sì che fa male! Ovviamente, con quell’atteggiamento stava cercando di convincere gli spettatori di non essersi fatto nulla. Dopo l’incontro, il «New York Times» lo avrebbe paragonato a un cantante d’opera che evita le note alte, e se la cava grazie al coraggio e al bluff per nascondere le sue abilità ormai scemate.297

Shavers arretrò di un passo per esaminare il volto dell’uomo che aveva davanti. «Sta fingendo o si è fatto davvero male?» si domandò.298 A un minuto dalla fine del round, Shavers investì il rivale con un altro destro. Ancora una volta Ali dondolò all’indietro, prima di allungare la mano sulla corda per recuperare l’equilibrio e invitare l’altro a farsi sotto, a dargliene altri. Gli occhi di Ali erano vitrei. Era chiaro che aveva sentito il colpo. Shavers si avvinghiò a lui. Ali indietreggiò, scosse la testa e dimenò per l’ennesima volta il sedere.

Riuscì ad arrivare alla fine della ripresa, ma solo per il rotto della cuffia. In seguito, lo sfidante avrebbe ammesso di essersi pentito di non aver combattuto in maniera più aggressiva nel secondo round. Tuttavia, avrebbe riconosciuto anche i meriti di Ali: «È riuscito a incassare un gran bel pugno».

Contro Shavers, Ali incassò molti altri gran bei pugni. E ogni volta scuoteva il capo per comunicare a tutti di non aver sentito nulla, continuando però a lasciare l’iniziativa all’altro e a farsi tempestare di colpi. Nella tredicesima ripresa in un paio di occasioni le ginocchia gli cedettero di nuovo, per una serie di pugni tonanti incassati al mento. Ma anche in quel caso riuscì a coprirsi e ad appoggiarsi alle corde per recuperare lucidità.

Alla fine del quattordicesimo round Ali aveva gli occhi sbarrati, la bocca spalancata, e sembrò aver bisogno di aiuto per tornare al suo angolo. All’inizio dell’ultimo round, fece una smorfia quando Shavers lo tempestò di altri colpi. Ma nei secondi finali ebbe un sussulto, con un’ultima scarica di energia. Ora era l’avversario a barcollare. Era davvero impressionante guardare quei due uomini scambiarsi pugni dando il tutto per tutto per tre minuti. Nessuno dei due cercava di schivare. Nessuno danzava. Per centottanta secondi Ali e Shavers si lanciarono bordate. Le teste vennero sballottate, le gambe si piegarono, ma nessuno dei due crollò a terra. Il gong suonò.

Ali tornò al suo angolo, con l’aria esausta e forse sconfitta. Shavers aveva sferrato e mandato a segno più colpi. Era arrivato a destinazione con più pugni incisivi. Aveva mandato a bersaglio una percentuale più alta di pugni, e anche di pesanti. Aveva inferto più danni di quanti ne avesse subiti. Aveva ragione di confidare nella vittoria. Ma, ancora una volta, com’era forse prevedibile, i giudici la assegnarono ad Ali.

Dopo l’incontro, negli spogliatoi, Ali collassò su un tavolo.299 Qualcuno gli coprì il petto con un asciugamano. Quando il figlio chiuse gli occhi, Cash Clay rimase al suo fianco, posandogli la mano sulla testa come se tentasse di tranquillizzarlo o di alleviargli il dolore. Ali aveva forse evitato la sconfitta, ma non aveva evitato di subire danni. Le mani gli facevano male, così come il ginocchio sinistro.300 «Dopo quello con Frazier a Manila, questo è stato l’incontro più duro della mia vita» disse. «Sto entrando nella fase del tramonto. Lo sento nelle ossa».301

Il pugilato stava diventando ogni giorno più pericoloso per il trentacinquenne campione dei massimi, e alcuni membri del suo entourage se ne erano accorti. Parlava più lentamente, articolava le parole in maniera meno chiara, si muoveva in modo meno fluido. Dopo il match contro Shavers, Teddy Brenner, il responsabile della boxe del Madison Square Garden, durante una conferenza stampa dichiarò che se Ali aveva intenzione di andare avanti, avrebbe dovuto cercarsi un altro posto dove combattere, perché loro non gli avrebbero mai più proposto alcun match.302 Era una rarità per il mondo pugilistico: qualcuno che metteva la salute di un atleta davanti alla brama di guadagnare più soldi. Ma non fu il solo: Ferdie Pacheco rassegnò le dimissioni come dottore di Ali sul ring, dicendo che non avrebbe più contribuito alla sua autodistruzione. Ottenne un rapporto medico della New York State Athletic Commission che evidenziava il peggioramento della funzionalità renale del pugile e ne mandò una copia allo stesso Ali, a Veronica e a Herbert Muhammad. Non ricevette mai alcuna risposta. Pacheco scrisse inoltre alla New York State Boxing Commission esortandola a revocargli la licenza da pugile.

Disse ad Ali che stava rischiando dei danni cerebrali? «Sì» rispose Pacheco, alzando la voce in preda alla rabbia, il corpo sollevato dalla sedia mentre parlava.303 «Glielo ripetevo ogni dannato giorno… Ma lui non lo vedeva. Non pensava di avere danni al cervello. Non ricordava le cose. Balbettava, farfugliava… Non sono riuscito a fermarlo. Ma ci ho provato».

E anche Cash Clay.

«Lascia, figliolo, prima di farti male» gli consigliò il padre dopo il match contro Shavers.

Ali non poteva. A bassa voce, disse al padre: «Sono sul filo del rasoio».304

280. Muhammad Ali Tries for a Knockout as a Movie Star, «The New York Times», 7 novembre 1976.

281. Ibid.

282. Ali Sees a Foreman (and Bobick) in Future and Changes His Retirement Plans Again, «The New York Times», 23 novembre 1976.

283. Intervista dell’autore a Tim Shanahan, 12 gennaio 2014.

284. Intervista dell’autore a Lowell Riley, 8 luglio 2014.

285. Spaniard Opposing Ali Is Hardly a Fearsome Name, «The New York Times», 15 maggio 1977.

286. Ibid.

287. Ali vs Evangelista, www.youtube.com.

288. Ali’s New Family, «Jet», 5 maggio 1977.

289. White Tie and Tails for Ali’s Third Marriage, «Los Angeles Times», 21 giugno 1977.

290. Hauser con Ali, op. cit., p. 343 [trad. it. cit., p. 373].

291. Intervista dell’autore a Earnie Shavers, 28 novembre 2014.

292. Ibid.

293. The 15 Greatest Composite Punchers of All Time, boxing.com, http://www.box­ing.com/the_15_greatest_composite_punchers_of_all_time. html.

294. I Am Still a Pistol, «Sports Illustrated», 7 novembre 1983.

296. Ali Pondering Retirement, but Maybe Not Right Now, «The New York Times», primo ottobre 1977.

297. Ibid.

298. Intervista dell’autore a Earnie Shavers, 28 novembre 2014.

299. Michael Gaffney, The Champ: My Year with Muhammad Ali, Diversion Books, New York, 2012, p. 49.

300. Ali Pondering Retirement, but Maybe Not Right Now, art. cit.

301. Ibid.

302. Teddy Brenner, Only the Ring Was Square, Prentice-Hall, Englewood Cliffs, NJ, 1981, p. 144.

303. Intervista dell’autore a Ferdie Pacheco, 30 dicembre 2013.

304. Gaffney, op. cit., p. 49.