Capitolo 5

 

 

2004

Il cielo era pesante in quel pomeriggio di novembre. Gravava sul mondo come una cappa grigio scuro, che sembrava sul punto di venire giù da un momento all'altro per assorbire il tutto e farlo smarrire nei meandri della sua inconsistenza.

La piccola Ada, sei anni appena una settimana prima, si leccò una goccia di sangue dal dito, laddove era stata punta. La ferita pulsava, era sempre così con le spine che crescevano su alcuni rami degli alberi di limone che spuntavano qua e là nel giardino della nonna materna. Non era la prima volta che le capitava, e non sarebbe stata certo l'ultima, e come sempre le venivano in mente le parole della madre, quando le aveva raccontato di come, da bambina, avesse avuto la febbre alta per una settimana per essersi punta con le rose che bordavano il recinto in ferro battuto.    

Morse il polpastrello e succhiò, per essere certa che smettesse presto di sanguinare. Quindi si ripromise di fare maggior attenzione, anche se quei limoni la fregavano sempre.

Tese il braccio per raggiungere un frutto di un giallo intenso, che cresceva un mezzo metro più in alto, reggendosi forte con una mano e puntellando i piedi nel cuore di una biforcazione tra i rami. Si allungò il più possibile per raggiungere la sua meta, ma quando le dita arrivarono a toccarlo si accorse che il limone era ben più grosso della sua mano. Non sarebbe riuscita ad afferrarlo e far presa per tirarlo via. Ada si morse un labbro e si sporse più in alto, con l'intento di raggiungere il punto debole, ossia il peduncolo che reggeva il frutto. Sarebbe stato facile spezzarlo e far cadere il limone. L'avrebbe raccolto dopo, sperando che non si ammaccasse troppo.

La piccola si sollevò sulle punte, sporgendosi come una polena sulla prua di una nave pirata. Le dita della mano sinistra si erano fatte bianche, tant'era lo sforzo di tenersi stretta al suo appiglio.    

La mano accarezzò la scorza gialla, si mosse dietro, le dita cercarono il punto in cui il rametto era unito al frutto. Avvertì un leggero solletico sul dorso della mano, ma non ci fece troppo caso, attribuendo il tutto al contatto con una delle foglie. Sentì il peduncolo, lo strinse tra le dita morbide.

Eddai...

Ci volle un po', il rametto era ancora verde e flessibile, ma alla fine il peso stesso del limone l'aiutò nel suo intento. Si staccò e Ada lo vide cadere giù come una meteora. Fece un tonfo attutito nell'erba secca. Sorrise, quel limone era così grosso da sembrare un pallone.

Il solletico sul dorso della mano richiamò la sua attenzione.    

Nel tempo che impiegò a sollevare lo sguardo lo sentì spostarsi verso il polso.

Il mondo si congelò, trasformandosi all'istante in un posto freddo e senza colori, quando si accorse che sul braccio c'era qualcosa. Una cosa con troppe zampe.

Qualche tempo prima, sua nonna l'aveva terrorizzata senza volerlo. L'anziana donna aveva spostato una delle persiane, per chiudere dall'esterno una delle finestre che si affacciavano sul giardino al pianterreno. La persiana, col suo colore verde, si era mossa con un cigolio sinistro, portandosi dietro un insetto stecco che aveva scelto la parte posteriore per fare una siesta. La donna aveva imprecato tra sé e sé, ed era ricorsa alla sua arma micidiale: uno degli zoccoli di legno che indossava. Forse era perché quegli insetti agitavano anche lei, forse perché lo zoccolo si era deformato col tempo e non era più perfettamente piatto, ma c'erano voluti diversi colpi per schiacciare l'insetto, trasformandolo in una poltiglia informe ma pur sempre con troppe zampe. Ada aveva assistito ammutolita, non aveva mai visto niente del genere, non poteva sapere che quello era un animale del tutto innocuo. In lei era rimasto impresso a fuoco il concetto che quello era qualcosa di cattivo, pericoloso, e difficile da uccidere.

Ed in quel momento, ne aveva uno vivo, proprio sul braccio.

Lanciò un urlo e si agitò. L'insetto avvertì il movimento, e le zampe, munite di piccoli uncini, fecero maggior presa sulla pelle delicata della bambina. Quando Ada si accorse che quella cosa non le si staccava di dosso, lasciò la presa sull'albero senza rendersene conto, per schiaffeggiarsi sul braccio e scagliare lontano anni luce quella cosa immonda.

Di colpo, il mondo iniziò a ruotare intorno a lei e, prima che la bambina se ne rendesse conto, cadde dall'albero.

Fu un volo di poco più di un metro, ma a lei parve eterno. Si alzò di scatto, quasi fosse posseduta da un demone inquieto, quando si rese conto di essere cascata nell'erba, dove avrebbero potuto essercene altre di quelle cose.

Corse via, chiamando a gran voce sua nonna.

Ricordava di averla vista dirigersi verso la cantina, e si mosse in quella direzione, correndo con le ginocchia alte per tenersi lontana dalla vegetazione che le sembrava ora il nascondiglio ideale per decine, forse centinaia di bestiacce fameliche.

La cantina si trovava sotto la casa ma, per una strana bizzarria di chi aveva progettato il tutto, l'ingresso era all'esterno, all'estremità di un corridoio coperto che si allontanava per diversi metri dalle pareti dell'abitazione.

Ada si fermò sulla soglia. L'esterno dell'apertura era bordato con delle vecchie assi di legno che avevano perso quasi del tutto il loro colore trasformandosi in qualcosa di grigio e contorto. Sotto di esse si scorgevano sempre dei grossi gechi, con la loro pelle grigia e rugosa e le pupille verticali al centro di quegli occhi sempre aperti. Ada non amava neanche loro, ma le era stato detto che i gechi mangiavano gli insetti, in particolare i ragni, che lei detestava, quindi seppur con diffidenza tollerava in qualche modo quella silenziosa presenza.

La pesante porta di ferro che chiudeva l'accesso alla cantina era costellata di macchie di ruggine che spingevano via la vernice verde chiaro ormai divenuta una crosta senza alcuna utilità. La porta era aperta, e dondolava pigramente a causa del vento, rimbalzando in qualche modo in quei cinque o sei centimetri tra la parete ed il fermo: un cuneo di legno consunto vecchio probabilmente quanto la casa stessa.    

Le scale si inoltravano nel buio sottostante.

«Nonna? Sei lì?»

Le sembrò di udire un rumore provenire da sotto. Un tuono brontolò in lontananza, mentre il vento si faceva più insistente.

Le parole di suo nonno le tornarono in mente.

Quando il cielo è grigio, e senti tuonare, il temporale non è lontano, ma è al vento che devi prestare attenzione: si agita sempre, all'improvviso, come in tanti vortici, proprio quando sta per piovere...

«Nonna sei di sotto?», chiese Ada, più forte.

Nessuno rispondeva.

La bambina mosse un piede verso le scale.

Dopo i primi gradini percepì l'odore tipico di quella cantina, un sentore di umido, di pietra bagnata che non si asciugava mai nemmeno nei mesi estivi, di carta ammuffita di vecchi libri ammonticchiati sugli scaffali di legno, di polvere del tempo. Un brivido le percorse la schiena nello scorgere un paio di centopiedi neri e lucidi, acciambellati in un angolo tra il soffitto e la parete alla sua destra.

«Nonna? Dove sei?»

I gradini di pietra avevano gli spigoli arrotondati da generazioni e macchiati di un verde scivoloso. Si mosse con cautela per non cadere. La scala scendeva per poi curvare ad angolo retto verso sinistra. Ada prese un bel respiro e si sforzò di non pensare a quei ragni magrissimi che popolavano ragnatele invisibili negli angoli del soffitto. Bastava un niente per disturbarli e loro si agitavano in risposta, in un movimento elastico che, in teoria, avrebbe dovuto spaventare eventuali predatori.

Di certo spaventavano Ada, che si soffermò nel punto in cui la scala girava e continuava per altri cinque o sei gradini in basso, prima di aprirsi nella cantina vera e propria.

Sua nonna non c'era, tutto era buio.

Forse è tornata in casa...

Ada fece dietro front e si apprestò a risalire. L'uscita le sembrava incredibilmente lontana e, non appena ebbe voltato le spalle al buio dietro di lei, ebbe l'impressione che l'oscurità avesse preso vita, animandosi con tutta una serie di rumorini minacciosi.

Salì il primo gradino, accompagnata da un brivido.

Il vento si insinuò nell'apertura, facendo muovere piano la porta. Ada ebbe l'impressione di aver sentito un cigolio dietro di lei.

Accelerò il passo, salendo i gradini a due per volta.

Era appena a metà strada verso l'uscita quando, una folata di vento più forte fece oscillare la porta, quel tanto che bastava perché il fermo di legno si spostasse.

Furono attimi.

Ada ebbe l'impressione che il buio che la inseguiva avesse accelerato, al ritmo della porta che si chiudeva senza che lei potesse farci nulla.

Corse, col fiato in gola, ma fu inutile.

Il pesante pannello si chiuse, trasformando l'universo in un posto oscuro.

Non c'era una maniglia all'interno.

Ada gridò, batté forte le mani sulla porta arrugginita. L'eco dei suoi pugni rimbalzava dietro di lei, dando ulteriormente voce ai suoi timori.

Di colpo le sue paure divennero più grandi e minacciose. Mentre gridava per farsi sentire immaginava mostruosità di ogni genere emergere dai remoti recessi di quella cantina per ghermirla e trascinarla in un mondo fatto di tenebre e zampe chitinose, tante zampe.

Ada gridò per quelle che le sembrarono ore, chiamando sua nonna, ma l'anziana donna non poteva sentirla. Era entrata in casa per portare dentro il bucato prima che piovesse, e mentre era lì il marito l'aveva chiamata perché nel telegiornale si parlava di un terremoto che aveva scosso il nord Italia. Gli anziani coniugi avevano alzato il volume per sentire meglio, e non avrebbero potuto udire in alcun modo le grida della bambina.