«Abbiamo fatto un buco nell'acqua», commentò Enzo guardando i cavi che scomparivano nel muro.
Luigi non rispose. Osservava l'affresco che ornava la parete. Doveva essere antico, i colori erano ormai sbiaditi, però trasmetteva ancora un senso di inquietudine ed angoscia.
Il dipinto raffigurava un mondo infernale, una specie di valle sulfurea popolata di bizzarre creature. Luigi mosse il telefono, così da illuminarlo meglio. L'alone di luce si fermò su una figura in primo piano. Aveva un aspetto vagamente umanoide, con delle grandi ali membranose e spiegate. Laddove però avrebbero dovuto esserci le gambe, il torso sfumava in un groviglio di tentacoli che si snodavano sulle rocce su cui l'essere era poggiato. La testa, raffigurata con macabra cura, sembrava avere una pelle rugosa, con dei grandi occhi di un rosso intenso, sotto i quali il volto proseguiva in numerosi tentacoli che pendevano come barbigli fino al petto. Aveva il braccio sinistro sollevato, e puntava il dito verso l'osservatore.
«Cazzo, questo è lo Zio Sam dell'altro mondo...», commentò Enzo cercando di stemperare la tensione che sentiva crescere in sé.
Luigi non l'ascoltava. Era come ipnotizzato da quella figura, dalla quale non riusciva a staccare gli occhi. Sollevò la mano verso quella dell'essere mostruoso. Le punte delle loro dita si toccarono, in una sorta di replica oscura della Creazione di Adamo di Michelangelo.
Con una certa sorpresa da parte di entrambi i ragazzi, la figura sembrò arretrare sotto la lieve pressione. Luigi si riscosse dallo strano torpore che si era posato su di lui come una cappa di nebbia. Si voltò a scambiare uno sguardo silenzioso con Enzo, poi entrambi tornarono a guardare in avanti.
Si accorsero che una parte dell'affresco era dipinta su un pannello mobile, una porta senza maniglie. Forse, un qualche delicato meccanismo ancora funzionante aveva fatto scattare una serratura nascosta. Luigi si fece avanti per illuminare l'interno. Una zaffata di aria stantia, che sapeva di pietra e umido, si insinuò nelle loro narici. Si spostò oltre la soglia.
«Aspetta, dove vai? Potrebbe essere pericoloso!», sussurrò piano Enzo, come timoroso di farsi sentire.
Luigi tuttavia non lo stava ascoltando. La sua torcia illuminò ancora il demone tentacolare. Si accorse che la figura era dipinta su un pannello di legno mantenuto chiuso da semplici magneti in ferrite, che col tempo dovevano aver perso almeno in parte il loro potere attrattivo.
Oltre la soglia si apriva un lungo corridoio lungo il quale si trovavano degli scaffali ricolmi di attrezzature elettriche risalenti alla prima metà del secolo scorso. Altre campane in vetro contenevano i reperti più svariati. Mentre scorreva su di esse, la luce del telefono di Luigi venne riflessa da una superficie liscia. Si avvicinò ad osservare incerto. L'etichetta sulla base della campana recitava Murrākuš – 1702.
«Che mi venga un colpo...», esclamò Luigi alle sue spalle.
Entrambi tacquero per qualche istante. All'interno della campana, su un piedistallo di marmo, era ben visibile uno smartphone. Era molto rovinato dal tempo e dalla storia che aveva dietro. Lo schermo era rigato in più punti, ma quello che sorprese Enzo era la vistosa crepa che, dall'angolo superiore destro, correva lungo la diagonale, ramificandosi come un fulmine.
«Non è possibile...», continuò Enzo, mentre frugava in una tasca per recuperare il suo telefono.
«Cosa, non è possibile?», chiese Luigi. «La data? È ovvio che non è possibile. Di certo si riferisce a qualcos'altro che era qui dentro prima di quel telefono.»
«Quello non è un telefono qualsiasi», disse piano Enzo, sollevando il suo cellulare per metterlo nella zona illuminata.
Entrambi restarono in silenzio a lungo, mentre i loro occhi rimbalzavano dal telefono nella mano di Enzo a quello chiuso nella campana di vetro.
«No, non ci credo...», esclamò Luigi. «Vi siete messi d'accordo con Ennio per giocarmi questo scherzo del cazzo... Non attacca, Enzo.»
«Non è uno scherzo! Guarda! Stesso modello, stesso colore, e la crepa è uguale. Sembra lo stesso telefono, solo molto molto più vecchio.»
«Ma ti stai a sentire? Piantala», rispose brusco Luigi. «Andiamo, dai. Finiamo di controllare questo postaccio e torniamo di sopra. Gli altri si staranno chiedendo che fine abbiamo fatto.»
I due amici percorsero in fretta il corridoio, nervoso uno, preoccupato e taciturno l'altro. Il loro cammino si arrestò sulla soglia di una grande sala in cui c'erano macchinari dalla foggia inusuale.
«Guarda guarda... siamo finiti in un deposito della NASA...», commentò piano Luigi, quando la luce proiettata dal suo telefono illuminò una targhetta metallica su uno strano dispositivo. Soffiò su di essa per rimuovere lo strato di polvere che copriva quanto c'era scritto. «Centro Elettrico Sperimentale Italiano – 1949», lesse a voce alta. Osservarono il curioso macchinario: una specie di colonna di metallo bianco, con una rotaia verticale in cui era alloggiato un largo elemento a forma di U messo in orizzontale. Si vedevano delle spire metalliche color rame sotto le braccia di quella U, che aveva tutta l'aria di essere un elettromagnete, così grosso che un uomo adulto avrebbe potuto starci dentro comodamente. La colonna metallica su cui era montato era alta circa tre metri. Esplorando la stanza si accorsero che non era l'unica. Ce n'erano altre sette di colonne, disposte in cerchio, ognuna di esse aveva un elettromagnete che poteva scorrere sull'asse verticale, e le loro basi poggiavano su rotaie che convergevano a raggiera verso il centro della stanza, nella stessa direzione in cui puntavano tutti gli elettromagneti. Lì, per circa un metro da terra, si sollevava un cilindro largo circa un metro e che sembrava costruito con lo stesso metallo bianco con cui erano realizzate le colonne. Su di esso, una serie di parallelepipedi scuri e dai contorni netti erano disposti in modo tale da apparire come una replica in dimensioni ridotte delle strutture megalitiche di Stonehenge, quando erano integre.
«Gigi, che diavolo è questa cosa?», chiese Enzo incuriosito dalla singolare macchina.
«Non ne ho idea. Per quanto ne so potrebbe essere questo il generatore. A dir la verità non è che ne abbia mai visti. Sicuramente è così.»
«Ho i miei dubbi, questa roba è... strana», commentò l'amico. Era lui ad occuparsi personalmente delle riparazioni alla sua moto. Aveva estro per tutto ciò che riguardava i motori e la meccanica in genere. Quel posto bizzarro, con quei macchinari dimenticati da decenni, si stava rivelando un paese dei balocchi, e gli aveva fatto dimenticare il disagio provato alla vista dell'essere nella campana di vetro. Il ragazzo si portò verso il centro, per osservare la struttura interna.
«Credo siano elementi in ferrite», mormorò.
Luigi intanto si era spostato verso un angolo tra le pareti, dove figurava un basso mobile in metallo, con una pulsantiera e una serie di leve. Accanto ad esso si stagliava la superficie bianco sporco di una porta dall'aspetto solido.
«Bingo», disse Luigi. «Credo di aver trovato l'interruttore.»
L'informazione impiego un istante di troppo ad essere recepita da Enzo. Un timore improvviso prese in vita in lui. Si voltò verso l'amico, che gli dava le spalle, fece per dire qualcosa.
Luigi sollevò una delle leve, accanto alla quale era raffigurata un'etichetta con il simbolo di un fulmine.