Ada stava camminando lungo un vicoletto che saliva con una certa pendenza, incuneandosi tra le pareti bianche di calce di basse costruzioni. Una coppia di persiane stampava sul muro un rettangolo di un azzurro vivo. Scivolarono piano alla sua destra mentre lei proseguiva. Dall'interno dell'abitazione proveniva l'aroma invitante di qualcosa di buono che veniva preparato per il pranzo.
La ragazza alzò gli occhi su uno stretto balconcino bordato da una ringhiera in ferro battuto, su cui si stagliavano i fiori fucsia di una buganvillea, e pensò di essere nel centro storico di Otranto, anche se non distingueva bene il punto preciso. Non ricordava come fosse arrivata lì, il passato era appena una sensazione di malessere che filtrava attraverso un velo che non lasciava intravedere altro.
Le sembrò di udire delle voci, come una moltitudine di persone, ma non si vedeva nessuno in giro. Accelerò il passo, animata da un'inquietudine crescente. Giunse in fondo al vicoletto, che si arrestava alla base di una stretta scalinata di pietra, così bianca da abbagliare. I suoi passi ticchettarono sui gradini mentre saliva. Li percorse in fretta, giungendo su un terrazzino delimitato da un basso muretto.
La vista che le si presentò era magnifica. La baia di Otranto si stendeva sotto di lei. Riconobbe strade e vie a lei familiari, il viavai di gente con quel sorriso sereno che il posto non mancava mai di evocare. Per un attimo le sembrò che il malessere provato pochi istanti prima retrocedesse, ma si sbagliava.
In realtà prendeva la rincorsa.
Una paura vaga sorse nuovamente in lei e intorno a lei, mentre un refolo di vento freddo le diede i brividi e portò alle sue narici un sentore sulfureo.
Alzò lo sguardo verso l'orizzonte, che appariva velato da una densa foschia, a tratti solcata da fulmini. La vide crescere alta nel cielo, rotolare avvolgendosi su se stessa come un'onda fatta di fumo, uno tsunami inarrestabile che invadeva la baia, e stava per abbattersi sulla città.
Il cuore accelerò quando si rese conto che la gente non sembrava essersi accorta di nulla.
Ada aprì la bocca per urlare, con quanto fiato avesse in gola, ma tutto ciò che riusciva ad emettere era il rantolo basso e rauco di qualcuno che è giunto alla fine dei suoi giorni.
Si agitò, mise le mani nei capelli, li sentì impastati e viscidi al tatto. Le portò davanti agli occhi, e vide le sue dita nere, ricoperte di qualcosa di scuro e maleodorante, denso come argilla. Lo stesso materiale le ricopriva le braccia, le gambe, il terreno stesso.
Com'era possibile?
Un tuono lontano riportò la sua attenzione al muro di nebbia giallognola che si riversava nel porto, cancellandone i confini. Vide ombre enormi spostarsi lente al suo interno, rischiarate dai lampi che si susseguivano di continuo, quasi come se fosse in atto una guerra oltre quel velo di foschia.
Si voltò, iniziò a correre, senza una meta precisa: ciò che contava era allontanarsi da lì.
Il sentiero percorso pochi secondi prima non era più lo stesso, niente lo era. I muri bianchi apparivano anneriti di fuliggine e crollati, ridotti a cumuli di macerie in parte ricoperte di fanghiglia. La buganvillea, che si mostrava florida e piena di vita sul suo balcone, era divenuta una forma secca e contorta dai colori sbiaditi. Mentre l'osservava, avvertì una corrente d'aria fredda soffiarle sulla schiena. La nebbia l'aveva raggiunta, e avviluppava la città cancellandola nel suo nulla popolato da mostruosità sconosciute.
Ada fu presa dal panico, fece per voltarsi indietro, ma una caviglia la tradì con una fitta, cadde in avanti, iniziò a scivolare sul sentiero trasmutato per un'oscura magia in una colata di fango. Giunse in fondo, vide con orrore il ciglio di uno strapiombo farsi più vicino, tentò di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa che potesse darle un appiglio, un barlume di speranza.
Cadde, nel buio, urtò una massa morbida e nera che sembrava viva, la sentì agitarsi sotto di lei, avvilupparla, intrappolare il suo corpo un una presa fredda e viscida che la trascinò in basso.
Ada restò così, sospesa per un tempo indefinito in un limbo senza luci e senza suoni, in una sorta di torpore freddo, febbricitante, in cui i pensieri stessi si agitavano come impastati in una melma fetida.
Si oppose a quell'oblio che la divorava, con tutte le forze del suo io che non aveva più una forma né contorni.
Desiderò vivere, esserci, respirare, muoversi, correre e gridare a squarciagola.
E lentamente, quella sua volontà iniziò a prendere consistenza, si mutò in una sensazione di freddo che spuntò fuori dal nulla, e si fece strada in quel mondo buio e indistinto. Crebbe e si fece più marcata, mentre una mano invisibile ridisegnava i confini di un corpo che giaceva immobile.
Ada mosse piano un braccio, sentendolo intorpidito come un pezzo di carne morta. Strinse le dita per artigliare il fango. Ne sentì l'odore, un sentore selvatico, di muschio marcio, percepì la massa premere contro un lato della faccia, ne avvertì il sapore alieno nella bocca dischiusa. Si riscosse, inarcò la schiena. Il suo corpo sembrava un tutt'uno col terreno, e venne via con un suono a metà tra un risucchio ed uno strappo. Si guardò intorno, ma era immersa in tenebre profonde, e tutto ciò che la circondava si mostrava con forme indistinte fatte di diverse tonalità di nero. Alzò lo sguardo verso un cielo scuro e senza stelle, lottò con le mani per liberare il viso dalla fanghiglia che le copriva un occhio. Le sembrò di scorgere una zona diversa, in alto, molto in alto. Una specie di finestra nel nero, un riquadro contorto attraverso il quale il tutto sembrava meno buio.
Un rumore improvviso richiamò la sua attenzione. Proveniva da qualche parte, alla sua destra, qualche metro più avanti.
Attese, con i sensi in allerta, trattenendo il respiro in silenzio.
Il suono si ripeté, erano colpi di tosse. Udì una voce borbottare qualcosa.
Ennio!
Quel pensiero scacciò via il senso di ottundimento che le velava i pensieri.
«Ennio!», provò a gridare. La sua voce, la sua stessa voce le sembrò il gracchiare di un corvo morente.
«Ada... Ada!», la chiamò lui.
La ragazza fece per alzarsi, scivolò, i piedi sprofondavano nel fango fin quasi alle ginocchia. Mentre il tatto le restituiva la percezione olografica di rami contorti, rocce e detriti che emergevano dal nulla man mano che si trascinava verso la voce.
«Continua a parlarmi, Ennio!», disse. Si schiarì la gola, sputò via un grumo di catarro misto a fango. Gridò ancora, e questa volta la voce suono menò distorta.
«Sono qui, Ada! Ah! Maledizione!»
«Ennio! Sono qui, Ennio!»
«Credo di avere qualcosa di rotto nella gamba...»
«Vengo io da te, non muoverti!»
«E dove vuoi che vada?», ironizzò lui.
Ennio era così, anche nelle situazioni peggiori non perdeva mai il sorriso. Al culmine del dolore iniziava a ridere, con le lacrime agli occhi. Da bambino era complicato riuscire a fargli un'iniezione o un'otturazione, e crescendo non era cambiato affatto.
Lei lo amava anche per questo.
I problemi esistono, e non ha senso piangerci sopra né lagnarsi. Il meglio che possiamo fare è concentrarci sulle soluzioni, sempre col sorriso sulle labbra.
Era questa la sua filosofia.
Ada si sforzò di seguirlo, di non dare ascolto a quella parte di sé che era disperata, avvolta da un incubo che sembrava peggiorare di secondo in secondo. In quel momento tutto ciò che voleva era trovare il suo ragazzo, sentirlo vivo, stretto a lei. Il resto sarebbe venuto dopo.
Lo trovò.
Percepì un contatto su una gamba, con qualcosa che si muoveva. Lei cacciò un grido perché presa alla sprovvista, tutta intenta a districarsi tra rami e rocce rese scivolose dalla fanghiglia.
«Hei, sono io! Sono io...», fece lui.
Ada si chinò verso la voce, la sentì a pochi centimetri dal suo volto. Percepì il contatto con la punta del naso, sentì il suo alito caldo sulla pelle, cercò la bocca con la sua.
Ennio...
«Aah», disse lui. «Questa è certo la migliore medicina per me.»
L'attirò a sé, strinse i denti per una fitta alla gamba destra che gli strappò un gemito, rise, la baciò ancora.
«Riesci a muoverti?», domandò Ada.
«Non lo so. La gamba mi fa un male cane, c'è qualcosa che sporge, non lo so se è un osso rotto o un qualche ramo. Non lo voglio sapere...»
«Aspetta...». La ragazza fece scorrere le mani sul corpo di lui, ne sentì il petto, gli addominali.
«Fuocherello...», disse Ennio quando le dita di lei superarono l'ombelico.
«Scemo... piuttosto, dimmi quale gambe è...»
«Quella di mezzo, ovvio.» La sua bassa risata scivolò in un accesso di tosse.
«Ma la vuoi piantare? Ti sembra il momento?»
«È sempre il momento, quando ho te vicino», poi si fece serio. «Destra. È la gamba destra. Sotto il ginocchio.»
«Così va meglio.» Ada continuò a sondare la pelle di lui, arrivò al ginocchio, proseguì. Pochi centimetri più sotto, sul lato esterno, le sue dita incontrarono qualcosa che sporgeva di due o tre centimetri.
«Ahio! Hei, stia attenta, dottoressa...»
Ada sentì un senso di nausea salirle alla bocca dello stomaco. Si concentrò sulle sensazioni tattili, tentò di visualizzare mentalmente la superficie della cosa che sporgeva dalla gamba di Ennio. La sentì ruvida, irregolare, non sembrava un osso. Non che avesse mai visto un osso umano dal vivo, ma se l'immaginava liscio.
Ennio gemette ancora.
«Non credo sia un osso, ma se non riesco a vedere non posso esserne sicura.»
«Aiutami a tirarmi fuori di qui, se siamo fortunati dovrei avere ancora il telefono...»
«Sarà inutilizzabile, siamo caduti in acqua, credo in una specie di fiume sotterraneo, non te lo ricordi?»
Lui scosse la testa nel buio. Per qualche motivo la sua mente era annebbiata, quasi come se quel fango fosse penetrato dalle orecchie per mandargli in pappa il cervello. La dimora, gli strani esseri comparsi con la foschia, il laboratorio sotterraneo, sembravano spezzoni della vita di qualcun altro, come uno di quei film che si ritrovava a vedere a tarda notte quando non riusciva a prendere sonno.
Ricordava però di avere una custodia impermeabile, la usava per portare il telefono con sé quand'era a pesca subacquea. Non che il telefono funzionasse sott'acqua, ma a lui interessava un'applicazione che teneva traccia dei suoi spostamenti tracciando il segnale GPS. Gli piaceva vantarsi di riuscire a stare in acqua fino ad otto ore, e nei suoi vagabondaggi marini percorreva non di rado distanze superiori ai dieci chilometri.
Ada l'aiutò a sollevarsi. La gamba gli diede delle fitte lancinanti quando provò ad appoggiarvi il peso, ma in qualche modo reggeva. Forse non aveva nulla di rotto dopotutto.
Si tastò in vita in cerca del suo marsupio, ringraziò il cielo quando lo sentì ancora agganciato. Tolse via un mucchio di fango che si era accumulato, cercò la zip, l'aprì, le sue dita corsero a frugare l'interno, trovarono la custodia del telefono. La estrasse, premette con le dita lungo i fianchi, in cerca del pulsante che avrebbe attivato il display. Quest'ultimo si accese e, nel buio totale in cui i due erano immersi, diffuse un chiarore come un fuoco fatuo, al di là del quale si palesarono gli occhi sgranati di Ada e i lineamenti delicati del suo viso.
La gioia però fu di breve durata. Lo schermo era incrinato.
Ennio passò più e più volte col dito sulla superficie vitrea, per sbloccarlo, ma il touch non funzionava più. E la flebile luce, che offriva per neanche trenta secondi quando il pulsante di accensione veniva premuto, illuminava appena i loro volti.
Lesse lo sconforto negli occhi della ragazza, poi sembrò ricordare qualcosa. Le sue dita tornarono a frugare nel marsupio.
C'erano due cose che Ennio portava sempre con sé. Le considerava un'espressione delle conquiste più grandi dell'umanità, senza le quali la storia dell'uomo moderno non sarebbe mai stata scritta: un accendino, ed una penna.
Che te ne fai, tu non fumi... era ciò che spesso si era sentito dire. E infatti non fumava, ma era sempre stato convinto che, avere del fuoco e la possibilità di scrivere a portata di mano, prima o poi si sarebbe rivelata una scelta saggia.
Così fu.
E quando la fiammella si accese, rischiarando i loro volti e i loro cuori con una piccola aura dorata, sembrò che il freddo, il dolore, e le tenebre in cui erano immersi si allontanassero di colpo.
Ada l'abbracciò, ed Ennio comprese che il calore del corpo di lei era quanto di più prezioso il mondo avesse da offrire. Si baciarono con trasporto, nutrendosi del loro respiro, della loro presenza, del loro essere insieme nonostante tutto.