Capitolo 39

 

 

Ada fu la prima a lanciarsi senza indugio su per la scala che si apriva nella parete che avevano davanti, subito seguita da Ennio, che le passò la torcia così da potersi puntellare con le mani sulla roccia ai lati. I gradini erano scolpiti nella pietra grezza, erano umidi e scivolosi, e obbligarono i due a muoversi con circospezione. Il budello nel quale si trovavano compì un percorso a spirale, prima di terminare su uno stretto pianerottolo oltre il quale si stagliava il fantasma putrescente di una porta di legno fradicio.

Ennio fece per toccarla, così da saggiarne la consistenza ma, non appena l'ebbe sfiorata, essa si frantumò in grossi pezzi. 

Persino il rumore che produssero mentre cadevano a terra sapeva di vecchio.

Superarono i detriti e proseguirono oltre la soglia, per ritrovarsi in una stanzetta strappata anch'essa alla nuda roccia. Un grosso crocifisso di legno, così scuro da sembrare nero, era affisso sul lato destro. In quel punto la parete era stata scolpita in modo da ricavare una nicchia con un ripiano, sul quale risaltava una grossa chiave arrugginita. 

«Questa...», esclamò piano Ennio, volgendo lo sguardo dalla chiave alla porta sbriciolata, «...credo che non servirà più.»

Sulla parete opposta rispetto alla scalinata che avevano percorso, nuovi gradini si arrampicavano in un altro tratto di cunicolo. Lo seguirono, più speranzosi ora che avevano abbandonato quella specie di tunnel dell'orrore. In fondo alle scale si imbatterono in una seconda porta, anch'essa in legno, ma era decisamente in condizioni migliori della precedente. 

Ennio scambiò uno sguardo con Ada, mentre ne saggiava la solidità.

«Fa attenzione», mormorò lei.

Lui strinse i denti per via della gamba ferita, e si fece avanti. Fu sufficiente una sola spallata per svellerla dai cardini. Produsse un frastuono esagerato quando si abbatté sul pavimento, portandosi Ennio appresso. La gamba lo aveva tradito nel mentre. Ada si precipitò per aiutarlo a rialzarsi, entrambi attesero in silenzio, sperando che il frastuono non avesse attirato qualche mostruosità in agguato in quei luoghi dimenticati. 

Non successe niente, si incamminarono tenendosi per mano. 

Furono accolti da una sala ben diversa dalla precedente. Il pavimento era marmoreo e, nel punto in cui le pareti formavano uno spigolo con il soffitto, queste erano decorate con fregi in gesso, nello stesso stile della dimora. Un odore di carta umida e ammuffita si insinuò nelle loro narici, Ada sollevò la torcia per illuminare l'ambiente. Un lampadario tempestato di gemme di vetro sfaccettate riflesse la fiamma moltiplicandola in centinaia di piccole stelle. Scorsero un vecchio lume a petrolio appoggiato su un ripiano, e ne furono attratti come falene verso la luce. Ennio lo prese, sollevò la campana in vetro, annusò l'interno, regolò una rondella laterale che allungò lo stoppino di qualche millimetro. Fece cenno ad Ada di accostare la fiamma. Furono rinfrancati quando la lampada si accese, aggiungendo la sua luce a quella della torcia, che non si era più ripresa dopo lo scontro con la creatura, e ormai ardeva con minore intensità perché la pece si era consumata del tutto. Si guardarono intorno in silenzio. Le pareti erano coperte da scaffali di legno su cui erano accatastati numerosi libri, alcuni dei quali dall'aspetto massiccio.

Ennio si avvicinò, sollevò la lanterna, le sue labbra presero a muoversi mentre con gli occhi tentava di penetrare oltre lo strato di polvere e muffa per leggere quanto riportato sulla copertina di uno di essi.

«Gāyat Al Hakīm...», bisbigliò. Scostò il pesante tomo, rapito dall'antichità e dall'aura di mistero che sembrava emanare da quella biblioteca perduta. Il volume successivo era scuro, come fosse rilegato in cuoio. Ennio deglutì un boccone amaro nel distinguere dei segni su di esso.

Sono tatuaggi...

Non può essere pelle umana...

Il titolo sembrava impresso a fuoco. «De Arcanis Rebus», mormorò a bassa voce, in una sorta di rispetto reverenziale nei confronti di un'opera così singolare. Altre scritte, più piccole, erano ormai illeggibili.

«Ennio, vieni qui...», disse piano Ada. 

Lui si voltò allarmato, la ragazza si era spostata verso una colonnina, una sorta di leggio su cui c'era un grosso tomo aperto. Il fango si era in parte seccato sul corpo di lei, ed era caduto a chiazze, esponendo la pelle chiara sottostante. Questo le conferiva un aspetto a metà tra il manto di un leopardo ed una mummia.

Ennio accennò un sorriso a quel pensiero, si avvicinò a lei.

«Levati quel sorrisetto dalla faccia», disse Ada intuendo il corso dei suoi pensieri. «Tu sei ridotto peggio di me.» Poi, prima che lui se ne uscisse con una delle sue battute, si affrettò a indicare il libro aperto sul leggio. «Guarda qui.»

Lui volse lo sguardo sulle pagine ingiallite, e sentì il cuore accelerare i battiti.

Nella pagina destra, era ben visibile la raffigurazione di una creatura alata. La stessa che era stata dipinta sulla porta, identica alla statua che dominava la fontana all'esterno della casa.

Intorno ad essa, e nella pagina sinistra, erano disegnati diversi motivi geometrici, pentagrammi, sequenze di punti e linee incrociate.

«Che cos'è questa roba, Ennio?»

«Credo...», deglutì. «Credo che siano libri di occultismo, questi sembrano formulari. Evocazioni magiche forse.»

«Gesù... riesci a capire cosa dicono?»

«Da quel che vedo le poche diciture sono scritte in greco e arabo... árchontas tis gis theí..., forse, non ne sono sicuro.»

«Che significa?»

«Non ne ho idea, quella parola però, árchontas, è simile ad arconte, credo stia per signore. Sarà qualcosa di evocativo, tipo signore delle tenebre, roba del genere. Non ho studiato greco né arabo.»

«Ma hai studiato latino, no?»

Lui sospirò, a volte l'ignoranza di Ada lo irritava.

«Appunto, latino. È diverso dal greco, e ancor più diverso dall'arabo. Su, dai, muoviamoci. Stiamo perdendo tempo, rischio una setticemia, e questa lampada non durerà in eterno.»

Quasi in risposta alle parole di Ennio, la torcia nelle mani di Elena si spense, diffondendo un esile filo di fumo.

«Appunto», fece Ennio. «Toh, reggi questa, da' a me quel bastone, potrebbe servirci ancora come arma.»

Fecero a cambio, lui soppesò la torcia nella mano.

«Ora sì che sembri un cavernicolo», scherzò lei.

Si spostarono, passando accanto a scaffalature che reggevano una collezione di grossi barattoli di vetro dal contenuto inquietante. Nella soluzione giallastra galleggiavano parti anatomiche umane, insetti sconosciuti, esemplari vegetali. Ada rabbrividì alla vista di qualcosa che sembrava un ragno con una lunga coda e le zampe rattrappite intorno al corpo. Era più grosso della testa di un uomo adulto. Proseguirono, ed i vasi di vetro cedettero il posto ad altri in ceramica, decorati con greche geometriche e diciture in latino dai caratteri gotici. 

«Sal Mirabilis», mormorò Ennio leggendone alcune mentre camminava. «Sal Alembroth... Sal Gemmae... Sal Armoniacum... Spiritus Vini Philosophicum... Credo che mio padre e i suoi amici sarebbero stati al settimo cielo se avessero scoperto tutto questo senza...»

«Senza mostri schifosi che volano e ti saltano addosso», aggiunse Ada. Era nervosa, stanca. Si sentiva sporca, contaminata dall'aura malsana che trasudava da quella casa, che era stata la dimora di generazioni di persone con qualche rotella fuori posto. Stava per aggiungere qualcosa quando la luce della lanterna fu riflessa da una superficie lucida, in una nicchia alla loro sinistra.

C'era una specie di scanno di legno, davanti ad un grosso specchio, alto ben più di un uomo, e largo quanto un armadio a due ante. Era rettangolare, eccezion fatta per il lato superiore, che era molato ad arco. Era contornato da una decorazione in bronzo che raffigurava esseri alati, uomini armati di lance, animali mitologici dalle forme singolari. La particolarità però era nel fatto che lo specchio era completamente nero. Ennio mosse una mano sulla superficie, scostando un velo di ragnatele e uno strato di polvere. Ne ripulì una parte, meglio che poteva. I volti dei due ragazzi si vedevano appena nel riflesso. Quasi stessero per scomparire nelle tenebre del nero che li circondava.

«Specchio specchio delle mie brame...», sussurrò Ennio all'orecchio di Ada, «...chi è il più infangato del reame?»

La battuta era fiacca, specialmente in quel luogo e in quella situazione, lei fu grata che lui conservasse il suo spirito e cercasse di tirarla su per come poteva. Doveva essere difficile anche per lui, pensò, che tra l'altro era ferito.

Gli diede un bacio, se lo meritava dopotutto.

«Andiamocene, prima che venga Grimilde ad offrirci delle mele», scherzò di rimando lei.

Poco oltre un arco nella parete dava accesso ad un'altra stanza, una specie di salone arredato con maggior lusso.

Tentennarono increduli sulla soglia. C'era una grande scrivania, su cui spiccava la sagoma di un vecchio monitor a fosfori verdi, dalla scocca grigia, e scartoffie sparpagliate. Sulla sinistra un piccolo camino si apriva nella parete. Era bordato con un rivestimento in pietra leccese finemente decorato con motivi floreali e barocchi. Sull'altro lato due divani di tessuto verde scuro erano disposti ad angolo. Completavano l'arredamento un tavolo elegante con sei sedie, una cristalliera, due vasi con rametti ornamentali impolverati da almeno un decennio, ed un grosso tappeto dai motivi arabescati.

«Perfetto», esclamò Ada. «Manca soltanto una doccia...»

«Un paio di panini con mortadella ai pistacchi e provola piccante», aggiunse Ennio. «Non chiedo altro!» Si spostò verso la cristalliera. «Tipregotipregotiprego...», disse mentre si avvicinava. L'aprì. 

Ada lo vide frugare all'interno. Sentì il rumore di vetri. «Sì!», lo sentì esclamare.

Ennio tornò con una bottiglia di vetro senza etichette. L'esterno era sfaccettato come un diamante, e in forma di gemma era anche il tappo, che lui si affrettò a togliere per annusare il liquido color ambra scuro all'interno.

«Tua sorella ha ragione», disse ad Ada. «Dio c'è! Ne vuoi?» Le offrì il primo sorso. Lei annusò il contenuto, poi scosse la testa. Non aveva mai amato quel genere di liquori troppo forti.

«Come preferisci», commentò Ennio, poi prese due sorsi e li mandò giù d'un fiato. «Wow», disse, mentre sentiva un fuoco espandersi nello stomaco. «Ci voleva. Ci voleva proprio.»

Ada si era portata verso la scrivania. C'era qualcosa che aveva attirato la sua attenzione. Alle spalle di essa, sulla parete, c'era una lavagna magnetica sulla quale qualcuno aveva appiccicato un certo quantitativo di fogli con schizzi, disegni, articoli di giornale, fotografie. In una di esse si vedeva un signore dai baffi ricurvi, com'era usanza intorno alla fine del diciannovesimo secolo. Imbracciava un fucile da caccia, e teneva un piede sopra qualcosa di informe. La foto era vecchia e ingiallita, ma Ada ebbe la certezza che la preda nell'immagine avesse a che fare col genere di creature che avevano incontrato.

«È quella macchina infernale», disse Ennio indicando uno schizzo che raffigurava le otto colonne e degli appunti scritti a lato.

Ada controllò la scrivania, c'era un grosso registro, l'aprì. Sembrava quasi un diario di bordo. Delle annotazioni erano scritte in fretta, con una grafia nervosa e a tratti incomprensibile come quella di un medico.