Ecco che cosa era successo. Nel corso di quell’inenarrabile pomeriggio, dopo che i carri armati e le autoblindo si erano inerpicati fino al centro della città, rimediando non pochi graffi, da uno dei blindati era venuto fuori, proprio nella piazza del municipio, il comandante del reggimento tedesco, il colonnello Fritz von Schwabe, decorato con la Croce di Ferro.
Senza nemmeno sgranchirsi le gambe, mentre i suoi sottoposti attendevano gli ordini, scrutò il paesaggio che aveva davanti con uno sguardo così strano che se ne meravigliarono tutti. E non si limitò a guardare, con aria assorta, ma, come se stesse parlando tra sé e sé, proferì queste parole: Argirocastro... Ho un amico da queste parti...
Quelli che gli stavano intorno credettero che stesse scherzando, cosa che sembrava al tempo stesso probabile e improbabile dopo una giornata così ricca di colpi di scena. Ma il colonnello proseguì sullo stesso tono: Un amico intimo, un compagno di università... Il mio migliore amico... più di un fratello...
Gli altri pensavano che si sarebbe messo a ridere, come faceva di solito dopo uno scherzo del genere, e che, dopo aver ammesso che si trattava solo di un gioco, avrebbe dato loro una spiegazione.
Ma non accadde nulla di simile. Al contrario, posando su di loro uno sguardo pensieroso che non gli avevano mai visto, disse il nome dell’amico, la facoltà in cui avevano studiato a Monaco e il suo indirizzo in quella città: Dottor Gurameto il grande, alias Gurameto der Große, via Varosh 22, Argirocastro, Albania.
Gli ufficiali non si erano ancora ripresi dallo stupore quando sentirono l’ordine del colonnello: trovare immediatamente quell’albanese così speciale e portarlo al suo cospetto.
Avuto l’indirizzo, quattro soldati salirono al volo su due sidecar con la mitragliatrice a tracolla e partirono a tutta velocità alla ricerca dell’uomo.
Poiché gli abitanti non erano ancora usciti dai rifugi, nessuno assistette a quella scena: i militari che piombano davanti alla casa di Gurameto, battono forte alla porta, lo prelevano e lo scortano dal colonnello.
Nella piazza del municipio gli ufficiali che stavano attorno al colonnello avevano ormai capito che faceva sul serio, ma furono assaliti da nuovi dubbi quando notarono il nervosismo in cui lo aveva gettato l’attesa dell’amico. Era veramente più di un fratello o si trattava di qualcuno che era destinato alla condanna capitale? Senza lanciarsi in una ridda di altre ipotesi, con una specie di ansiosa curiosità, aspettavano di vedere se gli sarebbe stata accordata una qualche onorificenza o se, al contrario, sarebbe stato fucilato per chissà quale crimine.
I sidecar riapparvero con lo stesso fragore di prima, cosa che ormai non stupiva più nessuno, dal momento che era impossibile immaginare diversamente l’arrivo di quell’enigmatico medico.
Apparentemente non si trattava né di decorazioni né di condanne a morte, ma di tutt’altro, di un qualcosa che in quella situazione era inconcepibile, di qualcosa di sentimentale che sembrava provenire dal secolo precedente, o da più lontano ancora, dall’epoca della cavalleria.
Il dottore in un primo momento sembrò raggelarsi, come se non avesse riconosciuto il suo compagno di studi di un tempo (in seguito qualcuno fece notare che il passare degli anni, l’uniforme, ma soprattutto le due cicatrici sul viso avevano forse impedito il riconoscimento immediato), ma dopo un po’ le cose seguirono il loro corso.
Gli abbracci, l’emozione e le lacrime suscitarono una serie di supposizioni che si susseguirono a ondate per poi dissolversi nella testa dei presenti... Il colonnello era stato per caso in cura da uno psichiatra, di recente?... E poi... tutte quelle effusioni... sì... oh no, no... non era possibile... nessuno dei due sembrava essere dell’altra sponda... Eppure c’era qualcos’altro... Il colonnello von Schwabe, per quanto giovane, pur non essendo un alto gerarca, aveva solide relazioni a Berlino, capitale del Reich... Magari era al corrente di cose ignorate da tutti... Forse sapeva, per esempio, che il medico albanese da un giorno all’altro sarebbe stato nominato... governatore dell’Albania.
Nel frattempo quelle effusioni continuavano. La rimpatriata con il fratello perduto, come nelle antiche ballate, non avrebbe potuto essere più commovente di così.
Come se gli avesse letto nel pensiero, il colonnello stava proprio per dire al medico qualcosa a questo proposito.
I Nibelunghi, il codice di Lek Dukagjini...? Ricordi quello che mi dicevi alla Taverna della vedova Martha? La bessa albanese, l’ospitalità.
Certo che mi ricordo, come potrei averlo dimenticato? rispose il dottor Gurameto il grande.
Forse anche lui era commosso, ma di tanto in tanto un’inspiegabile ombra gli attraversava lo sguardo.
Anche il viso del colonnello, a tratti, si raggelava.
Ho sognato questo incontro tante di quelle volte, riprese con aria pensosa. Quando mi capitava di parlare di te e dell’Albania come l’avevo conosciuta attraverso gli scritti di Karl Mayer e come tu me l’avevi descritta, gli altri probabilmente mi prendevano per pazzo... Perché non sapevano che cosa ci legasse... Non sapevano nemmeno che quando ho creduto di morire ho pensato a te. Sono arrivato a immaginare che mi stessi operando tu, e non il medico militare... Ti ricordi che un giorno mi hai raccontato quel sogno terribile in cui ti operavi da solo...? È un po’ la sensazione che ho provato io... Eri tu che mi operavi, anche se era un altro a maneggiare il bisturi... Quindi sei tu che mi hai salvato, resuscitato... richiamato... riportato in vita!
Si interruppe per un attimo e si portò la mano alla fronte su cui aveva una delle due cicatrici. Quando ricominciò a parlare, il ritmo delle sue parole si era fatto più lento, la voce era diventata quasi malinconica.
E quindi... quando ho ricevuto l’ordine... quando mi hanno detto: Prendi i carri armati e vai in Albania... il mio primo pensiero è stato per te. Non si trattava di occupare l’Albania, ma di salvarla unendola al Reich immortale, e naturalmente innanzi tutto di ritrovare te, fratello mio... Così sono partito a cuor leggero per il paese della bessa di cui mi avevi parlato tante volte...
Si interruppe di nuovo, questa volta per un bel po’.
Ma nella tua città, dottor Gurameto, mi hanno sparato addosso!
Ora aveva la voce roca e il viso cupo.
Le parole del colonnello avevano intristito gli ufficiali. Immobile, senza dire una parola, il dottor Gurameto il grande era rimasto ad ascoltare.
Mi hanno colpito a tradimento... Quando uno dei nostri esploratori, esalando l’ultimo respiro, ha dato l’allarme: Ci attaccano! ho pensato di nuovo a te. E alla mia stupidità, perché ti avevo creduto e, preso dalla nostalgia, avevo mandato quei ragazzi a morire. Non ti nascondo che sono stato colto da una rabbia terribile e ho gridato: Gurameto, traditore, dov’è finita la tua bessa albanese?
Ecco dove voleva arrivare! Stavano per esclamare i suoi sottoposti. Era la conferma della loro prima ipotesi: il dottor Gurameto il grande era spacciato.
Anche lui rimaneva immobile senza dire niente. La voce del colonnello diventava sempre più cupa. Ti avevo mandato un messaggio. Migliaia di volantini che ti ho fatto cadere dal cielo: Vengo da amico. Ospite cortese, ricevi gli amici? E, per tutta risposta, tu ci rimandi gli esploratori agonizzanti. Quando ho visto i miei soldati sui sidecar con le teste ciondolanti, non ti nascondo che mi è venuta voglia di urlare: Che ne è di ciò che ci siamo detti alla Taverna della vedova Martha? Dov’è finita la tua bessa, Gurameto? Perché non dici niente?
Finalmente il dottore riuscì a proferire parola.
Non sono io che ti ho attaccato, Fritz.
Ah sì? Non sei tu? È ancora peggio. Mi ha attaccato il tuo paese.
Io rispondo solo di ciò che riguarda casa mia, non dello Stato.
È la stessa cosa.
No, non è la stessa cosa. Io non sono l’Albania e tu non sei la Germania, Fritz.
Davvero?
Noi siamo un’altra cosa.
Il colonnello abbassò gli occhi e rimase così per un po’, con aria pensierosa.
Un’altra cosa, mormorò. Dici bene. Sei strano, Gurameto. Lo sei sempre stato. Sei forse un superuomo? Sembri venuto da un altro mondo.
Anche tu, Fritz.
Vuoi dire che è per questo che gli altri non ci capiscono?
Forse. Io sono rimasto quello che ero.
E io no? Pensi che l’uniforme che porto, le ferite, la guerra, la Croce di Ferro mi abbiano cambiato? Credimi: neanche un po’.
Se è così, Fritz... se sei rimasto lo stesso, allora ti invito alla mia mensa in virtù del codice di cui abbiamo tanto parlato. Questa sera stessa.
Il colonnello si portò la mano alla fronte, come se fosse stato colpito. Aveva uno sguardo di ghiaccio, quasi a voler dire: andare a cena da chi mi ha sparato alle spalle?
Prima di rispondere, abbracciò Gurameto, ma questa volta con freddezza. Il dottore, pensando che quell’abbraccio equivalesse a un rifiuto, si irrigidì. Ma la risposta, contro ogni previsione, fu diversa.
Ti prometto che verrò. Poi, avvicinandosi all’orecchio dell’amico, il colonnello sussurrò: Non credo che infrangerai la bessa.
Aveva pronunciato queste ultime parole per metà in albanese e per metà in tedesco antico.
Quando il crepuscolo avvolse la città, il dottor Gurameto il grande si sentì invaso da una profonda tristezza, che non aveva mai provato prima di allora. Mentre gli giungevano all’orecchio i rumori dei preparativi della cena, dall’anticamera del secondo piano scrutava la porta da cui, di lì a poco, sarebbe giunto l’invitato.
Il colonnello si presentò puntualissimo, e stranamente il suo arrivo non fu preceduto dal benché minimo rumore, come se avesse sorvolato la città per passare inosservato.
Fu così che il padrone di casa interpretò quel silenzio, e come prima cosa gli chiese se doveva chiudere le tende e spegnere il grammofono.
Con sua grande sorpresa, l’altro rispose: Neanche per sogno. Se il colonnello Fritz von Schwabe accettava un invito, e per di più in Albania, i lampadari dovevano essere tutti accesi, e la musica riecheggiare ovunque, come volevano le usanze del paese.
Mi hai invitato a cena, eccomi! fece con una voce affabile.
Sorridente e allegro, salì le scale scortato dai suoi sottoposti, che portavano una cassa di champagne.
Entrarono così nel grande salotto, fecero il baciamano alla padrona di casa e alla figlia, senza tralasciare di rivolgere un cenno di saluto al genero.
Mentre si accomodavano in salotto, stappavano lo champagne, sceglievano i dischi da ascoltare, passò un po’ di tempo. Quel vago senso di fastidio dovuto al fatto che nessuna casa albanese aveva mai ricevuto dei militari tedeschi, come del resto questi ultimi non avevano mai messo piede in una di quelle dimore, svanì non appena gli invitati presero posto a tavola.
Improvvisamente l’atmosfera sembrò farsi più distesa. Facevano un brindisi dopo l’altro, i rumori della tavola si sposavano armoniosamente con l’effervescenza dello champagne, e quest’ultima con le conversazioni incrociate che non duravano né troppo né poco. Il colonnello e il padrone di casa si parlarono più volte all’orecchio, senza nascondere che si punzecchiavano rievocando un fiume di vecchi ricordi della loro vita da studenti, fatta di bevute e di ragazze, e intanto la signora Gurameto lasciava intendere, con uno sguardo indulgente, che quei discorsi non la turbavano affatto.
Ah, Signore! sospirò poco dopo il colonnello. Sebbene non avesse parlato a voce alta, all’improvviso calò il silenzio. Ah, Signore, riprese allora, sono settimane, mesi che sogno di trovarmi in una casa come questa!
Lo sguardo gli si incupì di nuovo, la voce si affievolì come poco prima nella piazza del municipio.
Gurameto, amico mio, dopo tante settimane, tanti mesi trascorsi in un’Europa devastata, circondato dalla morte e dall’odio, proseguì a bassa voce, non sognavo altro che una cena come questa. Quando, poco fa, ti ho detto che ho pensato a te per giorni interi, forse hai pensato che stessi esagerando. Ma, credimi, ero sincero. Tra tutte le dimore in cui sognavo di essere ricevuto in questo triste continente, la prima in assoluto era la tua.
Ti credo, rispose pacatamente Gurameto.
Ti ringrazio, fratello. La tua casa mi attirava per due motivi: perché è casa tua e perché è una dimora albanese. Una dimora obbediente al codice di Lek Dukagjini, così me l’avevi descritta. Mi offri la tua bessa, ospite cortese? Nobili rituali! Ho sempre pensato che non è un caso se le nostre antiche consuetudini germaniche somigliano tanto alle vostre... Codici che il mondo ha dimenticato, ma che noi riporteremo in vita... Questi erano i miei pensieri mentre camminavo per l’Europa paralizzata dal freddo invernale... Noi avevamo tutto, stavamo vincendo ovunque, eppure ci mancava qualcosa...
Approfittando di un momento di silenzio, uno degli ufficiali aveva alzato il calice per un brindisi, ma lo sguardo del colonnello lo indusse immediatamente a posarlo.
Il suo discorso diventava sempre più oscuro.
E, come ti ho detto, quando ho ricevuto l’ordine di occupare... voglio dire... di unificare l’Albania, il mio primo pensiero è stato: andrò da mio fratello. Lo troverò, ovunque sia. E sono venuto... ma tu...
Tu?
Gli invitati si guardarono, poi cercarono di captare lo sguardo del padrone di casa come se volessero implorarlo di lasciar cadere quella conversazione.
Il dottor Gurameto si era di nuovo rabbuiato.
Tu, sì, tu mi hai colpito, Gurameto... Alle spalle, a tradimento!
Non sono stato io, rettificò pacatamente il dottore.
Lo so. Ma tu sai meglio di me che, secondo il codice di Lek Dukagjini, il vostro codice, il sangue si lava col sangue... È stato versato del sangue tedesco... e non si può accettare che il sangue venga sparso invano...
Con gli occhi chiusi, il dottor Gurameto aspettava il verdetto.
Ottanta ostaggi laveranno quel sangue... Mentre noi ceniamo, i miei uomini li stanno già rastrellando casa per casa...
Il volto del medico rimase immobile. La notizia gli era giunta, ma pensava che l’ordine sarebbe stato revocato.
Ora tutti aspettavano la sua risposta. Si percepiva che quella situazione di paralisi non poteva durare. E che il silenzio sarebbe stato infranto da una frase del tipo: Perché mi dici queste cose? Oppure: Ti ho invitato da amico, onorami come io ti onoro. O più semplicemente ci si aspettava che Gurameto pronunciasse l’antica formula, imposta dal codice, sulla tavola profanata. Poi sarebbe andato alla finestra, come prevedeva il codice, per proclamare all’intera città che l’amico tedesco aveva profanato la sua casa.
Ma il dottor Gurameto il grande non disse niente del genere. Avrebbe detto tutt’altro, se lo sentiva, ma intanto la sua mente era occupata da un pensiero ancora più inatteso.
A dire il vero non era un pensiero. Era qualcosa di improvviso e sorprendente, che gli penetrava nel cervello al momento sbagliato e che sembrava avere una qualche relazione con lo strano sogno ricordato dal colonnello, qualche ora prima, nella piazza del municipio. In una visione folgorante, come non gli era mai capitato prima, gli balenò in mente la scena in cui, steso sul tavolo operatorio, si rendeva conto tutt’a un tratto che il chirurgo che lo stava operando altri non era che lui stesso. La cosa lo stupiva, per quel poco che ci si può stupire nei sogni, ma ciò che lo impressionava di più era l’espressione che vedeva sul volto dell’altro. Non si riusciva a capire se lo avesse riconosciuto oppure no, aveva voglia di dirgli: Non vedi che sono io, non te ne sei accorto? Nel frattempo il chirurgo, con il bisturi in mano, sembrò riconoscerlo, ma non lo diede a vedere più di tanto, come se avesse visto per strada un importuno, e Gurameto ebbe nuovamente voglia di dirgli: Attento, per pietà, non vedi che sono io, cioè te stesso? Ma intanto il medico si era risistemato la mascherina, e adesso per Gurameto era più difficile riuscire a decifrare la sua espressione. Inoltre quest’ultima cambiava di continuo. In certi momenti sembrava voler dire che naturalmente avrebbe avuto pietà di lui come di un suo familiare, in altri l’esatto contrario, e cioè che chiunque avrebbe meritato la sua compassione tranne lui.
Gurameto avrebbe voluto chiedere: Perché? Ma l’anestesia non glielo consentiva più. L’espressione del chirurgo diventava sempre più severa. Ora che ti ho in pugno, vedrai cosa ti faccio.
E il supplizio continuava: Scherzavo, tu sei me, come potrei farti del male? Poi all’improvviso: Imbecille, non lo sai che i nostri peggiori nemici siamo noi stessi? Non hai ancora imparato che, se c’è uno da cui non puoi sperare in nessun modo di sfuggire, quello sei proprio tu? E a quel punto, nell’istante esatto in cui la mascherina si era chinata su di lui per praticare il primo taglio con il bisturi, era stato svegliato dalle sue stesse grida.
Il colonnello gli stava dicendo qualcosa, ma la sua voce sembrava venire dall’esterno e il medico non era sicuro di riuscire a capire le parole. Gurameto, tu mi hai riportato in vita. La voce era bassa, impercettibile: Tu mi hai resuscitato, per tua disgrazia.
Di sicuro quello che stava accadendo segnava l’inizio della sua rovina. A quell’ora, senza dubbio, in tutta la città era già considerato un traditore. Nei giorni, nelle stagioni, negli anni a venire, forse anche dopo la sua morte, di lui avrebbero ricordato solo quello.
Avrebbe voluto gridare come aveva fatto quella volta, nel letto in cui dormiva quand’era studente, per scacciare quell’incubo. Alla fine dischiuse le labbra, ma invece di un grido vennero fuori solo quattro parole, pronunciate con la massima calma:
Libera gli ostaggi, Fritz!
Tutta la tavola rimase immobile, come raggelata.
Was?
Il padrone di casa guardò il suo ospite con aria triste.
Libera gli ostaggi, Fritz! ripeté. Libera obsides!
Come osi?...
Un nodo alla gola impedì al colonnello di continuare.
Come osi darmi ordini?
Tutti sapevano che avrebbe pronunciato quelle parole, prima ancora che aprisse bocca.
Le cicatrici s’infiammarono, poi ripresero il loro colore abituale.
Osi anche ridirmelo in latino? Sei pazzo, Gurameto!
Il padrone di casa alzò le spalle, un gesto che si prestava a diverse interpretazioni.
Il colonnello gli si avvicinò al viso, come per sincerarsi che si trattasse veramente di Gurameto il grande e non di un estraneo.
Se tu non fossi...
Sebbene non avesse finito la frase, tutti capirono cosa stava per dire: Se tu non fossi il mio compagno di studi, della taverna, dell’Europa devastata... le persone sedute a questa tavola sarebbero già morte.
Aveva ripreso il controllo di sé e, invece di pronunciare quelle parole, mise una mano sulla spalla di Gurameto come si fa con una persona spaventata per rassicurarla.
Con voce soffocata, quasi accattivante, e abbozzando un sorrisetto malizioso, disse:
Mi hai dato un ordine in una lingua morta. Perché lo hai fatto, amico mio?
Gurameto scosse la testa in segno di diniego, ma nessuno riuscì a capire quale fosse esattamente la sua obiezione.
Gli altri ufficiali presenti seguivano la scena con lo sguardo smarrito, mentre le loro mani passavano di continuo dal calcio della pistola alla coppa di champagne.
Il colonnello ripeté la domanda, aggiungendo: Forse disprezzi la lingua tedesca?
Gurameto fece cenno di no con la testa.
Vorrei capire, insistette il colonnello. E anche i miei ufficiali.
La spiegazione di Gurameto fu piuttosto confusa. Non c’entrava niente il tedesco. Il latino era una lingua che aveva amato e che avrebbe continuato ad amare. Per quanto riguardava quella frase, l’aveva pronunciata istintivamente, senza pensare. Forse era la nostalgia degli anni dell’università. Dell’epoca in cui usavano il latino per confidarsi i segreti. E poi era una lingua neutra... al di sopra di quelle tempeste... al di sopra di noi... Una lingua in cui da secoli non si davano più ordini...
Il colonnello rimase pensieroso per qualche istante. Poi bevve un sorso di champagne.
Mi hai chiesto di liberare gli ostaggi, disse con voce pacata. Dammi una buona ragione per farlo!
Sono innocenti, rispose il medico. Non ne ho altre.
Gurameto accennò alle porte a cui i suoi uomini stavano bussando mentre la gente era seduta a tavola. Come le sceglievano? C’era inciso sopra il marchio della colpa?
Il colonnello rispose che, come sempre accadeva in caso di rappresaglia, le porte venivano scelte a caso: una ogni dieci.
La conversazione sembrava essersi rasserenata, quando improvvisamente il colonnello alzò il tono.
Dottor Gurameto, tu chiedi quello che anche io esigo: giustizia! Chi ha sparato sui miei esploratori? Dammi i colpevoli e io ti restituirò subito gli ostaggi. Immediatamente, ti do la mia parola... sulla bessa di Lek Dukagjini!
Gurameto non rispose.
Il colonnello esclamò: Il patto con la città è concluso. Mettiamolo in opera. Consegnatemi i colpevoli, io vi restituirò gli ostaggi!
Gurameto non batté ciglio, e il colonnello avvicinò la testa alla sua fronte.
Se la città non vuole consegnarmeli, fallo tu.
Gurameto non disse niente.
Gurameto, fratello, riprese il tedesco con una voce più dolce. Non voglio spargere sangue albanese. Sono venuto da amico... con promesse... doni... ma voi mi avete attaccato...
La voce era di nuovo affranta, rotta.
I loro sguardi, che fino a quel momento si erano incrociati con fierezza, cominciarono a evitarsi.
Dammi quei dannati nomi, disse il colonnello in tono quasi supplichevole. Dammeli e gli ostaggi saranno immediatamente nelle tue mani.
Gurameto fece cenno di no con la testa, ma senza la benché minima traccia di arroganza.
Non posso. Non potrei neanche se lo volessi. Non so chi sono.
Il colonnello lo guardò con aria stanca.
Non conosco i loro nomi, riprese Gurameto. Non hanno nome, aggiunse.
Mi stai prendendo in giro?
No, Fritz, non ti sto prendendo in giro. Non hanno nome. Solo dei soprannomi.
Un ufficiale, che probabilmente faceva parte della Gestapo, annuì.
Il colonnello si era preso la testa fra le mani, il padrone di casa gli si avvicinò all’orecchio come all’inizio della cena, quando si punzecchiavano evocando i segreti della Taverna della vedova Martha.
Quello ascoltò per un po’, poi, con voce flebile, disse: Gurameto, tu conosci dei grandi misteri che tutti ignorano.
La risposta di Gurameto fu così inattesa che in seguito, da qualunque punto di vista la si considerasse, sembrò incredibile.
Già da allora, del resto, si poteva prevedere che diverse fasi di quella cena, compresa probabilmente quest’ultima nella sua totalità, sarebbero state ulteriormente messe in discussione.
La sorprendente risposta di Gurameto fu: Peggio per te. Libera gli ostaggi!
Non posso.
Ora il colonnello usava le stesse espressioni dell’amico.
Sì, invece, disse Gurameto. Puoi farlo e lo sai.
No.
Puoi farlo e lo sai.
Visto che non hanno nome, dimmi almeno i soprannomi.
I presenti seguivano quella conversazione sconcertante senza capire niente.
A turno i due interlocutori assumevano un’espressione colpevole. Le parole sussurrate all’orecchio avevano a tal punto rovesciato la situazione che era divenuto impossibile capire chi dei due stesse impartendo ordini all’altro. Ormai era chiaro che il dottor Gurameto il grande era molto diverso da come se lo immaginavano. Potevano tranquillamente figurarselo nei panni di governatore, come già avevano fatto nella piazza del municipio. E non solo di una, ma di entrambe le Albanie.
Da quel dialogo traspariva una certa sofferenza. Quello che pretendevano l’uno dall’altro era qualcosa di molto concreto, eppure di colpo era diventato inafferrabile. Sembravano come intrappolati da quello stato di cose, incapaci di tirarsene fuori.
Il dottor Gurameto il grande era un vero mistero. Il titolo di governatore non sembrava affatto usurpato, nel suo caso. Forse perfino quello di governatore della Grande Albania. Per non dire di tutti i Balcani. Ach so! In ogni caso era quello che traspariva dal suo comportamento. Forse nessuno si sarebbe stupito nel sentire il colonnello dargli del Vostra Eccellenza!
Fritz von Schwabe non usò quel titolo, ma ci andò vicino.
Ti concedo sette ostaggi, disse stanco di combattere.