PREMESSA

Summum ius, summa iniuria.

CICERONE

Surtout pas trop de zèle.

TALLEYRAND

Le paci non provengono da famiglie raccomandabili. Di solito sono figlie di guerre, con il loro seguito di odi, violenze fatte e subite, desideri di vendetta, prevaricazioni. Gli uomini che le stipulano hanno margini d’azione ristretti. Il passato pesa sul presente e determina il futuro. Abili negoziatori sanno mettere a frutto ogni minima opportunità per migliorare il risultato che la storia si sforza di imporre, ma non sono in grado di stravolgerlo.

Le paci migliori hanno almeno il carattere di essere schiette, di dichiarare apertamente gli intenti che le muovono e che spesso sono stati raggiunti.

In Vestfalia, nel XVII secolo, l’obbiettivo dichiarato era quello di mettere fine a una guerra non voluta né dall’imperatore né dai grandi feudatari tedeschi, ormai imposta al paese e alla sua popolazione da potenze straniere: Francia, Svezia, Olanda, persino Spagna. Eserciti avversari attraversavano le contrade della Germania, alle volte con l’unico intento di occupare regioni non ancora saccheggiate per procurarsi i mezzi per mantenersi e proseguire nella guerra. Lo schermo del conflitto religioso aveva già ceduto e andava scomparendo del tutto, prova ne sia che la mancata adesione pontificia al trattato di pace non ebbe in pratica alcuna conseguenza.

Occorsero anni di discussioni, sacrifici di interessi e di princìpi, la scelta di due sedi parallele dove discutere, Osnabrück per i principi protestanti e Münster per quelli cattolici, ma alla fine le armi tacquero e la Germania andò incontro a quasi due secoli di pace.

Meno fortunata fu l’occasione del Congresso di Vienna del 1815, quando l’intento esplicito dei vincitori era la restaurazione dell’Europa prenapoleonica, corretta dalla concessione di premi a quanti avevano contribuito alla sconfitta della Francia rivoluzionaria e imperiale. L’assetto organizzato nella capitale austriaca sopravvisse per pochi decenni prima di lasciare spazio al nuovo impero francese e subito dopo alla nascita del Regno d’Italia e dell’impero tedesco-prussiano come Stati nazionali.

Non si può negare tuttavia che il duca di Wellington, Lord Castlereagh, il principe di Metternich, il principe von Hardenberg e lo zar Alessandro, con il successivo contributo del principe di Talleyrand-Périgord – quest’ultimo vero genio della diplomazia, incredibilmente riuscito a intrufolarsi al tavolo ristretto al quale venivano prese le decisioni, nonostante la Francia monarchica di Luigi XVIII non fosse neppure tra gli invitati al Congresso –, dettero forma a un continente reazionario e legittimista.

Anche l’esito della Conferenza di pace di Parigi del 1946-47, la cosiddetta «Conferenza dei 21» dal numero degli Stati partecipanti, fu quello dichiarato e previsto, ossia la ratifica degli accordi stretti a Yalta tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito con le correzioni rese necessarie dal tempo trascorso e dagli eventi occorsi. Che si andasse verso la divisione del mondo in due aree di influenza era chiaro a tutti, Winston Churchill coniò la definizione di «cortina di ferro» già nel marzo 1946, prima ancora che la Conferenza parigina si aprisse.

Il sistema creato nella capitale francese rimase sostanzialmente intatto fino alla caduta del muro di Berlino, nel novembre 1989, e ciò che lo ha seguito risente in profondità di quanto stabilito allora.

Ben diversi furono le premesse e l’esito della Conferenza di Parigi del 1919, precedente di appena ventisette anni rispetto a quella del 1946-47. L’ordine mondiale che avrebbe dovuto prendere forma allora doveva fondarsi, in base alle dichiarazioni dei vincitori, e primo fra tutti del presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson, sulla giustizia e il rispetto dei diritti dei popoli. L’intento dichiarato faceva seguito alla promessa per cui la guerra del ’14-18 avrebbe posto fine a tutte le guerre.

Anche il problema dei danni di guerra non venne mai presentato nei termini della necessità di pagare i debiti contratti dai vincitori con le industrie, e soprattutto le banche, statunitensi.

Gli esiti della Conferenza li conosciamo, sia quelli formali con l’assurda pretesa di attribuire alla «Germania e ai suoi alleati» tutte le responsabilità connesse al disastro rappresentato dalla Grande guerra, sia quelli politici, dall’umiliazione tedesca al sostegno ai nazionalismi europei, che furono tra gli elementi scatenanti della Seconda guerra mondiale.

Proprio la distanza tra gli intenti e i risultati conseguiti dalla diplomazia mondiale nel 1919 è alla radice dell’interesse che ha mosso gli autori nella stesura di questo testo. La persona che ci ha maggiormente incuriosito è stata quella del presidente Woodrow Wilson, al quale si debbono gli slanci ideali più visionari e le decisioni concrete meno equilibrate.

Decisamente era un uomo che non conosceva né l’Europa, né la diplomazia.

Attribuirgli colpe eccessive non sarebbe giusto. La Grande guerra ebbe inizio per l’incapacità del ceto dirigente europeo di gestire le violente trasformazioni in corso, dal rapido sviluppo industriale tedesco alla nascita dei partiti di massa, l’affacciarsi del quarto stato alla politica. Gli Stati Uniti furono trascinati in un conflitto del quale non avevano alcuna responsabilità, data la decennale tradizione isolazionista.

Che il loro presidente non fosse preparato per un compito imprevisto come la riorganizzazione della geopolitica mondiale è più che normale. Semmai lo si può accusare di eccesso di zelo.

Bisogna infine ricordare al lettore che il continente nel quale ci siamo inoltrati, la Conferenza di pace di Parigi, il suo esito e le sue conseguenze, è sterminato. Nessuno lo ha visitato per intero, troppo vasto per un solo esploratore. Non ne esistono carte dettagliate, solo mappe incerte, come quelle che guidavano i viaggiatori ottocenteschi. Quello che proponiamo è il nostro percorso, quasi un diario di viaggio in un territorio del quale in molti hanno raccontato, ma che conserva ugualmente misteri e aree incognite.