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L’UOMO SBAGLIATO

Gli autori di questo libro non hanno mai nascosto la tendenza a simpatizzare per gli sconfitti. Risultare vincitori rende arroganti e di solito sono in molti a farsi carico di rappresentare con favore le motivazioni e i valori di chi ha ottenuto il sopravvento con la forza. Meno numerosi risultano quanti si occupano di dar conto delle ragioni che hanno determinato l’agire di chi ha avuto la peggio, nella convinzione che esse non meritino di essere cancellate in modo brutale.

Fra i perdenti più pittoreschi e con le migliori ragioni, se non altro quelle di essersi organizzati in uno Stato democratico, furono i sudisti, i confederati, i tredici Stati che combatterono per quattro anni in difesa del loro diritto di esistere in quanto entità politiche indipendenti, sancito dalla Costituzione scritta da Benjamin Franklin, e a lasciare gli Stati Uniti d’America non ritenendo più conveniente rimanere al loro interno.

Contro di loro fu combattuta una feroce guerra totale, prossima al genocidio, alla quale fecero seguito sette anni di occupazione militare. Le sofferenze subite sollecitano la pietà e stimolano la comprensione.

Ebbene, le letture e lo studio che siamo stati costretti a fare per la stesura di questo testo ci hanno indotto a riflettere sul nostro allineamento originale. Thomas Woodrow Wilson, ventottesimo presidente degli Stati Uniti d’America, fu il primo politico proveniente da uno Stato del Sud ad accedere alla Casa Bianca dopo la fine della guerra civile. Non solo era nato in Virginia, anche se da genitori provenienti dall’Ohio, ma era stato bambino durante la guerra stessa. A otto anni aveva visto il presidente confederato Jefferson Davis sfilare in manette scortato dalle truppe nordiste vincitrici. Era stato testimone diretto della durezza della guerra. Il padre era un pastore protestante e la chiesa affidata alla sua cura venne adibita a ospedale per i soldati feriti, con il contorno di orrori che si può immaginare.

Non sembra che il giovane Thomas sia rimasto impressionato da ciò a cui assistette ancora ragazzino. Gli anni trascorsi in Virginia gli fecero invece acquisire tutti i difetti che si è soliti attribuire ai sudisti. Il presidente fu orgoglioso, supponente, arrogante, maldisposto ad ammettere i propri errori e ad ascoltare i pareri altrui, razzista, superstizioso. Tra l’altro era certo che il numero 13 gli portasse fortuna.

Una serie di circostanze fortuite sospinse questo professore di provincia – i cui pregi maggiori erano un ottimo portamento, un’eleganza naturale nel vestire e la capacità di scrivere e interpretare discorsi di grande efficacia – prima all’elezione a governatore del New Jersey e, dopo appena due anni trascorsi ricoprendo quella carica, a essere candidato alle elezioni presidenziali, battendo a sorpresa nella convention democratica di Baltimora il favorito James Beauchamp «Champ» Clark. Questo risultato avrebbe dovuto avere un significato marginale, dato che nei primi anni del Novecento erano i repubblicani ad attraversare una stagione di assoluta supremazia nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti.

Si votava però nel 1912, con entrata in carica nel 1913, anno fortunato per Woodrow Wilson. Il partito dell’elefante si spaccò e due candidati provenienti dalle sue fila, il presidente uscente William Howard Taft, nominato dalla convention repubblicana svoltasi a Chicago, e il suo predecessore Theodore Roosevelt, che per l’occasione fondò il Partito progressista, si presentarono entrambi alle elezioni. Questo consentì a Woodrow Wilson di risultare vincitore con poco più del 40 per cento dei voti, mentre Taft e Roosevelt insieme superarono il 50 per cento senza che nessuno dei due raggiungesse il 30 per cento, e di fare ingresso alla Casa Bianca il 4 marzo 1913.

Fu dunque lui a trovarsi alla guida degli Stati Uniti allo scoppio della Prima guerra mondiale. Dopo quattro anni piuttosto opachi di governo, con il Partito repubblicano ancora lacerato dalle divisioni interne, Woodrow Wilson si ripresentò davanti agli elettori: il motto della sua seconda campagna elettorale fu He kept us out of war, ci ha tenuti fuori dalla guerra. Ottenuta la riconferma il 5 novembre 1916, dopo esattamente cinque mesi dichiarò guerra alla Germania, il 6 aprile 1917.

La situazione di equilibrio fra alleati e imperi centrali che si era creata in Europa assegnava una immensa responsabilità agli Stati Uniti, unica grande potenza rimasta fuori dal conflitto. Un abile e deciso intervento diplomatico proveniente da oltre Atlantico avrebbe potuto indurre alla pace le potenze del vecchio continente, stremate da due anni e mezzo di combattimenti durissimi, e incapaci di proseguirli, per quanto riguarda gli anglo-francesi, senza il sostegno statunitense in termini finanziari, industriali e commerciali. Si può persino ritenere che la guerra era arrivata a quel punto come sua conseguenza. Banche e industrie statunitensi non si erano lasciate scappare l’occasione di fare affari con gli Stati in guerra in grado di controllare le rotte oceaniche e di vendere loro rifornimenti di materiale bellico, medicinali e viveri. Quanto agli imperi centrali, era evidente che se l’assedio che subivano da parte della flotta inglese fosse continuato avrebbero perduto la guerra e una pace di compromesso rappresentava l’obbiettivo maggiore al quale potessero ambire.

Woodrow Wilson rinunciò a una diplomazia costruttiva e preferì imboccare una strada diversa, più diretta, allo scopo di porre fine alla Grande guerra in un modo conveniente: scelse di ricorrere all’uso della forza per garantire gli interessi americani, in particolare l’esposizione delle banche e i crediti sorti in Europa a favore dell’industria bellica. Ogni altro tipo di considerazione veniva rinviato a dopo che la vittoria fosse stata conseguita.

Il presidente non credeva nella massima per la quale violenza chiama violenza. Riteneva che l’impiego della forza militare costituisse uno strumento legittimo ed efficace della politica estera. Lo aveva già dimostrato più volte in precedenza. Durante il suo mandato Woodrow Wilson ordinò interventi militari in Messico, Haiti, Cuba e Panama. Truppe statunitensi rimasero inoltre senza interruzione in Nicaragua, dove condizionarono pesantemente la politica interna del paese.

Forti perplessità sono sorte anche negli Stati Uniti in relazione all’opacità delle motivazioni che li portarono a entrare in guerra contro la Germania nel 1917. Fra di esse si è soliti annoverare l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania da parte di un U-Boot tedesco, che causò la morte di centoventitré cittadini americani presenti a bordo della nave. Il tragico episodio si verificò il 7 maggio 1915, quindi ben prima della decisione di Woodrow Wilson di dichiarare guerra.

Nei ventitré mesi che separano il siluramento del Lusitania dall’entrata degli Stati Uniti nella Grande guerra erano accadute molte cose. L’industria americana era diventata una sorta di fronte arretrato degli alleati e le banche newyorkesi ne erano i finanziatori. Il patto stretto contro gli imperi centrali sembrava destinato al successo, l’unico possibile inciampo era rappresentato dalla proclamazione della ripresa da parte degli U-Boot tedeschi della guerra subacquea indiscriminata a partire dal 1o febbraio 1917. Si trattava dell’ultima carta che la Germania giocava: rispondeva all’assedio cui era sottoposta da parte della flotta inglese tentando di chiudere la Gran Bretagna in un blocco simmetrico. La decisione tedesca rischiava di mettere in pericolo il capitale statunitense investito in aiuti agli alleati.

Alle domande relative alle reali motivazioni che spinsero Woodrow Wilson a far entrare il proprio paese nella Grande guerra si è cercato di fornire una risposta ai massimi livelli politici degli Stati Uniti. Fra il 1934 e il 1936 una commissione d’inchiesta del Senato presieduta da Gerald Nye, denominata ufficialmente Special Committee on Investigation of the Munitions Industry, indagò sulle cause del coinvolgimento USA nella Prima guerra mondiale e sugli interessi economici, bancari e dell’industria degli armamenti che portarono all’intervento del 1917. Dopo novantatré udienze e l’audizione di oltre duecento testimoni, la commissione sospese bruscamente i lavori a causa del taglio dei finanziamenti.

Il sito web del Senato statunitense ipotizza che questa decisione, presa dal parlamentare democratico Carter Glass della Virginia, allora presidente del comitato stanziamenti, sia stata determinata dall’intento di impedire che dall’indagine emergesse un atteggiamento eccessivamente compiacente, se non colluso, nei confronti di banche e industrie militari da parte di Woodrow Wilson, anche lui democratico e virginiano, seppure di adozione, dato che, come accennato, la sua famiglia proveniva dall’Ohio.

L’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale fece pendere l’ago della bilancia dalla parte dell’Intesa e dopo un anno e mezzo costrinse la Germania e i suoi alleati a chiedere la sospensione dei combattimenti. A quel tempo l’impero russo, quello asburgico e quello ottomano erano scomparsi, travolti dalla sconfitta o dagli sconvolgimenti sociali che la guerra aveva provocato. Il mondo intero andava riorganizzato politicamente e il compito spettava ai vincitori. Woodrow Wilson aveva il potere militare, politico, economico e finanziario per decidere cosa fare e come farlo.

Investito di questa missione e pienamente consapevole di esserlo, il presidente degli Stati Uniti commise una serie ininterrotta di errori politici e diplomatici che portarono al fallimento della Conferenza di pace di Parigi, riconosciuto anche da quanti sostengono le ragioni ideali dell’azione politica di Woodrow Wilson. La maggiore conseguenza diretta di tale fallimento fu il proseguimento per anni di azioni belliche nell’Est europeo e in Asia per giungere a una generale ripresa delle ostilità a livello mondiale meno di vent’anni dopo la chiusura ufficiale delle sedute della Conferenza parigina.

Sarebbe assurdo addebitare a una sola persona tutto quello che di sbagliato fu deciso nella capitale francese nel 1919. Migliaia di politici, diplomatici, militari, esperti delle più diverse discipline, funzionari e giornalisti gravitarono attorno ai lavori della Conferenza di pace, influendo su di essi ciascuno per la propria parte. Su questo complesso umano in continua agitazione e trasformazione si concentravano pressioni politiche, economiche e dell’opinione pubblica di enorme forza, che ne condizionarono l’operato in modo decisivo.

Furono in molti a commettere gravi errori. Alcune volte lo fecero per assecondare spinte non arginabili dell’opinione pubblica, alla quale era necessario rendere conto dei lutti e dei sacrifici sopportati negli oltre quattro anni della guerra; per altre occasioni di scelte infelici le cause vanno cercate nelle radici imperialistiche, belliciste e nazionaliste della cultura dominante in Europa in apertura del XX secolo e anche nei tratti caratteriali di personalità forti come Clemenceau e Lloyd George. Essi si trovarono gravati di responsabilità e poteri enormi all’improvviso e in parte inaspettatamente: al momento del crollo tedesco gli esperti alleati prevedevano una prosecuzione della guerra almeno fino alla primavera del 1919, data per la quale era in preparazione una offensiva generale alleata.

Di questi errori collettivi, anche gravi, accenneremo brevemente, senza trascurare il contributo che fornì Woodrow Wilson a che venissero commessi. La nostra attenzione si concentrerà poi sulle decisioni infelici prese dal presidente in qualità di assoluto protagonista, oggetto di pressioni alle quali non seppe resistere e qualche volta vittima inconsapevole di capacità di convincimento o abilità diplomatiche di gran lunga superiori alle sue. Partiremo da lontano, dall’origine stessa della partecipazione al conflitto, per arrivare al precipitoso abbandono di Parigi subito dopo la firma del trattato con la Germania. Starà al lettore giudicare il rilievo che le decisioni e gli interventi di Woodrow Wilson ebbero sul complessivo insuccesso della Conferenza di pace.

Fra le leggerezze attribuite al presidente spiccano importanti decisioni organizzative. Senza una precisa conoscenza di ciò che era avvenuto in Europa negli oltre quattro anni di guerra e di quanto gravi fossero state le perdite sopportate dalla Francia per conseguire la vittoria, accettò senza discutere che la Conferenza di pace si svolgesse a Parigi. In alternativa erano state proposte altre sedi, fra cui la neutrale Ginevra, ma il primo ministro francese Clemenceau insisté con successo perché venisse scelta la capitale del paese che governava, ben consapevole della pressione psicologica che in questo modo sarebbe stato possibile esercitare sui partecipanti ai colloqui. Parleremo di questo più approfonditamente in seguito.

Accettare Parigi come sede della Conferenza non fu che uno, anche se forse il più grave, degli errori commessi prima ancora che i negoziati avessero inizio. Ignorante dei meccanismi e delle astuzie della trattativa diplomatica come delle tradizioni culturali europee, il presidente decise di assumere personalmente il compito di plenipotenziario statunitense alla Conferenza di pace. In molti lo avevano sconsigliato di farlo, primo fra tutti l’amico Edward Mandell House, soprannominato «Colonnello», secondo un uso texano, anche se non aveva mai fatto il soldato. Fin dall’inizio dell’intervento statunitense nella guerra aveva rappresentato il proprio paese nei rapporti con gli alleati, trasferendosi in Europa e facendo di continuo la spola tra Londra e Parigi. Conosceva bene gli interlocutori che si sarebbero seduti al tavolo delle trattative e almeno alcuni dei problemi che sarebbero stati affrontati: era opinione diffusa che sarebbe stato lui a rappresentare gli Stati Uniti alla Conferenza di pace. Pretendendo di indossare le vesti del plenipotenziario, Woodrow Wilson si espose senza schermi allo svolgersi delle trattative e porta quindi le maggiori responsabilità per gli esiti che esse ebbero.

Tale scelta fece sì che alla delegazione americana venisse a mancare un livello decisionale che avrebbe fornito in diverse occasioni la possibilità del ripensamento, del rinvio tattico, dell’attribuzione ad altri di scelte impopolari, della facile sconfessione di una tesi sostenuta in precedenza, addossando all’inferiore la responsabilità di non aver compreso, o di aver mal riferito, il parere del superiore.

Anche sulla cattiva organizzazione dei lavori della Conferenza di pace pesano responsabilità non indifferenti di Woodrow Wilson. La durezza estrema delle condizioni imposte alla Germania fu il risultato di due meccanismi che scattarono in modo parallelo e automatico, senza che nessuno ne avesse programmato né il funzionamento, né le conseguenze. Quando iniziarono i lavori della Conferenza non ne vennero stabiliti né il calendario né le modalità di svolgimento. I quattro grandi cominciarono i loro incontri nella convinzione di preparare una piattaforma che in seguito sarebbe stata approfondita e discussa in sessioni allargate in fasi successive a tutti i partecipanti a titolo di vincitori e di sconfitti. Solo con il procedere dei lavori, e con lo scorrere del tempo, ci si rese conto che gli accordi faticosamente raggiunti avrebbero assunto di necessità un carattere definitivo e tassativo: quando il trattato venne sottoposto alla delegazione della Germania, prima nazione sconfitta con la quale venne stipulata la pace, a essa non fu concesso alcuno spazio di discussione riguardo alle condizioni contenute nel documento. La partecipazione dei rappresentanti tedeschi alla Conferenza si limitò alla consegna di un memorandum nel quale venivano richieste modifiche, tutte rifiutate, alla bozza di trattato che era stata loro sottoposta e quindi nell’apposizione della firma a un documento predisposto in ogni dettaglio.

Le procedure che portarono alla formazione del trattato, anch’esse affidate più al corso tumultuoso degli eventi che a una scelta meditata, si rivelarono gravemente penalizzanti per gli sconfitti. Le commissioni tecniche, organizzate per collaborare al lavoro dei plenipotenziari, vennero costituite sulla base delle richieste avanzate dai paesi confinanti con la giovanissima Repubblica tedesca, alcuni dei quali sorti dal disastro della guerra. Si trattava di Stati governati da elementi nazionalisti giunti al potere con il sostegno delle forze militari che erano riuscite a riorganizzarsi al termine della guerra, solitamente sulla base dei resti dell’esercito austro-ungarico, e a collegarsi con quelle alleate.

Polonia, Danimarca, Belgio e Cecoslovacchia, per non dire della Francia, avevano pretese su territori appartenuti al Secondo Reich nei quali vivevano mescolati abitanti di lingua ed etnia diverse. Le discussioni e le mediazioni proseguirono separatamente per ciascuna delle questioni prese in esame, senza nessun coordinamento dei lavori delle varie commissioni. Né tecnico, né politico. Solo all’ultimo momento proposte avanzate e decisioni suggerite disorganicamente da parte di gruppi di lavoro che avevano agito l’uno all’insaputa dell’altro furono ricomposte in un trattato che toglieva alla Germania 65.000 chilometri quadrati di territorio e sette milioni di abitanti, in maggioranza di lingua e cultura tedesca, per un complessivo 13 per cento del territorio e 10 per cento della popolazione.

Austria e Ungheria sarebbero state penalizzate alla stessa maniera, se non addirittura più duramente, con l’aggiunta per la prima della proibizione a unirsi politicamente con la Germania, questo in evidente violazione del principio di autodeterminazione dei popoli, almeno in teoria avanzato e sostenuto da Woodrow Wilson – si trattò del suo unico indiscutibile contributo positivo alla Conferenza – ma da lui difeso in maniera intermittente, inseguendo di volta in volta opportunità e convenienze diverse, riconoscendo l’esistenza ora di confini naturali, ora di linee di comunicazione che non potevano essere interrotte per motivi economici. L’unico elemento ricorrente nelle decisioni prese fu la tendenza al riconoscimento delle ragioni dei vincitori e il rifiuto di accettare quelle degli sconfitti. Il presidente non ebbe difficoltà a concedere all’Italia Bolzano e Merano, con l’intero Sud Tirolo di cultura tedesca, mentre si impuntò testardamente sul rifiutarle l’annessione di Fiume, fino a rischiare la rottura delle trattative parigine, nonostante la città, se non il suo circondario, fosse di lingua e tradizioni italiane. Furono i colloqui diretti italo-iugoslavi sfociati nel trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 a risolvere la questione dei confini fra i due paesi, creando in quel contesto le premesse per l’assegnazione di Fiume stessa all’Italia.

Quanto alle condizioni imposte alla Germania, quando il progetto di pace fu ricomposto ci si avvide dell’ingiustizia che si andava compiendo ai danni di un paese che nel disastro della sconfitta si era trasformato da regime autoritario dominato dalla Prussia in una repubblica democratica che avrebbe avuto bisogno del sostegno internazionale per consolidarsi. Alcuni politici più ragionevoli, se non illuminati, segnatamente il primo ministro britannico Lloyd George, si attivarono per una riconsiderazione del quadro finale che si era venuto a creare, riconoscendone la scarsa corrispondenza con qualsiasi progetto mirante alla costruzione di un’Europa pacifica.

Woodrow Wilson si rivelò irremovibile e rifiutò di prendere in esame una revisione del documento. Il suo obbiettivo principale, dal quale era convinto sarebbe derivata una trasformazione radicale nei rapporti fra gli Stati, era la firma del Covenant, come veniva detto l’accordo istitutivo della Società delle Nazioni. Il presidente aveva preteso il suo inserimento nel trattato di pace con la Germania. Non volendo rivedere decisioni prese in precedenza o anche semplicemente ritardare il ritorno in patria, Woodrow Wilson rifiutò di riconoscere che la forma assunta dal trattato stesso era quella di una «tregua ventennale», come subito lo definì il maresciallo Ferdinand Foch, comandante in capo delle truppe alleate al termine del conflitto, e non la creazione di un assetto europeo il cui pacifico equilibrio si potesse mantenere nel tempo.

La fase conclusiva della stesura del documento fu frenetica e confusa. Nel diario che tenne in quei giorni, il generale britannico Sir Henry Hughes Wilson ricorda che il testo venne consegnato ai tedeschi senza neppure essere stato letto da nessuno dei vincitori nella sua interezza, ma solo per frammenti.

Se ci fosse stato bisogno di un definitivo chiarimento relativo a cosa si pensava in Germania di Woodrow Wilson e dell’atteggiamento da lui tenuto durante la Conferenza di pace di Parigi esso giunse il giorno della sua morte, il 3 febbraio 1924: in quell’occasione l’ambasciata tedesca a Washington, contro ogni precedente nei rapporti internazionali, si rifiutò di esporre la bandiera listata a lutto.

Le insufficienze e le manchevolezze dell’attività svolta dal presidente prima e durante la Conferenza di pace di Parigi non si limitarono alla superficialità, alla presunzione e alla faciloneria, pure colpevoli quando sono in gioco gli interessi vitali di milioni di persone. Egli commise veri e propri errori dovuti sia al carattere che alla cultura dalla quale proveniva, molto sicura di sé e inconsapevole dei problemi e dei travagli esistenti in Europa.