II

LA GRANDE GUERRA FU DAVVERO GRANDE

Quella che comunemente definiamo Prima guerra mondiale, la Grande guerra europea, fu un evento complesso e articolato. Individuarne un inizio e una fine significa già impostarne un’interpretazione. Per noi italiani è la Guerra del ’15-18, anche se sappiamo bene che al momento del nostro intervento, il 24 maggio 1915 celebrato dalla canzone La leggenda del Piave, essa era iniziata da quasi un anno. Minore consapevolezza abbiamo del fatto che si continuò a combattere ben oltre il 4 novembre 1918. Quella fu solo la data stabilita per la cessazione delle ostilità sul fronte italo-austriaco dall’armistizio firmato il giorno precedente a Villa Giusti e che per noi indica la festa della Vittoria. Tale accordo armistiziale riguardava peraltro esclusivamente i rapporti tra l’Italia e la componente austriaca dell’impero asburgico. Da esso si erano già distaccate la Cecoslovacchia, il 28 ottobre 1918, e tre giorni dopo, il 31 ottobre, l’Ungheria. Essa avrebbe firmato il 13 novembre a Belgrado un armistizio separato con il generale francese Louis Franchet d’Espèrey, comandante delle truppe alleate nei Balcani. Ancora prima, il 29 ottobre, croati, serbi e sloveni avevano proclamato a Zagabria l’indipendenza dall’Austria-Ungheria della sua componente slava. Il 1o dicembre il principe Alessandro avrebbe dato vita al regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, destinato a divenire nel 1929 il Regno di Iugoslavia, che riuniva al proprio interno le popolazioni della Serbia e delle province asburgiche dei Balcani.

Stabilire le date di inizio e di cessazione della guerra che venne definita «Grande» per antonomasia significa esplicitare i termini nei quali la si comprende, la si interpreta e la si vuole raccontare. Se l’orizzonte è quello della fine dell’egemonia planetaria europea, il confronto fra il vecchio continente e il resto del mondo, l’inizio va posto prima del 1914. Attorno al volgere del secolo due guerre videro contrapposti Stati giovani, almeno nella loro forma recente, affacciatisi da pochi decenni sulle rive lontane degli oceani, a potenze che partecipavano da secoli alle lotte per il controllo e lo sfruttamento di terre e mari in ogni angolo del mondo. Entrambi i conflitti ebbero come posta in gioco la supremazia nell’emisfero del Pacifico, la cui importanza andava crescendo nel sistema geopolitico mondiale.

Nel 1898 Stati Uniti e Spagna si confrontarono in quella che i primi definirono la splendid little war, la meravigliosa piccola guerra. La sua dichiarazione fu consegnata al governo di Madrid il 23 aprile e già il 12 agosto fu firmato un armistizio, seguito il 10 dicembre dal trattato di pace di Parigi che attribuiva agli americani il controllo di Cuba e delle Filippine oltre all’occupazione diretta di Portorico e Guam.

Molto più lungo e sanguinoso fu il conflitto russo-giapponese del 1904-05. Scoppiato per una contesa relativa all’influenza sulla regione cinese della Manciuria, esso si concluse dopo oltre un anno e mezzo di feroci e sanguinosissimi combattimenti terrestri e navali con la piena affermazione nipponica ai danni di un impero zarista, già scosso da fermenti rivoluzionari, che non seppe riconoscere la gravità dell’insuccesso né ricostruire una coerente collocazione internazionale. Sconfitto in Oriente, il governo di San Pietroburgo cercò una rivincita in Occidente. Fu la pressione russa sui Balcani, in direzione del Mediterraneo, a innescare fra il 1912 e il 1913 le due guerre balcaniche, dalle quali discese in modo diretto la rottura di equilibri che, quando si verificò l’attentato di Sarajevo, portò allo scatenarsi della Prima guerra mondiale.

Anche l’Italia aveva dato il suo contributo ad agitare le già torbide acque della conflittualità internazionale di inizio Novecento. L’invasione della Libia del 1912 e la guerra con l’impero ottomano che ne conseguì rappresentarono il primo confronto fra potenze europee – tale era considerato a pieno titolo il governo della Sublime Porta dal 1878, in quanto firmatario del trattato di Berlino – a verificarsi dopo il conflitto franco-prussiano del 1870 che aveva portato alla rinascita dell’impero tedesco, il cosiddetto Secondo Reich, e la guerra russo-turca del 1877-78. Quando essa ebbe termine, l’intervento diplomatico orchestrato da Bismarck, il «cancelliere di ferro» artefice dell’affermazione prussiana sul Centro Europa, ottenne il congelamento, e la pacificazione, della situazione europea. A seguito della vittoria sulla Francia nel 1870 Bismarck stesso aveva preteso l’incorporazione nel Secondo Reich di Alsazia e Lorena, francesi fin dai tempi della pace di Vestfalia, creando una prima solida premessa per il futuro conflitto.

Porre l’inizio della Grande guerra nell’estate del 1914, i celebri «cannoni d’agosto», significa sottolineare la dimensione franco-tedesca, renana, del confronto, ridimensionarne fortemente le componenti balcanica, russa, mediorientale, oceanica e persino cinese, pure decisive nello scatenarsi del conflitto e meno riconoscibili in una sua chiara conclusione. L’armistizio di Compiègne o di Rethondes, secondo la denominazione francese, sottoscritto l’11 novembre 1918, fece cessare i combattimenti sul fronte occidentale, ma ebbe conseguenze molto meno risolutive riguardo a quanto accadeva a oriente, dove le realtà statuali preesistenti al conflitto si andavano dissolvendo. A cominciare dai tre grandi imperi: zarista, asburgico e ottomano.

Le componenti di stampo nazionalista che si liberavano cercavano di affermarsi e raggiungere i loro obbiettivi politici con l’unico strumento che si dimostrava efficace: la forza delle armi. Resti di eserciti sconfitti e non ancora smobilitati, reduci e sbandati, e una disponibilità di armi sterminata fornivano la materia prima per nuove formazioni militari che si combattevano nell’Est europeo e nel Medio Oriente, senza che i vincitori disponessero degli strumenti necessari per imporre la propria volontà. Al più riuscivano ad appoggiare le pretese di quanti ritenevano essere amici, senza dimostrarsi capaci di modificare i rapporti di forza esistenti sul terreno. La rivoluzione sovietica in Russia aggiungeva confusione e timori, sollecitando speranze insurrezionali dal Baltico alla Baviera, dall’Ungheria a Berlino stessa.

In Russia, in Ungheria, in Polonia, in Anatolia, in Cina la guerra era destinata a durare ancora a lungo. Nelle regioni renane le occupazioni militari si sarebbero protratte fino agli anni Trenta. Persino sul confine italiano l’ultimo intervento militare si realizzò a Fiume il giorno di Natale del 1920, il cosiddetto «Natale di sangue», dopo sedici mesi di occupazione della città da parte dei legionari comandati da Gabriele d’Annunzio. Il 25 agosto 1919 la città dalmata era stata evacuata dalle truppe italiane che la occupavano, insieme a reparti francesi, fin dalla fine della guerra. C’erano stati scontri fra soldati delle due nazionalità e il governo parigino aveva preteso il ritiro degli italiani, accusati, a ragione, di svolgere propaganda annessionista.

Il 18 settembre successivo formazioni provenienti dai reparti appena allontanati tornarono in città nelle vesti di ammutinati dell’esercito italiano agli ordini di d’Annunzio, che prima dichiarò l’annessione di Fiume all’Italia, che non la accettò, e dopo un anno di trattative senza esiti proclamò la nascita della Reggenza italiana del Carnaro, Stato indipendente. La vicenda ebbe termine solo nel 1924, con l’annessione della città al Regno d’Italia, dopo che il trattato italo-iugoslavo di Rapallo firmato il 12 novembre 1920, di cui abbiamo detto, aveva creato lo Stato libero di Fiume, in deroga agli accordi di Parigi, dalla vita stentata e segnata da continui colpi di mano della minoranza filoitaliana.

La vicenda fiumana rimase circoscritta e non oltrepassò le dimensioni di una piccola crisi locale, risolta con limitati aggiustamenti territoriali. Qualcosa di simile capitò al termine della Seconda guerra mondiale con il Territorio libero di Trieste, istituito con il trattato di pace e subito suddiviso in zona A, italiana, e zona B, iugoslava.

Maggiormente significativi furono gli avvenimenti occorsi a est, anche volendo tener fuori le vicende spartachiste tedesche, considerandole come tensioni interne postbelliche – si trattò comunque di eventi violenti e sanguinosi – e la nascita della Repubblica sovietica di Baviera, proclamata il 6 aprile 1919 e scomparsa ai primi di maggio dello stesso anno. Una lunga e sanguinosa guerra civile fu combattuta in Russia fra armate rosse e bianche a seguito della Rivoluzione d’Ottobre, scoppiata nel novembre 1917 secondo il nostro calendario ma denominata sulla base di quello giuliano in uso nei paesi ortodossi. Il conflitto che ne seguì vide consistenti, anche se non efficaci, interventi internazionali. Corpi di spedizione di quattordici Stati stranieri furono operativi in territorio russo dalla fine del 1918 a buona parte del 1920.

Reparti inglesi sbarcarono ad Arcangelo, insieme a contingenti statunitensi, a sostegno della legione cecoslovacca, che aveva combattuto assieme agli alleati nella guerra contro gli imperi centrali e adesso si era schierata a fianco delle Armate Bianche. Per ottenere un aiuto al tavolo delle trattative parigine, persino la Grecia associò due divisioni a una spedizione militare francese di cooperazione con le Armate Bianche operanti nel Sud della Russia, che si risolse in un grave rovescio. Sul fronte siberiano del Pacifico ci furono interventi statunitensi, giapponesi e anche italiani, in parte effettuati attraverso la riorganizzazione di contingenti di prigionieri di guerra provenienti da territori italofoni dell’impero asburgico e liberati al momento del collasso del sistema zarista.

Appena divenuta indipendente da Vienna, l’Ungheria rimase coinvolta in una guerra sia con la Cecoslovacchia che con la Romania, che si protrasse dal novembre 1918 all’agosto 1919, per la determinazione dei futuri confini, e per l’assegnazione della Transilvania, ungherese, e del Banato, fino ad allora austriaco. Il 21 marzo 1919 Béla Kun, segretario del Partito comunista ungherese, riuscì a conquistare il potere nello Stato appena costituito e proclamò la nascita della Repubblica sovietica d’Ungheria, che ebbe vita appena per centotrentatré giorni. Durante questi pochi mesi Kun riuscì a penetrare per un breve periodo con le proprie truppe in Cecoslovacchia, dove istituì una Repubblica sovietica slovacca di esistenza effimera. Sconfitto militarmente, Kun abbandonò il paese il 2 agosto e si rifugiò a Mosca; il giorno successivo la capitale ungherese, Budapest, fu occupata dai rumeni, che la evacuarono solo l’anno successivo, nel marzo 1920.

La sistemazione dei confini fra Romania e Ungheria, e anche di quelli orientali cecoslovacchi, fu decisa più dalle armi che dalla diplomazia impegnata nella Conferenza di pace di Parigi, anche se, come sempre accade per quanto riguarda le potenze minori, l’attività delle ambasciate e degli addetti militari fu utile nel consentire mano libera a una delle parti in lotta e nel condizionare i movimenti delle truppe presenti sul campo di battaglia. Nella circostanza le fonti tendono a sottolineare il ruolo significativo giocato dal colonnello francese Fernand Vyx, che emanò a nome delle potenze alleate ordini e interdizioni a sostegno delle pretese della Romania, tradizionale alleato di Parigi nella regione, e in danno di quelle ungheresi.

Ancora più violento fu il conflitto che oppose il Regno di Grecia, svogliato alleato dell’Intesa nel corso della guerra, alla nascente Repubblica di Turchia guidata da Mustafa Kemal poi divenuto Atatürk, «Padre dei Turchi», generale dell’esercito sultaniale che aveva combattuto con valore nella guerra, distinguendosi nella battaglia di Gallipoli, dove aveva colto una limpida vittoria ai danni del contingente franco-britannico sbarcato su suggerimento di Churchill nei pressi degli Stretti. La partecipazione alla spartizione dei territori del decadente impero ottomano era stata promessa con grande generosità dalla diplomazia anglo-francese come compenso per i paesi disponibili a intervenire nel conflitto a fianco dell’Intesa. E non solo per quanto riguardava le regioni abitate in prevalenza da popolazioni di nazionalità diverse da quella turca.

Oltre alla prevista cessione di Costantinopoli alla Russia zarista, assicurazioni erano state date agli indipendentisti arabi e ai sionisti, in vista della creazione di uno Stato ebraico; veri e propri trattati di spartizione dell’Anatolia erano stati firmati con l’Italia; grandi promesse erano state fatte alla Grecia. La parte del leone, come stabilivano gli accordi segreti Sykes-Picot, stretti dalla diplomazia di Londra con quella di Parigi, sarebbe spettata a Francia e Gran Bretagna, come puntualmente avvenne, ma quanto rimaneva era a disposizione di chi fosse riuscito a conquistarlo. La dissoluzione dell’impero russo aveva liberato i vincitori dall’obbligo di rispettare le promesse fatte al governo dello zar, che arrivavano a riconoscergli l’agognatissimo possesso di Costantinopoli e lo sbocco al Mediterraneo, oltre al controllo degli Stretti. Gli altri impegni attendevano di essere onorati.

Come vedremo in seguito nel dettaglio, tra le briciole dell’impero giudicate disponibili per il soddisfacimento delle pretese delle potenze minori rimase compresa la parte più difficile da strappare agli sconfitti, rappresentata dai territori dell’Anatolia. Lì si andava costituendo uno Stato nazionale turco, sull’esempio di quelli sorti in Europa nel corso dei decenni precedenti e di quelli che in quegli anni nascevano dalla dissoluzione dell’impero asburgico, in opposizione agli sforzi di unificazione di carattere imperiale e multiculturale che si erano succeduti nei secoli a opera di sovrani di origine e cultura diversa: da Carlo Magno a Napoleone, passando per Carlo V. A ottenere acquisizioni territoriali in Anatolia era particolarmente interessata la Grecia, data la presenza nella regione di comunità elleniche, minoritarie ma numerose, le cui origini risalivano indietro nel tempo per millenni.

A seguito della firma dell’armistizio di Mudros, stipulato il 30 ottobre 1918, che pose fine alle ostilità tra l’impero ottomano e gli alleati, furono effettuati numerosi sbarchi di truppe da parte dei paesi vincitori – Regno Unito, Francia, Italia e Grecia – in territori facenti parte dell’impero stesso, sempre con l’intento di precostituire situazioni favorevoli a una successiva legittimazione formale della presa di possesso. Il 9 marzo 1919 reparti italiani sbarcarono ad Adalia, oggi ridente località turistica sulla costa sud della Turchia, per far valere i diritti vantati dal Regno su una parte della penisola anatolica in base agli accordi stipulati a Londra il 26 aprile 1915. Il patto stretto in quell’occasione fissava in modo minuzioso il prezzo che al momento della vittoria l’Intesa avrebbe pagato all’Italia per la sua partecipazione alla guerra. Esso comprendeva, oltre alla conferma del possesso del Dodecaneso già in mano italiana dal 1911, l’attribuzione di una equa parte nella regione mediterranea vicina alla provincia di Adalia.

L’affermarsi dello Stato turco e le sue vittorie militari indussero il governo italiano a ritirare le proprie truppe nell’autunno del 1922, in parallelo a quelle francesi che abbandonavano la contigua regione di Adana. Per tutta la durata della Conferenza di Parigi rimase in essere un contenzioso italo-greco dovuto alla presenza di reparti dei due paesi in aree confinanti dell’Anatolia, rivendicate da entrambi i governi, e per l’assegnazione della grande città portuale di Smirne, della cui vicenda tratteremo diffusamente in seguito.

La validità da attribuire agli accordi di Londra con l’Italia era incerta. I governi di Francia e Regno Unito, che li avevano sottoscritti, non potevano che riconoscerla, al contrario Woodrow Wilson la negava sulla base della formulazione dei «Quattordici Punti» e delle dichiarazioni successive, di cui daremo conto per esteso in seguito, che esigevano una politica internazionale in regime di assoluta pubblicità e l’autodeterminazione dei popoli come criterio cui riferirsi per la riorganizzazione territoriale degli Stati al termine del conflitto.

La questione della cogenza per gli alleati delle dichiarazioni, unilaterali e non concordate, fatte in successive occasioni da Woodrow Wilson in relazione agli obbiettivi da raggiungere attraverso il conflitto si era posta fin dal momento della stipula dell’armistizio con la Germania. Il governo tedesco ne aveva fatto richiesta al presidente USA con esplicito riferimento ai «Quattordici Punti», nei cui confronti gli alleati europei non avevano mai espresso un assenso formale. Al contrario, dati i vincoli che il loro rispetto avrebbe potuto porre alle condizioni di pace, nell’occasione della richiesta di armistizio tedesca essi avanzarono numerose perplessità. Furono accantonate grazie all’intervento del «colonnello» House, lo stretto collaboratore di Woodrow Wilson che nel corso del conflitto curò i rapporti con la diplomazia europea di cui abbiamo detto in precedenza. Al consiglio supremo di guerra tenuto a Versailles il 1o novembre 1918 per decidere a quali condizioni accettare la richiesta tedesca, per convincerli ad accoglierla egli fornì a Lloyd George, Clemenceau e Orlando un’interpretazione molto riduttiva, e in sostanza falsa, dell’importanza attribuita dal presidente ai «Quattordici Punti» e alle dichiarazioni collegate, rappresentati nella circostanza come riferimenti ideali non vincolanti.

Il ruolo militare giocato dalle potenze maggiori nella penisola anatolica fu marginale: l’evento bellico che dominò la regione nei primi anni Venti fu il conflitto greco-turco. Esso si protrasse per tre anni e mezzo, dal maggio 1919 al settembre 1922, considerando la conquista greca di Smirne e la riconquista da parte turca come i momenti iniziale e terminale del confronto. L’armistizio di Mudanya, con il quale cessarono i combattimenti, venne firmato l’11 ottobre 1922. Anche se con lunghe pause fra una fase e l’altra di piena attività bellica, si trattò di una guerra vera e propria, combattuta da eserciti regolari forti di decine di migliaia di uomini ed equipaggiati con armi moderne, al termine della quale si contarono circa 45.000 morti fra i soli combattenti.

Tratteremo più diffusamente l’argomento. Per adesso basti dire che a scatenare le ostilità fra il Regno di Grecia e la non ancora proclamata Repubblica di Turchia furono motivazioni esistenti nella costa occidentale dell’Anatolia da duemilacinquecento anni, fin dall’epoca delle guerre persiane narrate da Erodoto. Sotto la spinta di molteplici ondate migratorie, a partire dall’VIII secolo a.C., sulle isole prossime al continente asiatico e lungo la fascia costiera, si erano installate numerose e fiorenti comunità greche, insediate del resto in tutta l’area del Mediterraneo. Anche Siracusa, Taranto, Napoli e Marsiglia nacquero allora come colonie greche. Nel periodo ottomano, durato mezzo millennio, la costa anatolica era rimasta caratterizzata dalla presenza di nuclei urbani a larga maggioranza greca, circondati da campagne popolate quasi esclusivamente da turchi. I due gruppi etnici dimostravano un atteggiamento conflittuale, ma sempre tenuto a freno dalla comune partecipazione alla compagine imperiale.

A seguito della invasione ottomana dell’impero bizantino, nel corso dei secoli era avvenuta la cosiddetta diaspora greca, la distribuzione di consistenti nuclei ellenici nelle maggiori città costiere del Mediterraneo. Si era trattato comunque di una vicenda complessa che in quell’occasione aveva visto una ulteriore spinta alla dispersione di un’etnia connotata da una forte vocazione mercantile e nautica. Questo induceva alla creazione di basi commerciali in molti porti, in ciascuno dei quali la comunità si organizzò in un proprio quartiere. Fu l’esperienza vissuta nel Medioevo anche da fiorentini, pisani, veneziani e genovesi. Il multiculturalismo e la compresenza di svariate comunità di origini nazionali e linguistiche diverse costituì un tratto caratteristico delle città commerciali del Mediterraneo, non solo orientale, fino a tutto l’Ottocento. Erano così strutturate Alessandria e Salonicco, Costantinopoli e Smirne, Genova e Napoli, Barcellona, Beirut e Trieste.

La spinta nazionalista aveva portato il piccolo Regno di Grecia – nato attorno ad Atene nel 1830 sulla base del Protocollo di Londra con il quale si concludeva la lunga guerra di indipendenza combattuta contro le truppe sultaniali – a estendere i confini e accrescere la popolazione ai danni dell’impero ottomano fino ad ambire, nel programma proposto a inizio Novecento dal primo ministro Eleutherios Venizelos, a creare uno Stato esteso su cinque mari e due continenti, all’interno dei cui confini avrebbero dovuto riunirsi i greci d’Europa e d’Asia. Nel caos conseguente alla conclusione della Grande guerra, Venizelos, pittoresca figura dalla grande capacità di fascinazione, riuscì a ottenere il sostegno britannico allo sbarco di truppe greche in Anatolia per garantire la protezione della minoranza di connazionali residenti lungo la costa e, in prospettiva, il rispetto dei confusi patti stipulati in precedenza, che assicuravano alla Grecia un’espansione territoriale in cambio della partecipazione al conflitto a fianco degli alleati.

Il 15 maggio 1919 reparti greci sbarcarono a Smirne, sotto la protezione di una squadra navale composta da unità inglesi e francesi, e la occuparono. Da lì le truppe avanzarono, impadronendosi dell’intera regione costiera e spingendosi nell’entroterra, dove incontrarono una resistenza sempre più decisa da parte di irregolari e di reparti dell’esercito ottomano che stava trasformandosi in turco. Nel corso dell’estate successiva i greci ripresero l’offensiva, allargando l’area controllata.

A questo punto la vicenda della guerra in corso in Anatolia entra in contatto con quanto avveniva a Parigi, dove il 10 agosto 1920 i rappresentanti delle potenze vincitrici firmarono con quelli del sultano ottomano Mehmet VI, centesimo califfo dell’Islam, il trattato di Sèvres. Esso prevedeva per il vilayet, ossia la provincia, di Smirne uno statuto autonomo associato a un meccanismo di verifica che dopo cinque anni doveva portare a un referendum tra la popolazione per stabilire l’appartenenza della città alla Grecia o all’impero che intanto si stava sfaldando e veniva sostituito dal nuovo Stato in via di formazione in Turchia e non rappresentato a Parigi.

Desiderosi di vedere riconosciuto dal governo che si era insediato ad Ankara quanto ottenuto con il trattato di Sèvres, i greci svilupparono nel corso del 1921 una nuova grande offensiva. Essa consentì loro di giungere a poche decine di chilometri dalla capitale turca, che non riuscirono a conquistare a causa della difesa nemica, sempre più determinata.

Mentre si combatteva, dato che l’assemblea parigina era ormai chiusa da oltre un anno, nel tentativo di trovare un accordo di pace per la regione contesa venne indetta a Londra una conferenza internazionale. A essa partecipavano i paesi i cui eserciti erano presenti in Anatolia. Inglesi, italiani, francesi e greci si confrontarono con i rappresentanti sia del sultano che del movimento kemalista. Tranne i greci, i delegati delle potenze presenti al tavolo delle trattative concordarono una generale cessazione delle ostilità e il ritiro simultaneo delle truppe straniere presenti in Anatolia: per i kemalisti si aprì la prospettiva di indirizzare tutte le risorse militari di cui disponevano contro le forze d’occupazione elleniche.

Il 26 agosto 1922 l’esercito turco fu in grado di lanciare la Büyük Taaruz, la grande offensiva, che in due settimane gli consentì di riconquistare Smirne, dove i primi reparti entrarono il 9 settembre. I kemalisti dilagarono poi lungo la costa e raggiunsero gli Stretti, prontamente evacuati da francesi e italiani. Rimasero di presidio solo contingenti britannici, che riuscirono a impedire alle truppe turche di entrare a Costantinopoli, evitando il rischio che esse si rivalessero in modo violento sulla popolazione greca, allora molto numerosa in città. All’armistizio di Mudanya dell’11 ottobre 1922, di cui abbiamo detto, fece seguito il 24 luglio 1923 la pace di Losanna, sottoscritta dal governo della Repubblica di Turchia, che di fatto sostituiva il mai applicato trattato di Sèvres firmato da Mehmet VI. Oltre a definire i confini dell’appena riconosciuto Stato turco, i nuovi accordi stabilivano uno scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia sulla base della etnia di appartenenza. Esso comportò l’esodo di quasi due milioni di persone, in larghissima maggioranza greci, che si riversarono in buona parte su Atene. Fu allora che la città raggiunse le grandi dimensioni e l’aspetto dimesso che ancora presenta.

Quelli qui accennati sono solo una parte degli accadimenti bellici successivi al novembre 1918. Da essi non si può escludere la guerra civile russa, innescata dalla sconfitta degli eserciti zaristi nella Grande guerra e conclusasi ufficialmente il 30 dicembre 1922, con la proclamazione della nascita dell’Unione Sovietica, anche se in alcune zone del paese i combattimenti non erano ancora cessati. Negli anni immediatamente precedenti, guerre cruente erano state combattute dalle armate rivoluzionarie contro la Polonia e gli Stati baltici, che alla caduta dell’impero zarista avevano riguadagnato la loro indipendenza da Pietrogrado – nome assunto da San Pietroburgo durante la Grande guerra per liberarsi dal sentore tedesco che esso aveva – come sarebbe accaduto di nuovo all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso con il collasso dell’Unione Sovietica.

A ben guardare neppure il fronte occidentale franco-tedesco né quello del Mare del Nord rimasero in pace dopo l’armistizio dell’11 novembre 1918. Non si trattò di guerra in senso formale, di confronto fra Stati contemporanei che dopo una dichiarazione esplicita impegnano ogni risorsa in un conflitto armato, ma certo non fu una convivenza pacifica. Citeremo solo gli episodi maggiori.

Per primo si verificò l’autoaffondamento della Hochseeflotte, la flotta d’alto mare tedesca, internata nella rada britannica di Scapa Flow. Il 21 giugno 1919 gli equipaggi delle navi da guerra tedesche che erano state poste sotto il controllo degli alleati, sulla base degli accordi armistiziali, temendo una ripresa delle ostilità, aprirono contemporaneamente le valvole di allagamento di tutte le unità per affondarle. I marinai inglesi di sorveglianza spararono loro addosso: si contarono nove morti e una ventina di feriti; delle settantadue navi tedesche presenti a Scapa Flow ne andarono perdute cinquantadue. La campagna per il recupero dei relitti costituì una grande pagina dell’ingegneria subacquea degli anni Trenta.

Il 16 gennaio 1920 fu richiesta al governo olandese l’estradizione di Guglielmo II, Kaiser dell’impero tedesco durante la guerra, allo scopo di processarlo e, come veniva richiesto da più parti, impiccarlo attribuendogli la responsabilità principale dell’intero conflitto. L’Olanda rifiutò di consegnare l’ospite, ma un commando composto da ufficiali statunitensi proveniente da Parigi ne tentò la cattura, che fu sventata dal pronto intervento della polizia locale. Non è stato mai chiarito se i militari americani agissero autonomamente o su indicazioni dei superiori. Con certezza non vennero puniti per l’intervento armato effettuato in un territorio appartenente a un regno indipendente e amico.

Di grande rilievo fu la stagione delle occupazioni di territori renani, facenti parte del nuovo Stato tedesco, o in attesa di referendum, e confinanti con la Francia e il Belgio: essa si protrasse oltre quanto si tenda a ricordare. Inglesi e francesi occuparono la Saar dal 1920 al 1934. La regione, con un territorio di 2500 chilometri quadrati e ottocentomila abitanti, tornò alla Germania solo a seguito di un referendum che si svolse il 31 gennaio 1935: Hitler era ormai al potere, anche grazie alla frustrazione e al senso di ribellione che tale occupazione provocava fra i tedeschi. I votanti furono il 98 per cento degli aventi diritto e di essi il 90 per cento si dichiarò favorevole alla riunificazione. Più violento ancora fu l’episodio relativo alla Ruhr. A causa di ritardi nei pagamenti imposti alla Germania a titolo di danni di guerra, l’11 gennaio 1923 truppe franco-belghe invasero questa regione, grande più del Molise, e ne mantennero l’occupazione, priva di ogni giustificazione a livello di diritto internazionale, fino al 1925. Alcuni economisti sostengono che fu proprio il sostegno offerto dal governo di Berlino alla resistenza antifrancese nella Ruhr a scatenare l’iperinflazione che si verificò in Germania negli anni Venti e che fu una delle cause della debolezza politica della Repubblica di Weimar. Questa occupazione costituì un’operazione militare in piena regola, comportò azioni di resistenza più o meno violenta e di repressione della resistenza, con il tragico corollario di morti e feriti.

Dunque nessuna guerra dichiarata lungo il confine tedesco occidentale, ma una tensione e una conflittualità sempre presenti che rendono difficile considerare del tutto pacifico, in relazione alla regione renana intesa in senso ampio, il ventennio che trascorse fra le due guerre mondiali, o anche solo accettato e condiviso il trattato firmato a Versailles tra Germania e potenze vincitrici.

La Conferenza di pace di Parigi propriamente detta, il cui svolgimento va considerato compreso tra l’inaugurazione e la chiusura formale dei lavori, ebbe luogo dal 18 gennaio 1919 al 21 gennaio 1920. Si trattò di una delle numerose occasioni, create dopo gli sconvolgimenti causati dalla Grande guerra, nelle quali la diplomazia internazionale si adoperò per la riorganizzazione dell’assetto politico mondiale e la creazione di un contesto condiviso. Fu senza dubbio fra le più importanti, seppure fra quelle di minore successo. Molti di questi incontri furono bilaterali, ma non mancarono occasioni che coinvolsero una pluralità di soggetti, come il Convegno di Sanremo dell’aprile 1920 o la Conferenza di Londra dei primi mesi del 1921. Di essi tratteremo in seguito.

È opportuno ricordare che, a neppure due anni dalla chiusura della Conferenza di Parigi, si svolse a Washington tra il 12 novembre 1921 e il 6 febbraio 1922 una nuova Conferenza internazionale convocata dal successore di Woodrow Wilson, il repubblicano Warren G. Harding. Lo scopo dell’incontro, al quale parteciparono gli stessi soggetti presenti a Parigi, fu analogo a quello della Conferenza conclusa ventidue mesi prima. L’unica differenza sostanziale era costituita dallo sguardo rivolto allo scacchiere collegato all’oceano Pacifico, più che all’Atlantico, accompagnato da una grande attenzione alle questioni navali.

A una minore ambizione fecero riscontro risultati di maggior concretezza nella realizzazione di una pacificazione mondiale. In occasione della Conferenza di Washington, utilizzando tecniche diplomatiche più realistiche ed efficaci di quelle messe in campo a Parigi, il nuovo presidente degli Stati Uniti riuscì a far accettare dalle maggiori potenze mondiali un vero accordo per la riduzione, o se non altro il deciso contenimento, degli armamenti, che venne rispettato fino alle soglie della Seconda guerra mondiale.

Nella Conferenza furono concordate una sospensione nelle costruzioni, la cosiddetta tregua navale, e una riduzione del naviglio da guerra esistente: le flotte rappresentavano allora il maggior deterrente strategico a largo raggio a disposizione degli Stati. La Grande guerra si era conclusa da poco con la vittoria della compagine che deteneva il controllo dei mari. Gli accordi stipulati a Washington prevedevano una limitazione del dislocamento delle nuove unità maggiori, che fu fissato in 35.000 tonnellate per le corazzate e in 10.000 per gli incrociatori. Questo determinò la nascita di una nuova tipologia di unità, la cosiddetta classe Washington, costituita da incrociatori dal dislocamento nominale pari a 10.000 tonnellate. Le potenze navali si accordarono inoltre nel mantenimento di un rapporto di forze stabilito dalla proporzione 5:5:3:1,75:1,75 rispettivamente per Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia e Italia, assegnando nel contempo alle tre potenze maggiori un massimo di 135.000:135.000:81.000 tonnellate per la costruzione di portaerei. In base a tali accordi i soli Stati Uniti radiarono quindici vecchie corazzate e due unità di nuova generazione, sospendendo nello stesso tempo la costruzione di tredici grandi navi già in cantiere. La tregua navale ebbe una durata effettiva di quattordici anni, fino a quando il Giappone denunciò il trattato, nel 1936, contro il parere dell’ammiraglio Isoroku Yamamoto, la prestigiosa figura al comando della flotta nipponica all’inizio della Seconda guerra mondiale.

L’esito della Conferenza di Washington dimostrò che nell’immediato dopoguerra un uso accorto e ben indirizzato della potenza economica, diplomatica e morale degli Stati Uniti era in grado di conseguire ottimi risultati nella prospettiva del disarmo e della pacificazione mondiali. Questo era ancora vero a tre anni di distanza dalla fine della Grande guerra e dopo il sostanziale insuccesso parigino. Se la Conferenza di pace del 1919 portò alla creazione di un assetto europeo esplosivo, destinato a produrre un nuovo conflitto mondiale nel giro di due decenni, ciò fu dovuto in parte notevole alla goffaggine politica, alla scarsa intelligenza nella comprensione storica e all’immensa presunzione del protagonista principale, in quanto dotato della maggior forza di pressione militare, politica ed economica: il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson.

Cercheremo adesso di tratteggiare almeno a grandi linee modi e tempi di svolgimento della Conferenza di pace stessa, nei suoi metodi di funzionamento e nelle conclusioni che raggiunse.