V

I NODI VENGONO AL PETTINE

Accettare di assumere posizioni razziste

Per descrivere l’atteggiamento tenuto da Woodrow Wilson durante la Conferenza di pace nei confronti della questione razziale la definizione di errore risulta impropria. A Parigi erano convenuti i rappresentanti del mondo intero, solo gli sconfitti non erano stati ammessi a quella che avrebbe dovuto essere la fase preparatoria dei lavori e invece si trasformò nell’unico momento decisionale. Del resto la regola individuata da Brenno, di cui abbiamo detto, è rimasta sempre in vigore, anche se raramente venne applicata con tanta feroce e sconsiderata determinazione.

Le diplomazie di numerosi paesi extraeuropei non governati da bianchi erano presenti, a volte con delegazioni numerose. Il peso politico dei rappresentanti dell’India, che aveva dato un contributo importante alla vittoria, e della Cina, che come già accennato aveva dichiarato guerra alla Germania e fornito decine di migliaia di lavoratori per scavare trincee, consentendo in questo modo alle truppe alleate di dedicarsi a combattere, era riconosciuto. Quello del Giappone, al quale era stata accordata la qualifica di grande potenza vincitrice, era persino rilevante. Entrati in guerra contro la Germania fin dal 23 agosto 1914, l’esercito e la marina nipponici avevano spazzato via in breve ogni presenza tedesca nell’area del Pacifico settentrionale. Nel farlo avevano occupato le isole Marshall, Marianne e Caroline, e in Cina la penisola dello Shandong, protettorato tedesco dal 1897-98. Australia e Nuova Zelanda avevano preso possesso dei possedimenti tedeschi a sud dell’equatore, prossimi alle loro coste, e grazie al trattato di pace ne mantennero il controllo.

Davanti alla richiesta di partecipare direttamente alla guerra in Europa con reparti dell’esercito, il Giappone si era tirato indietro. Nel 1917 era giunto a un accordo con il Regno Unito in base al quale una squadra navale nipponica era stata inviata nel Mediterraneo in sostituzione delle unità inglesi fino ad allora impiegate per la scorta ai convogli in quell’area, che da quel momento furono destinate alla protezione della rotta atlantica, minacciata dalla campagna di guerra subacquea senza restrizioni lanciata dagli U-Boot tedeschi. In cambio Londra promise il sostegno alla pretesa giapponese di appropriarsi in modo definitivo dei possedimenti tedeschi occupati.

Come abbiamo già visto, l’atteggiamento britannico a Parigi si presentava come intenzionato a rispettare, quali che ne fossero i contenuti, gli accordi stretti sotto la pressione della necessità di indirizzare tutte le energie disponibili nella lotta contro gli imperi centrali. Questo senza considerare le difficoltà pratiche o ideologiche che il tentativo di mantenere le promesse fatte avrebbe incontrato. Il governo britannico riteneva che sarebbero state le contraddizioni interne alle assicurazioni date e gli ostacoli di carattere politico, sociale e militare esistenti lungo il percorso che portava al mantenimento degli accordi a spegnere buona parte delle rivendicazioni avanzate da quanti erano entrati in guerra a fianco del Regno Unito. Grandi acquisizioni territoriali e commerciali erano state promesse, ben al di là del ragionevole, e l’evidenza della sproporzione fra il possibile e l’auspicato avrebbe ricondotto alla ragione i richiedenti, anche se sostenuti nelle loro pretese da impegni assunti con modalità ineccepibili. In effetti questo accadde nella larga maggioranza dei casi, portando quanti si resero conto dell’impossibilità di ottenere ciò che era stato pattuito a rinunciare alle rivendicazioni avanzate.

Così si comportò l’Italia nei confronti della penisola anatolica: ritirò le truppe che vi aveva inviato quando divenne evidente l’irrealizzabilità del progetto di ottenere l’assegnazione dei territori del vilayet di Adalia, pure prevista in base al trattato di Londra, e di trasformarla in un possesso reale. La Grecia era destinata a pagare un prezzo molto elevato per essersi affidata al sostegno britannico in vista del conseguimento di conquiste di proporzioni insostenibili nella stessa regione. Più prudente, l’Italia, dopo aver effettuato sbarchi di truppe in Anatolia, si rassegnò quasi subito a considerare tale manovra uno strumento di pressione da giocare al tavolo delle trattative in vista dell’acquisizione di altri risultati e non l’inizio di una vera occupazione destinata a durare a lungo nel tempo.

Come detto, a Parigi la delegazione giapponese era capeggiata dalla pittoresca e misteriosa figura del principe Saionji, la cui discrezione era tale che in alcune occasioni si giunse a pensare egli avesse lasciato la capitale francese per fare ritorno in patria all’insaputa di tutti. I risultati che il principe intendeva conseguire appartenevano a due ambiti distinti. Abbiamo accennato in precedenza che il primo, di natura territoriale, riguardava l’acquisizione definitiva delle isole del Pacifico settentrionale e del protettorato in Cina appartenuti alla Germania.

Il secondo e più delicato obbiettivo era giudicato di importanza persino maggiore: consisteva nell’ottenere il riconoscimento esplicito dei giapponesi – e non del Giappone in quanto potenza industriale e militare – come facenti parte a pieno titolo della comunità internazionale, superando le pesanti discriminazioni cui i sudditi imperiali erano sottoposti in molti paesi del mondo. Lo strumento per ottenere la messa al bando degli atteggiamenti e delle norme razziste doveva essere l’inserimento di una norma specifica nell’accordo costitutivo della Società delle Nazioni, il Covenant al quale Woodrow Wilson era interessato in modo quasi esclusivo. Le istruzioni impartite alla delegazione nipponica ponevano il raggiungimento di questo risultato in cima alle aspirazioni del governo di Tokyo.

La posizione era chiara: il Giappone riteneva che la sua partecipazione in qualità di grande potenza vincitrice a un’assemblea mondiale così vasta e rappresentativa potesse consentire la conquista di un inequivocabile pronunciamento di condanna per ogni forma di discriminazione razziale posta in essere in qualsiasi paese del mondo, impegnando in tal senso i firmatari del Covenant della Società delle Nazioni. Oggi il termine stesso «razza» viene rifiutato, ma nel Novecento aveva un significato ben preciso, tanto da essere utilizzato anche all’interno della Costituzione italiana, che all’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Per il Giappone si trattava di una questione di principio e insieme di un problema politico. Le isole nipponiche sono prive di materie prime e all’inizio del secolo scorso erano già sovrappopolate. L’emigrazione verso gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda e l’Australia, le mete più ambite, era bloccata da rigidissime restrizioni a carattere razziale, che come abbiamo visto negli anni Venti giunsero alla proibizione dei matrimoni misti. La pressione nipponica sulla Cina, la Corea e la Manciuria fu anche una conseguenza della ferma opposizione del blocco britannico e degli Stati Uniti a concedere al Giappone vie di sbocco alternative per l’esubero di popolazione del paese e la ricerca di fonti di materie prime.

Esistevano già gli elementi costitutivi del confronto fra Washington e Tokyo per il controllo del Pacifico che avrebbe portato all’allargamento della Seconda guerra mondiale a quell’area. Essi si manifestarono in piena evidenza già nel 1915 in Cina. Approfittando della guerra in corso e della conseguente situazione di impossibilità di intervenire in Oriente per le potenze europee, il Giappone aveva avanzato al governo di Nanchino, allora capitale della Repubblica Cinese, le cosiddette «Ventuno Richieste», che avrebbero trasformato il paese in una sorta di grande protettorato nipponico. La dura opposizione degli Stati Uniti aveva impedito la concessione di quanto preteso da uno Stato immenso ma privo di risorse militari capaci di contrastare utilmente le forze nipponiche.

Il rifiuto di accettare la richiesta di Tokyo di inserire una clausola antirazzista nel Covenant della Società delle Nazioni portò a un ulteriore allontanamento del Giappone dall’Occidente. La decisione presa non derivò da uno specifico atteggiamento antinipponico, quanto dalla generale arretratezza anglosassone nell’ambito dei diritti civili per tutto ciò che riguardava le questioni razziali. Nel 1919 il segregazionismo era presente in molti degli Stati che formavano gli USA, dove sarebbe rimasto in vigore fino alla presidenza di Lyndon B. Johnson negli anni Sessanta, e la situazione era persino più grave e vessatoria in India e in altri paesi dell’impero britannico. La lotta di Gandhi per l’indipendenza indiana inizia nel 1917, dopo una dura esperienza in Sudafrica.

I rappresentanti australiani, neozelandesi e sudafricani giudicavano inaccettabile anche solo porre il problema della parità razziale. Gli aborigeni dell’Oceania si trovavano a vivere in condizioni giuridiche estremamente precarie e il Sudafrica non aveva neppure iniziato il percorso che l’avrebbe portato all’indipendenza e nel 1991 alla abolizione dell’apartheid.

In occasione della Conferenza di pace, il Giappone avanzava dunque alla comunità internazionale due richieste distinte ma coerenti, seppure capaci di sollecitare reazioni di segno divergente. La risposta che esse avrebbero avuto era destinata a condizionare il futuro del paese, sino a spingerlo alla rottura con quelli che ne erano stati gli alleati tradizionali, Regno Unito e Stati Uniti. Innanzitutto Tokyo sollecitava con insistenza una dichiarazione di condanna esplicita di ogni forma di discriminazione razziale, un riconoscimento che oggi giudichiamo scontato e sulla cui legittimità teorica esistevano pochi dubbi anche cent’anni fa. Nonostante questo le organizzazioni sociali di alcuni paesi anglosassoni erano fondate sul privilegio e sulle discriminazioni: rischiavano di andare in pezzi qualora essi fossero stati rimossi, come accadde sia in Rhodesia che in Sudafrica all’inizio degli anni Novanta del Novecento.

L’inserimento di una clausola antirazzista in un accordo internazionale che nelle intenzioni del potente promotore avrebbe dovuto fondare il sistema politico internazionale destinato a proiettarsi nel futuro per un tempo imprecisato, ma comunque lungo, aveva quindi un significato tutt’altro che formale. Avrebbe potuto aprire con anticipo la strada a un processo di integrazione che ebbe inizio solo dopo la Seconda guerra mondiale e in numerosi casi raggiunse la piena affermazione ben oltre la metà del secolo scorso.

Allo stesso tempo il Giappone avanzava una pretesa di natura diversa e sotto alcuni aspetti conflittuale con la prima: l’acquisizione del protettorato sulla popolosa regione cinese dello Shandong, oltre che sugli arcipelaghi del Pacifico posti a nord dell’equatore, in sostituzione della Germania. Chiedeva insomma che gli venisse riconosciuta la qualità di membro alla pari del sistema coloniale posto in essere dalle potenze europee, al quale gli Stati Uniti partecipavano in forma mascherata con il controllo diretto dei Caraibi, di alcuni Stati centroamericani e delle Filippine, mentre la dottrina Monroe poneva l’intero continente in una condizione di dipendenza dall’ingombrante vicino del Nord.

Lo Shandong è una penisola grande circa la metà dell’Italia, che contava alla fine della Grande guerra oltre trenta milioni di abitanti – oggi ne sfiora i cento – e poteva vantare un legame strettissimo con la tradizione culturale cinese. La regione è il luogo di nascita di Confucio, di cui alcune famiglie si proclamano tuttora discendenti dirette, a ventisei secoli dalla sua scomparsa, e dispone di ingenti risorse minerarie, oltre a una posizione strategica dominante nei confronti di tutta la Cina orientale.

Non esisteva alcun motivo per il quale dovesse esistere un protettorato sullo Shandong attribuito al Giappone, come non c’era stata ragione per istituirlo in favore della Germania se non la debolezza politica e militare dello Stato cinese. Gli abitanti erano cinesi e volevano rimanerlo: il principio dell’autodeterminazione dei popoli costituiva il più convincente motivo ideale sotteso ai «Quattordici Punti» proclamati da Woodrow Wilson. Anche in base all’apprezzamento per tale programma, o comunque nella prospettiva di un riconoscimento internazionale della propria autonomia, la Cina aveva dichiarato guerra alla Germania e all’Austria-Ungheria: oltre centomila lavoratori si erano trasferiti, o erano stati inviati, in Francia a collaborare allo sforzo logistico necessario alla vittoria alleata sugli imperi centrali.

Il presidente rimase in trappola, preso tra i due corni delle richieste giapponesi, la prima legittima, ma osteggiata dal blocco britannico e malvista da larga parte dei suoi stessi connazionali, la seconda facile da soddisfare, ma contraria ai criteri espressi nelle dichiarazioni degli ultimi anni: quelli che avrebbero dovuto costituire la base morale dei princìpi sui quali edificare la Società delle Nazioni.

Trovare il modo per accontentare i delegati nipponici senza negare alcun principio etico e nello stesso tempo evitare contrasti con il blocco anglosassone presente alla Conferenza di pace avrebbe rappresentato un compito arduo anche per un diplomatico esperto. Woodrow Wilson non riuscì neppure a sviluppare una strategia indirizzata a risolvere il problema: seguendo lo schema di comportamento per lui abituale a Parigi, permise alla vicenda di seguire il suo corso senza intervenire, mantenendo la pretesa di prendere le decisioni opportune, caso per caso, quando se ne fosse presentata la necessità. In teoria questo avrebbe dovuto consentire a ogni scelta di venire effettuata con la massima libertà, senza lasciare spazio a scambi o compensazioni fra concessioni e rifiuti. Il rovescio esatto di quella che costituisce la prassi riconosciuta dei normali rapporti internazionali, all’interno dei quali la tutela di un interesse prevede di frequente il sacrificio di un altro.

Lo scorrere del tempo e l’avvicinarsi dei passaggi di maggior rilievo della Conferenza di pace non permisero di mantenere aperte all’infinito le questioni sollevate dal Giappone. Si avvicinava il 25 aprile, giorno dell’arrivo a Parigi della delegazione tedesca, alla quale doveva essere sottoposto il trattato in vista della firma, la cui cerimonia, dopo una serie di rinvii, venne fissata per il 28 giugno, quinto anniversario dell’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia a Sarajevo. Sarebbe stata l’occasione più importante dell’intera Conferenza, nella quale Woodrow Wilson era convinto si sarebbe deciso il suo successo o insuccesso. Non solo per le dimensioni demografiche, economiche, politiche e industriali del paese sconfitto chiamato a firmare il trattato, né per il valore esemplare che il testo avrebbe avuto, costituendo il modello per gli accordi successivi: in apertura del documento si trovavano i ventisei articoli costitutivi della Società delle Nazioni, alla cui creazione Woodrow Wilson aveva dedicato le maggiori energie. Insieme alla pace con la Germania il presidente si aspettava di vedere sorgere un nuovo ordine mondiale.

Francia e Regno Unito si apprestavano a firmare il documento con piena soddisfazione, dato che erano riusciti a spartirsi buona parte del mondo per quella che ritenevano dovesse essere una prospettiva temporale molto lunga. Lo stesso non si poteva dire per Italia e Giappone, che non erano appagati per quanto avevano ottenuto al tavolo delle trattative e minacciavano addirittura di rifiutarsi di sottoscrivere il trattato, circostanza che avrebbe messo in crisi l’intera macchina della Conferenza di pace.

Le questioni in gioco erano di proporzioni diverse. Come abbiamo detto in precedenza, l’Italia aveva già conseguito uno dei suoi obbiettivi più ambiziosi, e difficili da giustificare, prima ancora che i delegati avessero raggiunto Parigi. Durante la visita di Woodrow Wilson nella penisola, i diplomatici italiani lo avevano colto in un momento di euforia, dovuta alla calorosa accoglienza popolare ricevuta, e ne avevano approfittato per convincerlo a riconoscere l’acquisizione all’Italia di Bolzano, Merano e l’intero Sud Tirolo, abitato da duecentocinquantamila persone di lingua e cultura tedesca, in totale spregio al principio di autodeterminazione dei popoli. Destino simile ebbe la questione istriana, mentre per Trento, Trieste e Gorizia nessuno avanzò mai obbiezioni.

Le altre rivendicazioni italiane, pur comprese nel trattato di Londra in base al quale il governo di Roma era entrato in guerra, si erano in parte spente per la palese assurdità, come quelle relative all’Anatolia, o per la totale impraticabilità. Quest’ultima era la condizione delle pretese sulla Dalmazia, che ormai costituiva la costa del nuovo regno che si sarebbe chiamato iugoslavo nel quale erano confluite Serbia, Bosnia, Slovenia, Croazia e Montenegro. Questioni minori erano state accolte dai Big Four in modo non formalizzato e riguardo a esse il mantenimento dello status quo poteva essere ritenuto soddisfacente. Così era accaduto per il Dodecaneso, la cui occupazione italiana, iniziata nel 1911 nel corso della guerra di Libia contro l’impero ottomano, non veniva messa in discussione da nessuno, nonostante la popolazione delle isole fosse quasi esclusivamente greca, e aspettava una definizione opportuna per la prosecuzione che non veniva contestata.

Nei confronti dell’Italia la posizione di Regno Unito e Francia era molto chiara: purché non intralciasse le spartizioni effettuate in Medio Oriente e nelle ex colonie tedesche, poteva farsi attribuire in termini territoriali tutto quello che riusciva a convincere il presidente americano a concedere e che era in grado di difendere con le proprie forze armate.

Il misto di buon senso e di ingordigia che si era creato nella delegazione italiana a Parigi, sotto la spinta di una stampa e un’opinione pubblica pronte a chiedere per il paese acquisizioni che giustificassero i sacrifici sopportati durante la guerra, trovò il suo punto di caduta nella questione di Fiume: una cittadina di circa cinquantamila abitanti sulla baia del Quarnero, ossia dove la costa istriana orientale piega verso sud. Ne abbiamo già accennato.

La popolazione fiumana era in lieve maggioranza di lingua e cultura italiane, circondata però da ogni parte da insediamenti croati, dai quali era in pratica impossibile dividerla. Il trattato di Londra non prevedeva la sua assegnazione all’Italia: stabiliva che continuasse ad appartenere alla corona ungherese, all’interno della duplice monarchia asburgica. Il collasso austro-ungarico e la nascita al suo posto di realtà statuali diverse avevano sconvolto le previsioni, precluso alcune possibilità di espansione territoriale, come quella verso la Dalmazia, e lasciato spazio a nuove ambizioni. Data la totale trasformazione del quadro geopolitico dell’Europa centrale e in risposta alle continue prese di posizione del presidente statunitense a favore dell’autodeterminazione dei popoli, consapevoli dell’impossibilità di far valere gli accordi sottoscritti al momento dell’entrata in guerra, Orlando e Sonnino proponevano, anche se sotto vesti diverse e persino più accettabili per Woodrow Wilson, lo scambio fra l’attribuzione all’Italia dell’intera Dalmazia, in larga parte croata, e quella della sola Fiume, parzialmente italiana.

La discussione relativa ai confini nordorientali italiani era articolata e complessa, e procedeva da tempo. A giudizio dei diplomatici inglesi il governo di Roma era troppo esigente: si dimenticava che l’Italia era entrata in guerra, spinta soprattutto da Sonnino, al fine di ottenere ampliamenti territoriali. Si dava per scontato che essi dovessero riguardare le aree italofone: Trento, Trieste, Gorizia, Pola, Zara e tutta la costa istriana, ma Orlando e Sonnino chiedevano anche altro, per giustificare gli oltre seicentomila caduti sul fronte delle Dolomiti e dell’Isonzo, perdite più elevate di quelle subite dalla Gran Bretagna, se si escludono i Dominions.

Alcuni casi erano irrisolvibili con criteri esclusivamente nazionalisti. Woodrow Wilson proponeva di separare le popolazioni costiere dell’Istria da quelle dell’entroterra, senza riflettere sul fatto che tale divisione non era mai esistita perché le due aree sono economicamente complementari. La difficoltà che la questione italiana creava e la palese incapacità dei Big Four di elaborare una soluzione accettabile innervosivano il presidente, dato anche che ne mettevano a nudo i limiti diplomatici, esasperati dall’atteggiamento tenuto da Lloyd George e Clemenceau, che si dichiaravano costretti al rispetto del patto di Londra dell’aprile 1915 qualora non venisse individuato un diverso accordo. Ancora una volta si scaricava sul più ingenuo il compito di pronunciare una semplice verità: la guerra aveva cambiato tutto, l’Austria-Ungheria era scomparsa e bisognava fare i conti con un nuovo assetto dell’Est europeo.

In effetti, come accennato in precedenza, la fissazione dei confini italo-iugoslavi avvenne al di fuori della Conferenza di pace, dopo la sua chiusura ufficiale, attraverso contatti diretti fra i due Stati che finirono per trovare un accordo.

A Parigi Clemenceau e Lloyd George erano ben felici della soluzione di Fiume, che appariva capace di risolvere il problema dell’impossibilità politica e militare di applicare in Adriatico le clausole del trattato di Londra, al quale erano pur sempre formalmente legati. Esso avrebbe previsto la ricostruzione del Golfo di Venezia, caro alla tradizione della marineria italiana, ma improponibile dopo la nascita del regno che sarebbe divenuto di Iugoslavia, al quale non poteva essere negato l’accesso all’Adriatico come era stato fatto nel 1913, al termine delle Guerre balcaniche, ai danni della vincitrice del conflitto locale, la Serbia, inasprendo i rapporti di quest’ultima con l’Austria-Ungheria e avvicinando così lo scoppio della Grande guerra.

Con un insieme di lungimiranza e rassegnazione, l’Italia aveva accettato di condividere il controllo dell’Adriatico, senza rinunciare a lamentare lo svantaggio tattico in cui si trovano le coste occidentali, esposte e prive di porti per centinaia di chilometri, con l’unica eccezione di Ancona, rispetto a quelle orientali iugoslave, ricche di anfratti, isole e approdi, dove in caso di guerra una flotta composta di navi veloci avrebbe potuto trovare un facile riparo dopo aver effettuato incursioni a sorpresa. Il semplice fatto che questo genere di considerazioni venisse avanzato ci dice quanto scarsa fosse la fiducia dei delegati nei confronti dell’efficacia concreta del progetto di rifondazione del sistema dei rapporti internazionali immaginato e sostenuto da Woodrow Wilson.

Il percorso che portava alla richiesta per l’Italia di Fiume, nascondendo la parallela rinuncia alla Dalmazia, non era privo di buon senso. Si può persino immaginare che esso fosse stato pilotato con una certa abilità dal governo di Roma per concentrare sulla cittadina istriana l’attenzione dell’opinione pubblica e allontanarla dalla necessità di rinunciare alle più ambiziose pretese sulla costa adriatica orientale. L’articolo di Gabriele d’Annunzio intitolato Vittoria nostra, non sarai mutilata era stato pubblicato sul «Corriere della Sera» a guerra non ancora finita, il 24 ottobre 1918, dichiarando le grandi speranze, e i giustificati timori, presenti nel paese in merito a quello che l’Italia poteva aspettarsi dalla pace.

La questione di Fiume era di così scarso rilievo che la sua concessione da parte dei Big Four risultava quasi scontata e il governo avrebbe potuto spenderla di fronte all’opinione pubblica italiana come un successo importante ottenuto al tavolo delle trattative. In cambio di un favore di modesta portata il governo di Roma era disponibile a fare rinunce significative e ad assecondare così il progetto complessivo di Woodrow Wilson in relazione al Covenant.

Inaspettatamente il presidente rifiutò di accogliere la richiesta italiana, forse in ricordo dell’errore clamoroso commesso e mai riconosciuto riguardo al Sud Tirolo. Di fronte alla testardaggine aggressiva e ingiustificata dello statunitense, Vittorio Emanuele Orlando scoppiò a piangere in pieno incontro fra capi di governo di grandi potenze, contro ogni protocollo diplomatico. Non si sa se per il dispiacere, la rabbia, o il senso di impotenza di fronte alla totale incomprensione dell’interlocutore per i princìpi e la prassi della diplomazia.

Si giunse così a un’impasse nei lavori dei Big Four, che rischiava di bloccare la Conferenza a qualche giorno dall’arrivo a Parigi della delegazione tedesca e a poche settimane dalla data prevista per la firma del trattato di pace con la Germania. Woodrow Wilson decise allora di compiere un passo contrario al galateo della politica internazionale: nel pomeriggio del 23 aprile inviò ai quotidiani un proclama rivolto al popolo italiano, scavalcando il governo di Roma e mettendo quindi in dubbio la capacità di rappresentanza di quest’ultimo. Una prassi scorretta nei confronti di un alleato e addirittura grottesca quando messa in atto da un politico che era appena stato duramente sconfitto nelle elezioni di mezzo termine e non disponeva di nessuna maggioranza davanti alle Camere del proprio paese.

Per protesta, la delegazione italiana abbandonò la Conferenza di pace, anche se fu attenta a non esasperare i toni e a lasciarsi aperta la via del ritorno, dichiarando che Vittorio Emanuele Orlando rientrava a Roma per riferire davanti al Parlamento sulla situazione parigina. Mancavano poche ore all’arrivo nella capitale francese dei rappresentanti tedeschi. Era prossimo il passaggio decisivo per la stipula della pace e la creazione della Società delle Nazioni. L’assenza dell’Italia al tavolo delle discussioni in questa fase e il rischio di un suo rifiuto di firmare il trattato erano gravi, ma ancora sopportabili. Il peso internazionale di Roma rimaneva comunque relativo.

Fu in questo contesto che la diplomazia giapponese si inserì come la lama affilata di una katana, la spada dei samurai, chiedendo che venissero fornite risposte alla richieste avanzate. Woodrow Wilson, indotto dai limiti culturali e intellettuali che conosciamo a sottovalutare la presenza della delegazione nipponica alla Conferenza di pace, si trovò all’improvviso a doverla fronteggiare in condizioni di estrema debolezza. Dopo la mossa italiana, il secondo abbandono dei lavori da parte di una delle potenze maggiori sarebbe risultato catastrofico: avrebbe consentito alla Germania di mettere in discussione le durissime condizioni del trattato di pace che ci si preparava a imporle, forse persino con un rifiuto a sottoscrivere il documento. Questo avrebbe reso più difficile, se non impossibile, la creazione della Società delle Nazioni.

Le richieste di Tokyo non erano cambiate e contemplavano l’inserimento nel Covenant di una clausola espressamente antirazzista e l’attribuzione al Giappone del protettorato sullo Shandong. Le due questioni non erano di natura diversa. Dal punto di vista nipponico si trattava in entrambi i casi di ottenere un riconoscimento di pari dignità da parte delle altre potenze. Esso poteva essere esplicito e diretto, nella forma di una dichiarazione comune sottoscritta in un contesto di assoluto rilievo, quale la Conferenza di pace. L’altra via, nella sua brutale concretezza, aveva un significato simbolico analogo, in quanto riconosceva al Giappone il diritto di prendere il posto di una grande potenza europea, la Germania, dopo averla sconfitta. Invece di condannare la discriminazione razziale la cessione dello Shandong riconosceva all’impero del Sol Levante un’equiparazione con le potenze occidentali, che mantenevano il loro atteggiamento spiccatamente razzista.

Per Woodrow Wilson la situazione era senza via d’uscita, mentre i tempi erano divenuti strettissimi. L’inserimento nel trattato istitutivo della Società delle Nazioni di una clausola di esplicita condanna della discriminazione razziale avrebbe trovato l’opposizione netta di tutto il blocco anglosassone, e probabilmente la dura ostilità di larga parte del Senato statunitense. Bisogna notare che il Partito democratico, cui Woodrow Wilson apparteneva, era forte negli Stati del Sud, nei quali lo schiavismo era stato abolito solo dopo la guerra civile. Abraham Lincoln era stato il fondatore del Partito repubblicano. Una clausola antirazzista avrebbe incontrato una forte ostilità fra i senatori più vicini al presidente.

Alla decisione di collegare la creazione del nuovo organismo internazionale alla firma della pace con la Germania non si poteva rinunciare: avrebbe significato rinviarne la nascita a una scadenza indefinita. La Società delle Nazioni doveva scontare già tali debolezze e ostilità che l’inserimento della sua istituzione nel primo trattato da sottoscrivere rappresentava l’unico modo per costringere buona parte degli Stati del mondo ad accettarla, anche se priva dei poteri che il presidente avrebbe preteso di attribuirle, inconsapevole com’era della necessità di adeguare il passo dei sogni a quello della realtà politica.

Nel 1919 una Società delle Nazioni composta dalle potenze che dominavano, e sfruttavano, il mondo intero esisteva già nei fatti: era quella che si era riunita a Parigi per constatare che le mancavano la forza e la determinazione necessarie a realizzare un equilibrio di pace in Europa e nel resto del mondo. Immaginare di costituire con il medesimo materiale, politico, umano, culturale, economico e militare, un organismo formalizzato per risolvere su base giurisdizionale tutti i problemi e i contrasti presenti e futuri sul pianeta era più che utopico. Entrava in un ambito nel quale l’ingenuità, quando appartiene a politici di grande potere, sfiora il crimine.

E un delitto avvenne. Woodrow Wilson maturò la consapevolezza di dover cedere qualcosa al Giappone affinché la delegazione di Tokyo rimanesse a Parigi per firmare il trattato di pace con la Germania e l’atto istitutivo della Società delle Nazioni. Il guaio nel quale il presidente si era cacciato dipendeva dal rifiuto opposto all’Italia, per astio e testardaggine, di cedere un territorio popolato in parti uguali da italiani e croati, per un totale che difficilmente avrebbe superato i cinquantamila abitanti.

In preda al panico, timoroso di mancare l’obbiettivo che si era proposto di conseguire alla Conferenza di pace, incapace di comprendere che è la coerenza delle scelte a far crescere i processi politici e non un avanzare ondivago, attento a non perdere la faccia più che a raggiungere risultati concreti, il presidente fece la scelta razzista, verso la quale lo spingeva la cultura del tempo e quindi una minore opposizione da superare.

Come abbiamo detto in precedenza, inserire una clausola contro le discriminazioni di razza negli articoli istitutivi della Società delle Nazioni risultava impossibile, senza una lunga preparazione diplomatica, per la natura profondamente segregazionista di molti dei paesi vincitori: Australia e Sudafrica, India, Regno Unito e Nuova Zelanda, larga parte degli Stati Uniti. Questo significava accettare che alla radice dell’organizzazione internazionale si trovasse una componente significativa di razzismo, dato che il problema non era stato ignorato, ma sollevato e risolto in senso negativo, mentre il presidente non faceva niente per impedirlo.

Travolto dalla somma di leggerezze commesse, non rimase a Woodrow Wilson che sottolineare questa caratteristica, sacrificando trenta milioni di cinesi alle presunte esigenze della politica mondiale. Con un cinismo degno delle peggiori operazioni coloniali, il presidente accettò dunque di cedere lo Shandong al Giappone, incurante della palese violazione del principio di autodeterminazione dei popoli e anche del fatto che la Cina, pur non essendo stata ammessa fra le grandi potenze, aveva dichiarato guerra alla Germania e all’Austria-Ungheria e aveva collaborato alla vittoria in modo concreto: disponeva quindi di tutti i titoli per partecipare alla divisione delle spoglie dei vinti.

Il gigante asiatico, prostrato e ferito da decenni di sconfitte militari e dallo sfruttamento indiscriminato delle sue ricchezze da parte delle grandi potenze, non chiedeva ampliamenti territoriali. Solo il ripristino di una situazione di normalità per una grande comunità di connazionali pienamente appartenenti alla cultura e all’etnia cinesi. Ciò le fu rifiutato per motivi di equilibrio politico e in larga parte per rimediare con goffaggine alla serie di leggerezze commesse dalla presunzione di Woodrow Wilson nei confronti sia dell’Italia che del Giappone. Credendo di poter gestire in autonomia e totale capacità decisionale le scelte della Conferenza di pace egli aveva finito per trovarsi costretto a cedere alle necessità brutali del compromesso politico, negando in modo spettacolare gli assunti proclamati fino a quel momento.

L’assurdità dell’ingiustizia commessa consegnando trenta milioni di cinesi a un potere politico straniero non appariva nella sua evidenza ed enormità solo a causa del razzismo che connotava i rappresentanti dei governi di larga parte dei paesi rappresentati a Parigi e delle potenze maggiori, compreso per alcuni aspetti il Giappone. Per loro gli asiatici appartenevano a una condizione umana inferiore a quella dei bianchi e potevano quindi essere sacrificati e ridotti in condizione quasi servile con minor rammarico. In nessuna parte d’Europa le decisioni della Conferenza di pace avevano portato allo sradicamento di un numero tanto elevato di persone, né in una singola occasione né nel complesso delle decisioni. Neppure la Germania umiliata e sconfitta si era vista strappare così tanti abitanti per vederli sottoposti, in condizioni di inferiorità giuridica, a un’autorità politica straniera.

Il disastro greco-turco

Scendiamo adesso nei dettagli dell’evento che nel giudizio di molti costituisce la più grave conseguenza immediata della gestione superficiale e persino sconsiderata della Conferenza di pace. Come abbiamo visto, l’attenzione del comitato decisionale dei Big Four, e di Woodrow Wilson in particolare, era concentrata sulla Germania e sulla Società delle Nazioni, dimentica dei problemi posti dalla dissoluzione dell’impero ottomano, che pure nel corso di oltre quattro anni di guerra aveva dimostrato una vitalità superiore a quella che le veniva riconosciuta abitualmente dalle potenze occidentali. Il potere degli zar russi, risalente al 1389, era crollato nel marzo del 1917, mentre quello sultaniale, circa coevo, era giunto logorato, ma ancora riconosciuto, fino alla fine del conflitto.

Di quanto accaduto nel Medio Oriente arabo abbiamo detto. Fatti almeno altrettanto penosi avvennero in quella che oggi è la moderna Turchia, la penisola anatolica. Sulla costa occidentale di essa si trova la città di Smirne, oggi Izmir, situata in fondo a un lungo golfo che ne fa uno dei migliori approdi della regione. Nel 1919 apparteneva da oltre seicento anni all’impero ottomano, del quale era allora il secondo centro per numero di abitanti, in larga maggioranza di etnia greca. Era il capoluogo di una regione la cui popolazione era composta, allora come oggi, quasi esclusivamente da turchi; l’organizzazione sociale dell’impero aveva affidato il commercio, quello via mare in particolare, ai greci così che erano loro ad abitare le città portuali nelle quali si svolgevano gli scambi e si tenevano i mercati. L’agricoltura era invece appannaggio della componente sociale turca.

Il collasso del sultanato aveva fatto di Smirne la preda delle pretese territoriali di molti fra i vincitori. Con gli accordi Sykes-Picot, Francia e Regno Unito si erano spartiti le regioni arabe, facendo salva la quota dei diritti di estrazione petrolifera riservati alle compagnie statunitensi e olandesi. Per Costantinopoli e la zona degli Stretti, caduto con lo zar l’impegno a consegnarli all’impero russo, Londra e Parigi immaginavano di istituire una amministrazione sovranazionale. Alle potenze mediterranee minori, nello specifico Italia e Grecia, rimaneva aperta la possibilità di rivalersi territorialmente sull’Anatolia, la cui popolazione era a forte prevalenza turca, con l’eccezione dei centri costieri di cui abbiamo detto. Francesi e inglesi erano stati generosi di promesse con i governi di entrambi gli alleati al momento di richiederne l’appoggio nella guerra contro gli imperi centrali. Si erano impegnati a sostenere le pretese territoriali di ambedue su alcune zone della regione, fra di esse quella che comprendeva Smirne risultava, come detto, la più ambita.

L’Italia aveva combattuto contro l’impero ottomano dal 1911 al 1913, strappando al governo sultaniale Libia e Dodecaneso. Questo arcipelago, oggi parte della Grecia, si trova prospiciente all’Anatolia, rendendo la conquista di un tratto della sua regione costiera, piuttosto fertile e poco abitata, un’ambizione coltivabile da parte del governo di Roma. Riguardo a una acquisizione territoriale nella zona, la stampa nazionale aveva dato vita a una campagna simile a quella che aveva preparato la guerra di Libia, descrivendo Smirne e il suo vilayet, la relativa divisione amministrativa sultaniale, come una specie di paradiso terrestre, anche se questa volta con toni meno accesi e minor convinzione di quanto sostenuto nel 1911. La delusione nordafricana era stata bruciante.

L’ambizione greca al dominio della costa occidentale anatolica era antica di oltre duemila anni. In epoca classica, ateniesi e spartani avevano combattuto contro l’impero persiano in difesa della libertà delle colonie elleniche che si erano installate nella regione a partire dal IX secolo a.C., fronteggiando la pressione nemica con alterne fortune.

Il Regno di Grecia, ossia lo Stato greco moderno, si era costituito nel 1832 con il trattato di Costantinopoli. Era stato possibile conseguire tale risultato grazie all’aiuto delle potenze europee che ne avevano sostenuto la guerra di liberazione, combattuta dal 1820 al 1831 contro l’impero ottomano. Da allora in poi il regno non aveva cessato di ampliarsi a spese del potente vicino. Guerre greco-turche erano state combattute nel 1854, nel 1897, nel 1912-13 e in modo confuso nel corso della Grande guerra. A essa lo Stato greco aveva partecipato consentendo agli alleati di creare e rifornire via mare il cosiddetto «Fronte macedone», che andava dalla costa albanese al fiume Struma, impegnando in quell’area le truppe degli imperi centrali che avevano occupato Serbia e Romania. Con questo contributo aveva acquisito il diritto alla qualifica di vincitore della guerra.

Alla Conferenza di Parigi la Grecia era rappresentata dalla figura prestigiosa e pittoresca di cui abbiamo detto, Eleutherios Venizelos, un politico cretese sostenuto dagli alleati che con una serie di manovre prossime al colpo di Stato aveva costretto nel 1917 re Costantino, sul trono dal 1913, ad abdicare in favore del figlio Alessandro. Quest’ultimo veniva tenuto in condizioni di semiprigionia: fra l’altro gli era impedito ogni collegamento con il padre esule in Svizzera. Le sue nozze con Aspasia Manos furono ostacolate e rinviate più volte, perché si temeva che la moglie potesse mettere in contatto il giovane re con gli ambienti monarchici antivenizelisti.

La presa del potere ad Atene aveva consentito a Venizelos di impegnare il paese a fianco degli alleati durante la guerra, scelta alla quale re Costantino, di famiglia tedesca, era contrario. Terminato il conflitto, il politico cretese si era recato a Parigi per ottenere dagli alleati quanto promesso per il prezioso intervento greco, che aveva consentito la resistenza contro gli imperi centrali nei Balcani garantendo porti sicuri per il trasferimento nell’area di una potente armata – essa comprendeva l’intero esercito serbo, che la marina militare italiana aveva evacuato dalla Macedonia – e per lo sbarco dei rifornimenti necessari a mantenerla in grado di combattere.

Venizelos era un uomo capace, abile e astuto. Mancava solo di senso delle proporzioni. Il progetto politico che aveva elaborato, la prospettiva ionica, prevedeva la riunione dei dispersi della cosiddetta «diaspora greca» in uno Stato che avrebbe dovuto comprendere Costantinopoli e Alessandria d’Egitto, oltreché Smirne. Tutte città con popolazioni miste, secondo la tradizione dei porti commerciali mediterranei, caratterizzate dalla presenza di una componente greca maggioritaria, anche se in termini relativi. La stessa situazione esistente a Salonicco, quando era entrata a far parte del Regno di Grecia. L’obbiettivo era la creazione di uno Stato distribuito su tre continenti – Alessandria d’Egitto è in Africa – e affacciato su cinque mari, con confini basati su criteri diversi da quelli comunemente riconosciuti all’inizio del Novecento, imperniati su spartiacque montani e linee costiere.

Durante la permanenza a Parigi, Venizelos si dichiarò un grande sostenitore della Società delle Nazioni, per compiacere Woodrow Wilson, e favorevole alla cessione di Cipro al Regno Unito, per ottenere il sostegno di Lloyd George. Per guadagnare la benevolenza francese giunse a organizzare la partecipazione greca, con due divisioni dell’esercito, a una spedizione di sostegno alle armate bianche del generale Anton Ivanovič Denikin voluta da Clemenceau nel Sud della Russia, che peraltro ebbe un esito disastroso.

Nei confronti dell’Italia non esistevano invece possibilità di accordo, dato che i punti di contrasto fra i due paesi erano molteplici: andavano dalla definizione del confine greco-albanese, al possesso del Dodecaneso, come detto abitato da greci e occupato dagli italiani nel 1912, fino alla questione più grave: quella di Smirne, al largo del cui porto si trovava una forte squadra navale battente bandiera tricolore, mentre emissari del governo di Roma scendevano a terra per incitare i turchi a gridare «Viva l’Italia!». Non era difficile convincerli. Avrebbero gridato qualsiasi cosa pur di sfuggire al pericolo di essere governati dai loro nemici tradizionali: i greci.

Questa era la situazione al momento della crisi innescata dalla decisione di Woodrow Wilson di non concedere Fiume all’Italia come contropartita per la rinuncia all’applicazione integrale delle clausole del trattato di Londra, resa impraticabile dalla scomparsa dell’impero austro-ungarico e dalla nascita del Regno di Iugoslavia. Quando la delegazione italiana lasciò Parigi, non ci si chiese se la sua assenza privasse di legittimità i lavori dei Big Four, del resto si trattava di riunioni alle quali era sempre mancata una formalizzazione rigorosa. Esistevano accordi presi e ribaditi in diverse occasioni che prevedevano potesse essere stipulata solo una pace concordata tra tutti i vincitori: questo avrebbe dovuto impedire almeno a Francia e Regno Unito di stabilirne le condizioni senza il consenso di Roma, ma la questione non venne presa in considerazione: le riunioni informali, ma con carattere decisionale, che fino ad allora si erano svolte con quattro partecipanti proseguirono a tre. L’assenza di Woodrow Wilson, ritornato per un mese negli Stati Uniti fra gennaio e marzo, aveva costretto alla sospensione dei lavori, quella di Orlando non appariva altrettanto significativa.

Il 6 maggio la questione di Smirne fu portata a opera di Lloyd George davanti a quello che ormai era un consiglio ridotto, nel quale dominava un profondo senso di malevolenza nei confronti dell’Italia. Questo costituiva un grosso favore che veniva fatto dall’inglese all’amico greco Venizelos. Il primo ministro britannico si spinse anche più in là: sostenne la necessità di offrire entro tempi brevissimi una protezione alla popolazione greca della città, dalla quale affermò giungessero notizie di violenze commesse ai suoi danni da parte dei turchi. A tal fine propose venisse autorizzato l’invio di un corpo di spedizione greco.

Era chiaro che il fatto compiuto rappresentava un importante e spesso risolutivo strumento di condizionamento delle decisioni finali della commissione: consentire lo sbarco di un forte contingente di soldati dell’esercito greco in Anatolia e permettere che occupasse Smirne significava precostituire una futura scelta relativa all’assegnazione della città in danno dell’Italia. Woodrow Wilson non aspettava occasione migliore per vendicarsi di Orlando, che aveva lasciato Parigi, indipendentemente da qualsiasi valutazione di correttezza o di rispetto dei princìpi fino ad allora sostenuti, ai quali si era abituato a riservare una considerazione esclusivamente teorica.

Senza neppure avvertire il governo italiano della decisione presa nel corso della loro riunione semiclandestina, Lloyd George, Woodrow Wilson e Clemenceau autorizzarono la Grecia a impadronirsi militarmente di una grande città la cui assegnazione era in discussione, ponendo in essere un fatto compiuto che danneggiava l’Italia, quello che rimaneva del governo di Costantinopoli e le popolazioni turche del vilayet di Smirne. Con piena consapevolezza del fatto che difficilmente sarebbe stato possibile modificare in maniera non conflittuale la situazione che si sarebbe venuta a creare.

A questa gravissima scorrettezza diplomatica seguì un disastro politico: lo scoppio di una guerra destinata a durare tre anni e mezzo, conclusa con l’espulsione dal nuovo Stato turco – che si formò mentre essa veniva combattuta e in un certo senso grazie a essa – della popolazione greca residente in Anatolia, dove aveva vissuto per millenni.

Nella circostanza, il presidente agì con la sconsideratezza e la prepotenza che gli erano caratteristiche, derivate dalla inesperienza diplomatica e dalle pretese demiurgiche che lo qualificavano e andarono crescendo con il proseguire del lavori della Conferenza di pace e con il deperimento fisico che sarebbe sfociato a breve nell’ictus che lo rese invalido. A questi tratti si aggiungeva nell’occasione un profondo livore nei confronti della delegazione italiana, al quale la sua personalità vendicativa non perse l’occasione per abbandonarsi. Protagonista assoluto e per sua imposizione figura terminale del processo decisionale, causò una volta ancora danni enormi a comunità che gli erano ignote e stabilì soluzioni improbabili e irrealizzabili per problemi dei quali conosceva appena i termini generali, creando un groviglio di malcontenti impossibile da gestire.

L’atteggiamento britannico si caratterizzò di nuovo per cinismo. La Grecia si era dimostrata un alleato di notevole valore durante la guerra e a Eleutherios Venizelos erano state fatte grandi promesse. Lloyd George non intendeva smentirle: un amico fedele nella regione del Mediterraneo orientale, degli Stretti, di Cipro, della Palestina e di Creta poteva rivelarsi prezioso. La linea politica fu anche in questa occasione quella di lasciare che una volta avviato un processo la vicenda seguisse il proprio corso, fino a che le intenzioni dei protagonisti si fossero scontrate con gli elementi duri della geopolitica e degli equilibri internazionali.

Quando Lloyd George gli comunicò la decisione di autorizzare l’occupazione di Smirne da parte delle truppe greche, il generale Henry Wilson, addetto militare della delegazione britannica a Parigi, commentò: «In questo modo facciamo scoppiare una nuova guerra».

Lo sbarco delle truppe greche a Smirne iniziò il 15 maggio 1919, con l’appoggio delle unità da guerra inglesi e francesi presenti in rada. Vittorio Emanuele Orlando era rientrato a Parigi e aveva ripreso a partecipare alle riunioni dei Big Four come se non ci fossero stati significativi dissapori. Venne presto convinto ad accettare una riorganizzazione dell’Anatolia che assegnava all’Italia il mandato sulla zona costiera prospiciente al Dodecaneso: forse questo costituiva fin dall’inizio l’obbiettivo delle rivendicazioni territoriali asiatiche di Roma, mentre alla Francia si prevedeva di attribuire il controllo della regione orientale della penisola, la Cilicia.

Sembra che al momento della spartizione qualcuno abbia sollevato l’obbiezione relativa al fatto che il Covenant della Società delle Nazioni stabiliva che i mandati venissero assegnati «con il consenso e il gradimento dei popoli interessati». L’intervento fu commentato da una grande risata collettiva.

L’azione greca si estese quasi subito alla regione circostante Smirne e provocò fin dal primo momento eccessi di ogni genere da entrambe le parti. Il piccolo centro di Aydin fu occupato il 27 maggio, abbandonato il 29-30 dopo che erano state commesse orribili violenze sulla popolazione civile, e infine riconquistato dai greci il 4 luglio. Della cittadina rimanevano allora quasi solo rovine fumanti. Le notizie che giungevano dalla zona di guerra causarono un progressivo modificarsi dell’atteggiamento internazionale, inizialmente molto favorevole alla Grecia e poi via via sempre più comprensivo con le ragioni dei turchi, che subivano i disagi e le privazioni di un conflitto combattuto sul loro territorio. Non solo l’Italia, ma anche Francia e Stati Uniti cominciarono a guardare con diffidenza l’attività ellenica in Anatolia.

La presenza militare greca in una regione abitata quasi esclusivamente da turchi, con l’eccezione di Smirne e degli altri centri urbani posizionati lungo la costa, sollecitò una reazione armata da parte della popolazione locale che si andò consolidando, mentre guadagnava l’appoggio di reparti dell’esercito sultaniale inquadrati ed equipaggiati modernamente. Il 19 maggio avvenne un fatto di enorme rilevanza: Mustafa Kemal Atatürk, un ambizioso generale rientrato dalla Palestina al ministero della Guerra di Costantinopoli fin dalla stipula dell’armistizio, assunse l’incarico di ispettore della 9a Armata dell’esercito ottomano, che si andava riorganizzando nella regione di Ankara. Come detto in precedenza, l’ufficiale aveva dimostrato in molte occasioni di possedere un talento militare notevole: ferito in Tripolitania nella guerra italo-turca del 1911-12, aveva colto nel 1915 la spettacolare vittoria di Gallipoli, rigettando in mare il corpo di spedizione anglo-francese che tentava di impadronirsi di Costantinopoli con un colpo di mano; in seguito aveva comandato la 7a Armata ottomana sul fronte palestinese, resistendo a lungo alla pressione delle soverchianti forze britanniche del generale Edmund Allenby. Adesso aveva l’occasione di dimostrare anche le indubbie capacità politiche di cui disponeva.

Mentre gli alleati concordavano le condizioni di pace da imporre all’impero ottomano, predisponendosi a firmare un trattato con il governo sultaniale di Costantinopoli, ad Ankara Kemal Atatürk organizzava un nuovo Stato turco, laico e nazionalista. Anche se privo di riconoscimenti internazionali, il governo della Grande Assemblea nazionale turca, proclamato il 3 maggio 1920, si consolidava alla guida della componente turca dell’impero e disponeva di un esercito ogni giorno più agguerrito ed efficiente, grazie anche agli aiuti che riceveva da Francia e Italia in prospettiva antiellenica.

A Parigi i protagonisti della Conferenza di pace avevano abbandonato il campo ai loro collaboratori subito dopo la firma del trattato con la Germania, sottoscritto con clamore a Versailles il 28 giugno 1919: molti considerano quelli il luogo e la data della conclusione della Grande guerra. In realtà i lavori a Parigi continuarono formalmente fino al 21 gennaio 1920. Come sappiamo, l’attività diplomatica relativa alle condizioni di pace dovette poi proseguire ulteriormente, dato che a quella data erano stati firmati solo i trattati con la Germania, l’Austria e la Bulgaria. Il 4 giugno 1920, dopo l’abbattimento del governo bolscevico di Béla Kun a Budapest, fu possibile firmare il trattato del Trianon con l’Ungheria. Per la pace con il sultano si dovette attendere che venisse raggiunto un accordo fra i nuovi presidenti del Consiglio italiano e francese, Nitti e Millerand, Lloyd George, ancora primo ministro britannico, e i rappresentanti del Giappone. A questo scopo fu indetta un’apposita conferenza che si riunì a Sanremo tra il 19 e il 26 aprile 1920. In quella circostanza si stabilì anche l’assegnazione al Regno Unito del mandato sulla Palestina.

Gli Stati Uniti non parteciparono a questa fase delle trattative di pace: il 2 ottobre 1919 Woodrow Wilson era stato colto da ictus, i collaboratori gestivano per suo conto la politica interna del paese. Il nuovo presidente, il repubblicano Warren Harding, entrò in carica il 4 marzo 1921. Pochi giorni dopo, il 19 marzo, il Senato dette il colpo di grazia alla politica estera posta in essere da Woodrow Wilson respingendo la ratifica del trattato di Versailles.

Il 10 agosto 1920 si era giunti intanto alla firma del trattato di pace di Sèvres, a sottoscrivere il quale fu obbligato un governo sultaniale di fatto privato di ogni potere. I firmatari erano Francia, Italia, Regno Unito, Giappone, Grecia e impero ottomano. In attesa delle elezioni presidenziali imminenti, gli Stati Uniti si erano ritratti del tutto dalla gestione del dopoguerra europeo.

La pretesa solipsistica di Woodrow Wilson di guidare da solo il mondo intero verso una stagione di relazioni internazionali radicalmente nuove era naufragata. Lasciava uno strascico di problemi sottovalutati la cui soluzione era stata trascurata per leggerezza, incompetenza diplomatica e speranza fideistica nella capacità della Società delle Nazioni di risolvere qualunque questione venisse ereditata dal passato o potesse sorgere in futuro. L’istituzione internazionale, pur costituita il 10 gennaio 1920, fu ininfluente nel corso del confronto greco-turco.

Riguardo alle possibilità di effettuare un’attività efficace da parte del nuovo organismo, viene riferita una previsione di Winston Churchill relativa all’incisività che avrebbero avuto i suoi interventi nell’impedire lo scoppio di conflitti fra gli Stati. Secondo il brillante e spregiudicato politico britannico al primo accenno di tensione i paesi coinvolti avrebbero ricevuto un telegramma che auspicava l’apertura di una trattativa. Alla notizia di scontri a fuoco un nuovo telegramma avrebbe invitato a scongiurare il ricorso alla violenza. Allo scoppio della guerra avrebbe fatto seguito la richiesta di sospensione immediata delle ostilità. Quando queste fossero proseguite, i paesi in conflitto avrebbero ricevuto un ulteriore telegramma con il quale venivano informati che nel caso non avessero fatto cessare i combattimenti entro ventiquattro ore non avrebbero più ricevuto altri messaggi.

All’epoca della firma del trattato di Sèvres, in Anatolia si combatteva aspramente tra esercito greco, in attacco, e truppe irregolari turche che difendevano il territorio del nuovo Stato ancora in gestazione con tutti i mezzi disponibili. Il 23 aprile, mentre era in corso la conferenza di Sanremo, prima ancora che il governo di Mehmet VI sottoscrivesse il trattato di Sèvres, i resti dell’esercito sultaniale, il cosiddetto «esercito del Califfo», si erano arresi alle truppe di Kemal Atatürk, rendendo l’accordo di pace che si stava per stipulare privo di ogni efficacia pratica, dato che non esisteva lo strumento per farlo rispettare.

Il trattato di Sèvres, in 433 articoli, prevedeva lo smembramento dell’impero ottomano, compresa la stessa Anatolia, che veniva ripartita nelle cosiddette zone di influenza greca, italiana e francese, mentre gli Stretti erano sottoposti a un regime di controllo internazionale. Come abbiamo detto si era trovato spazio anche per uno Stato curdo. Oltre che Smirne e la regione circostante, alla Grecia veniva attribuita anche la Tracia ottomana. All’Italia si confermava inoltre il possesso del Dodecaneso. Come abbiamo visto Regno Unito e Francia si spartivano il Medio Oriente con un gigantesco sistema di mandati e protettorati.

Parigi e Roma si resero presto conto dell’impossibilità di mettere in atto le clausole del trattato relative alla componente anatolica dell’impero ottomano e si ritirarono dalle aree occupate, con l’esclusione di Costantinopoli e della zona degli Stretti, dove si trovavano anche truppe inglesi. In Anatolia rimasero a combattere solo i greci, che mantenevano il controllo di Smirne e di un’ampia zona circostante. Per Eleutherios Venizelos il problema consisteva adesso nel raggiungere un accordo con il governo della Grande Assemblea nazionale turca per ottenere il riconoscimento del possesso territoriale conquistato di fatto e confermato dal trattato di Sèvres, ma non accettato dal vero rappresentante politico dello Stato sorto dalle ceneri della componente turca dell’impero ottomano.

Nell’autunno del 1920 la situazione politica interna in Grecia subì una svolta brusca e imprevista, che modificò in profondità il quadro della situazione. Venizelos governava il paese grazie a una sorta di colpo di Stato, effettuato con il sostegno degli alleati, con il quale re Costantino era stato deposto e sostituito sul trono dal figlio Alessandro. Come detto il giovane sovrano, peraltro poco interessato alla politica e appassionato di vetture sportive, veniva controllato a vista, non era autorizzato a comunicare con il padre ed era privo di ogni potere decisionale. In questo contesto si andavano preparando le elezioni politiche, che Venizelos non poteva rimandare più a lungo, ma che contava di vincere agevolmente, forte della posizione semidittatoriale che occupava in Grecia e dei successi ottenuti in campo internazionale, con le conquiste territoriali ratificate dal trattato di Sèvres e difese dalle truppe greche schierate in Anatolia.

Tutto sembrava indirizzato verso il conseguimento di un ottimo risultato elettorale del suo partito, il Komma Fileleftheron, quando si verificò uno di quei casi che sono capaci di far precipitare una situazione che forse altrimenti si sarebbe mantenuta in equilibrio. Mentre passeggiava nel parco reale di Tatoi, nei pressi di Atene, re Alessandro I venne morso alla gamba da una scimmia, che tentava di dividere dal cane pastore con cui essa aveva ingaggiato una lotta. La ferita si infettò e dopo pochi giorni, il 25 ottobre, il giovane sovrano morì di setticemia. Si aprì allora una crisi istituzionale che Venizelos non fu in grado di controllare. Le elezioni, che avrebbero dovuto certificare il successo della politica espansionistica che aveva portato alle acquisizioni territoriali indicate dal trattato di Sèvres, si trasformarono in un referendum pro o contro re Costantino e la stessa istituzione monarchica, molto radicata in Grecia e sostenuta anche dal grande alleato di Venizelos, il Regno Unito.

Le votazioni per il rinnovo dei membri dell’Assemblea Nazionale si tennero il 14 novembre 1920 e videro il trionfo dei monarchici. Re Costantino poté tornare in Grecia, dove fu accolto trionfalmente e fu lui a presiedere la riunione inaugurale della nuova legislatura e a pronunciare il discorso di apertura, il 5 gennaio dell’anno successivo. Il nuovo regime ereditava i problemi del vecchio, il primo e più grave dei quali era costituito dal dispiegamento dell’intero esercito greco in Anatolia, a due anni dalla fine della Grande guerra. Il malcontento cresceva: i soldati volevano tornare a casa, dopo anni e anni passati sotto le armi, e la popolazione civile si univa alla pressione sul governo per il loro rientro in patria. Fra le ragioni della sconfitta elettorale di Venizelos c’era anche la crisi economica dovuta ai costi della guerra. Il 56 per cento del bilancio dello Stato era destinato alle spese dirette dell’esercito. La necessità di stampare moneta per far fronte alle esigenze della spesa pubblica aveva suscitato una violenta inflazione che aveva fatto aumentare il costo dei generi alimentari del 600 per cento rispetto al 1914.

Il governo monarchico si trovò subito a dover affrontare anche un difficile passaggio diplomatico. Gli alleati avevano infatti convocato a Londra una conferenza internazionale con l’obbiettivo di risolvere le questioni aperte riguardo all’esecuzione del trattato di Sèvres. Per raggiungere questo obbiettivo erano state invitate nella capitale britannica, oltre alla delegazione greca, le due componenti turche, sia quella sultaniale che quella nazionalista di Ankara.

Le posizioni si rivelarono subito molto distanti. Da una parte i rappresentanti del governo presieduto da Kemal Atatürk chiedevano il ritiro da Smirne delle truppe greche e l’ingresso della città e della regione circostante nel nuovo Stato turco. Per parte loro i greci erano disponibili, e solo sotto la pressione esercitata da Lloyd George, a riconoscere tutt’al più l’autonomia di un’amministrazione locale, controllata da Atene e protetta da una consistente presenza militare ellenica.

Questa posizione era fondata su errate convinzioni di natura strategica. I comandanti dell’esercito greco erano sicuri di trovarsi di fronte a non più di 30-35.000 uomini mal equipaggiati, che non avrebbero potuto resistere a un’eventuale offensiva effettuata dai 121.000 soldati ai loro ordini presenti in Anatolia. Un attacco di prova, lanciato in inverno, sembrò confermare l’esistenza di questa situazione di vantaggio sul piano militare, lasciando immaginare ai greci di disporre delle risorse per sviluppare una campagna estiva che, se necessario, avrebbe potuto portare alla conquista della stessa Ankara.

Il governo di Atene riteneva inoltre a ragione, come si sarebbe visto in seguito, che le truppe greche presenti in Anatolia stessero proteggendo oltre al vilayet di Smirne anche la zona degli Stretti, posta sotto controllo internazionale dall’autunno del 1918: il loro allontanamento avrebbe costretto gli alleati, e in particolare i britannici, a schierare nella regione almeno 100.000 uomini, se avessero voluto mantenere l’occupazione degli accessi al Mar Nero. Questo lasciava sperare in un sostegno per lo meno economico da parte del Regno Unito nel caso di ripresa delle aperte ostilità fra Grecia e Turchia.

Intanto la situazione militare evolveva negativamente per la Grecia. In contemporanea alle trattative multilaterali di Londra, il governo di Parigi aveva aperto colloqui bilaterali con quello di Ankara, riconosciuto come vero rappresentante del nuovo Stato turco, in vista di un accordo relativo alla Cilicia, che le era stata assegnata dal trattato di Sèvres e per il cui possesso si era combattuto fino ad allora. L’intento era di giungere a un’intesa per l’abbandono della regione da parte dei francesi. Questo fatto, noto al governo di Atene, lasciava temere che alle truppe turche schierate nell’area orientale dell’Anatolia sarebbe stato consentito a breve di trasferirsi a sostegno di quelle che fronteggiavano i greci.

La prima fase della conferenza di Londra, che sarebbe ripresa solo l’anno successivo, si concluse il 12 marzo 1921 con la consegna alla delegazione di Ankara di una proposta di compromesso, formulata dai greci, ben lontana da quelle che erano state le richieste avanzate dalla Turchia. Il governo di Atene intanto comunicava segretamente a quello britannico l’intenzione di sferrare un’offensiva non appena possibile.

L’attacco fu lanciato il 23 marzo 1921. Nella fase iniziale, l’avanzata greca si rivelò relativamente agevole e consentì di occupare posizioni tali da consentire una ulteriore offensiva, che ebbe luogo all’inizio dell’estate. Una forza complessiva di undici divisioni riuscì, fra il mese di giugno e luglio, ad avanzare lungo la linea ferroviaria Afyonkarahisar-Eskişehir fino a raggiungere le rive del fiume Sakarya, dietro al quale i turchi si erano ritirati per riorganizzarsi.

Il 23 agosto i greci lanciarono un nuovo attacco, che avrebbe dovuto rivelarsi decisivo e permettere di giungere fino ad Ankara e conquistarla, ponendo così fine alla guerra, ma a circa 50 chilometri dalla città furono fermati dai turchi. Dato che le posizioni sulle quali si trovava non erano difendibili per l’eccessiva lunghezza delle linee di collegamento, il 13 settembre l’esercito greco dovette rassegnarsi a ripiegare sulle linee di partenza. Nel corso della manovra fu costretto ad abbandonare ingenti quantità di materiali dato che non disponeva dei mezzi per trasportarli.

La vittoria nella battaglia di Sakarya accrebbe il prestigio dello Stato turco e consentì al governo di Kemal Atatürk di firmare il trattato di Mosca con l’Unione Sovietica e soprattutto quello di Ankara con la Francia. Scompariva così in modo definitivo la pressione militare sul fronte orientale e nello stesso tempo si apriva una nuova possibilità di ottenere rifornimenti per l’esercito, molto provato dai combattimenti, tanto che i greci avevano potuto ritirarsi verso occidente praticamente indisturbati.

L’inverno trascorse senza eventi di rilievo. In primavera gli alleati tentarono una nuova manovra diplomatica, con una ripresa della conferenza di Londra, proponendo la stipula di un armistizio. La Turchia rifiutò. Il 26 agosto 1922 lanciò invece l’esercito in un’offensiva che si rivelò capace di travolgere quello greco. Nella battaglia di Dumlupinar le forze elleniche furono annientate, il generale Nikolaos Trikoupis seppe solo dopo essere stato catturato dal nemico della nomina a comandante in capo del corpo di spedizione greco in Anatolia in sostituzione di Georgios Hatzianestis, destituito a causa della sconfitta.

Il 9 settembre i turchi rientrarono a Smirne. La popolazione greca e armena della città, alla quale si erano aggiunti profughi delle stesse nazionalità provenienti dal circondario e in fuga davanti a quello che percepivano come un nemico, tentò di mettersi al sicuro raggiungendo con i mezzi disponibili le navi alleate che si trovavano in porto e che accolsero quanti profughi fu loro possibile. Non si impegnarono però nel contenere gli eccessi dei vincitori. Molti di quanti non riuscirono a imbarcarsi subirono violenze di ogni tipo. Presto in città si sviluppò un enorme incendio, non si sa se appiccato volontariamente, che distrusse buona parte delle costruzioni dell’antica Smirne, quasi tutte edificate in legno.

Appena un mese dopo, con l’armistizio di Mudanya dell’11 ottobre, veniva ceduto al governo di Ankara il controllo della zona degli Stretti, occupata fino ad allora da truppe inglesi, francesi e italiane. Mentre il Regno Unito si era detto pronto a difendere la posizione combattendo, il disimpegno dichiarato da Parigi e Roma indusse Lloyd George a rinunciare anche al rispetto della parte del trattato di Sèvres che prevedeva l’internazionalizzazione del collegamento navale fra Mediterraneo e Mar Nero.

La crisi internazionale che seguì, con la cessione di fatto degli Stretti al nuovo Stato turco, determinò la caduta del governo presieduto da Lloyd George, solo tra i componenti dei Big Four a essere ancora al potere. Il 19 ottobre 1922 dovette rassegnare le dimissioni da primo ministro, chiudendo così l’esperienza dei governi liberali del Regno Unito. Si ritirò a vita privata e scrisse War Memoirs, le sue memorie di guerra, un testo di oltre duemila pagine nel quale esprime critiche violente nei confronti del vertice militare britannico, ritenuto di notevole interesse per lo studio della Grande guerra. Con la sua uscita di scena lasciava la politica l’ultimo dei grandi protagonisti della Conferenza di pace di Parigi ancora in attività. Erano trascorsi quasi tre anni dalla chiusura ufficiale del consesso internazionale e molte questioni rimanevano aperte.

A Losanna, il 24 luglio 1923, veniva firmato un nuovo trattato di pace con la Turchia, che sostituiva quello di Sèvres per tutto ciò che riguardava l’Anatolia. Esso prevedeva tra l’altro la soluzione del problema delle minoranze etniche presenti in Grecia e Turchia attraverso uno scambio di popolazioni. L’operazione coinvolse circa due milioni di persone, delle quali solo alcune centinaia di migliaia turche. La dimensione relativa dei due Stati, uno molto più grande dell’altro, fece del trasferimento forzato dei greci d’Anatolia in Grecia una vera e propria odissea. Essa segnò la storia del paese, che quasi raddoppiò la popolazione, condizionandone il folklore, le tradizioni musicali, l’architettura e la toponomastica.

Le canzoni tradizionali elleniche devono molto del loro senso di rimpianto e di nostalgia alla memoria delle case abbandonate nelle città della costa anatolica. Le forme dimesse di Atene ricordano il brusco allargamento forzato, in condizioni di emergenza, che la città subì all’arrivo dei profughi nel 1923. Numerose cittadine greche hanno il nome preceduto dal prefisso Nea, nuova, che indica la loro fondazione effettuata da comunità trasferitesi da località dell’Anatolia che portavano lo stesso nome.

La pace di Losanna viene indicata dagli storici come importante momento di transizione: in quell’occasione si abbandona ogni tentativo di tutela dei diritti delle minoranze per accettare il criterio della pulizia etnica, anche se esercitata nella forma soft della espulsione da luoghi abitati per secoli. È il trionfo del nazionalismo, della pretesa di edificare costruzioni politiche omogenee per lingua, etnia, costumi e tradizioni. Anche per religione, che nello scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia divenne elemento qualificante. Pochi anni dopo iniziarono operazioni di ingegneria sociale ancora più sanguinose, con aggressioni di ogni genere contro minoranze che avevano la sola colpa di rappresentare la memoria vivente di epoche di maggiore tolleranza e capacità di convivenza.

Fra i limiti del nuovo trattato di pace spicca la cancellazione dello Stato curdo. La Conferenza di Parigi era così lontana che nessuno ricordava le raccomandazioni espresse dalla commissione King-Crane, insediata per volontà del presidente Woodrow Wilson, che aveva visitato nell’estate del 1919 i territori dell’impero ottomano formulando una serie di raccomandazioni relative alla loro riorganizzazione.

La sconfitta militare subita provocò un terremoto politico in Grecia. Un gruppo di giovani ufficiali, sostenuto da generali di orientamento venizelista, si pose alla testa di alcuni reparti dell’esercito di ritorno dalla Turchia ed effettuò un colpo di Stato, che costrinse re Costantino a una nuova abdicazione, in favore del figlio primogenito Giorgio, e a lasciare per sempre il paese. L’ex re si trasferì in Sicilia, e morì a Palermo l’11 gennaio 1923. Pochi mesi prima, il 12 ottobre 1922, la giunta al potere ad Atene decise l’istituzione di un tribunale militare straordinario al quale affidare il compito di individuare i responsabili della sconfitta in Anatolia e giudicarli. Il processo fu molto breve e si concluse, il 28 novembre 1922, con la condanna a morte, subito seguita della fucilazione, di cinque figure di spicco del governo monarchico e dell’ultimo comandante del corpo di spedizione in Asia Minore, il generale Georgios Hatzianestis. Due altri generali furono condannati al carcere a vita, poi commutato in esilio. Il principe Andrea, fratello del re deposto e ufficiale di grado elevato, assente da Atene al momento del processo, fu giudicato in un procedimento successivo e condannato anche lui all’esilio. Lasciò il paese a bordo dell’incrociatore inglese Calypso. Con il principe si trovava tutta la famiglia, compreso il figlio Filippo, di 18 mesi. Da grande avrebbe sposato la principessa Elisabetta d’Inghilterra, salita al trono del Regno Unito il 6 febbraio 1952 come Elisabetta II, e sarebbe divenuto principe consorte britannico.

La vicenda della Conferenza di pace di Parigi del 1919 ci è ancora prossima.