«But it sufficeth that the day will end, and then the end is known.» Basta che il giorno finisca e la fine è nota, dice Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare. Anche il nostro giorno epocale è terminato e sappiamo bene quale sia stato l’esito della pace stipulata a Parigi nel 1919: la Seconda guerra mondiale.
È ipotesi condivisa da molti storici che i conflitti combattuti tra il 1914 e il 1945 debbano essere considerati unitariamente, sull’esempio della geniale intuizione di Tucidide, che seppe riconoscere la continuità della Guerra del Peloponneso nonostante la sua interruzione di sette anni dovuta alla pace di Nicia e l’apparente ribaltamento di alleanze che essa comportò.
Una pace che non funziona, che non garantisce neppure la propria esistenza, non è una buona pace, questo è sicuro. Semmai ci si può domandare, convocando i se e i ma in un contesto nel quale sono piuttosto malvisti, quale pace potessero stipulare i delegati convenuti a Parigi nel 1919, quali decisioni fossero liberi di prendere i Big Four nella loro appartata semiclandestinità, quasi divinità prigioniere del loro Olimpo.
È il grande problema della storia: chi ne siano gli attori, le masse o i singoli, quale influenza possa avere un uomo, fosse anche Napoleone, sul destino del mondo, quanto esso sia libero e quanto determinato dai fatti contingenti. Questioni che coinvolgono fede e concezioni culturali, meditazione e sensibilità filosofica.
Certo i protagonisti parigini dell’avventura di cui abbiamo raccontato alcuni aspetti non riuscirono a adempiere in modo apprezzabile il compito che si erano voluti assumere.