Dov’è, chiede una voce, mentre si accende la luce. Dove l’avete nascosta?
In vestaglia, la madre scuote la figlia che stenta a svegliarsi. Dimmi dov’è.
Chi? biascica Federica.
Pigiama, capelli elettrici, ci alziamo, con la madre che continua a domandare dove sia la figlia.
Tira giù le coperte di Federica, come se qualcuno ci si potesse nascondere, qualcuno delle dimensioni di Livia. Si china per guardare sotto il letto. Quindi l’armadio, va dritta all’armadio, lo apre, prende a frugare tra i vestiti appesi, anche lì: come se fosse possibile.
Federica chiede se abbia visto nel bagno rosso. Ho cercato dappertutto, risponde. E allora, afferrando la figlia minore per un braccio, schizza fuori dalla stanza ed entra in quella di Livia, dove la lampada rosa accanto al letto disfatto emana una luce tenue. Lo fa apposta, dice la madre, ce l’ha con me.
Federica indietreggia quasi fosse colpa sua, e in effetti la madre se la prende con lei, si volta a guardarla e, come vedendola in una nuova luce, dice: cosa le hai fatto? Supplicando: dimmi dove l’hai messa.
Questi avvenimenti accadono tra le 7.10 e le 7.40 del mattino del 23 ottobre 1988. Ho cercato di essere fedele ai fatti, o almeno al ricordo, essendo passati tanti anni da quel giorno, e non essendomi mai confrontata con Federica in merito all’episodio che sarebbe rimasto tabù. Nei limiti perciò di una ricostruzione a distanza, ho tentato di riportare quello che successe prima che venisse ritrovato il corpo. Perché c’era un corpo, un corpo che, mentre la famiglia si agitava, giaceva nella vegetazione di un rigoglioso giardino.
Ma al momento nessuno sapeva.
Anzi, nella testa della madre passano altre ipotesi quali fuga, rapimento. La figlia maggiore è stata sequestrata, tratta delle bianche, una ragazza del genere... bionda, occhi azzurri.
Dobbiamo chiamare la polizia, dice dal centro del salotto, questione di ore, sai cosa fanno con le ragazze, le portano all’estero. Nascoste nei bagagliai per passare la frontiera.
Il padre annichilito dice: sì. Tanto annichilito lui quanto agitata lei, che non riesce a stare ferma, deve parlare con gli amici di Livia, forse qualcuno sa, qualcuno deve sapere.
Sparisce nel corridoio, per tornare con l’agendina della figlia tra le mani, cercare un nome, alzare la cornetta, comporre il numero, e sentirsi dire dall’altro capo che Massimo è a scuola – è giorno di scuola, già, cognizione del tempo perduta. Chiedere allora se per caso Livia sia lì, se abbia passato la notte da loro, implorare – senza lasciare spazio all’interlocutore di rispondere –, implorare: qualsiasi cosa si sistema, purché torni.
Di tutti è certo la madre la più angosciata. Il padre, testa tra le mani, non riesce a compiere un movimento. Così Federica, in un angolo, a desiderare di sparire – anche lei, solo lei, nella misura in cui passano le ore, della sorella non si hanno notizie, e cresce il senso di colpa, s’ingigantisce, perché non lei al suo posto.
Immaginiamo un uomo incappucciato che nottetempo s’introduce in casa (sebbene non risultino segni di effrazione), immaginiamo quell’uomo intenzionato a sequestrare una delle figlie, e decidersi per la grande semplicemente perché sola in camera. Sono io, la mia presenza, a salvare Federica. D’istinto ci prendiamo per mano. Lei stringe, si aggrappa per non precipitare, dove – sottoterra, botola.
Via via si avvalora l’idea del rapimento. La madre, ragionando ad alta voce, non siamo stati prudenti, dice, dovevamo comprare un’utilitaria. E anche: lei che ogni giorno va dal parrucchiere, per non parlare delle pellicce. Non sono questi tempi di pellicce, gioielli, elenca.
E nell’elenco dei privilegi io penso che nessuno potrà rapire me, ed è un rimpianto. Datemi un diadema, un cigno.
Di nuovo la madre scompare nel corridoio, per riapparire vestita, con indosso la pelliccia (sì, la pelliccia). Andrà a scuola a parlare coi ragazzi, annuncia. Uscendo raccomanda al marito di non muoversi.
Perché?
Potrebbero telefonare.
Difatti qualcuno chiama. Arrivano telefonate a cui il padre risponde con impeto.
(La parrucchiera che ricorda l’appuntamento alla signora, probabile che lo abbia dimenticato. E poi – la telefonata successiva, in questa casa il telefono squilla spesso – il custode della villa al mare che informa di aver trovato una finestra rotta, quella della mansarda, facile sia stato un gabbiano, e il padre insensatamente, disperatamente, lo interpreta come un indizio: la figlia potrebbe essersi nascosta lì, introdotta attraverso la finestra, terzo piano – potrebbe? No che non potrebbe, nessun essere umano potrebbe. Eppure lui, il padre, oltre qualsiasi ragionevolezza, obbliga il custode a ispezionare ogni stanza, ogni angolo, alla ricerca di che? Non volendo dare troppe informazioni, rivelare che Livia non si trova, in cerca di cosa, ingegnere? Controllare se manca qualcosa di valore.)
Frattanto la madre irrompe nel liceo, fa uscire i ragazzi dalle classi (questo la dice lunga su ciò che accadeva nelle scuole in quegli anni, la facilità con cui si entrava, usciva, appariva e scompariva).
Per primo punta Massimo. E come ha fatto con Federica gli muove accuse. Chiede dove abbia nascosto Livia, si sentono tanto furbi loro, tanto grandi. Dicesse subito dove la tiene.
Dalla scomparsa, la figlia ha assunto forme diverse: ora bambola che può essere spostata, ora oggetto piccolo da nascondere in un cassetto, sotto il cuscino.
Cosa avete combinato, continua la madre nel corridoio davanti a ragazzi e professori. Massimo giura di non sentire Livia da settimane, lei gli ha tolto il saluto, tutti possono testimoniarlo, Federica per prima può dire le volte che ha chiamato e Livia si è fatta negare. Sono mesi che lui non sa niente di lei, dove va, chi frequenta, anche se con certezza può dire che esce con gente grande, non di scuola. L’hanno vista entrare in un albergo del centro, chi l’ha vista però non era sicuro al cento per cento che fosse lei. Lei o qualcuno di molto simile.
E in un crescendo di furia: me la pagano. Li ammazzo, giuro che li ammazzo, inducendo la madre a credere che conosca i colpevoli.
Dimmi il nome, implora.
Ma lui si affanna a lanciare minacce a vuoto, a giurare di ritrovarla, ora va a cercarla, mentre gli amici provano a fermarlo. Si divincola, lasciatemi. In maniche di camicia, infila le scale, sparisce.
Dall’altro lato del quartiere, noi. Disorientate, confuse, vergini, bugiarde, una delle due più bugiarda dell’altra. Rientriamo in camera di Livia, dove la lampada è rimasta accesa, il letto sfatto, solo che adesso arriva la luce dalla finestra, giorno.
Frughiamo tra le sue cose in cerca di indizi. Pupazzi – ricordate? Gli spasimanti regalano pupazzi. Vestiti, mutande. Reggiseni di tanti colori, uno rosso. Immaginiamo la notte della vigilia. Immaginiamo la bionda, gesti lenti (è già uscito 9 settimane e 1/2?), immaginiamola coi capelli sciolti, occhi fissi all’uomo sul letto. Buon Natale.
Questo fantasma bellissimo si aggira nella stanza, nel quartiere. Se non la ritrovano, penso, la ricorderemo così. Nuda, anche per chi non l’ha mai vista, io l’ho vista. Nuda, per averla sempre immaginata.
Molto dopo, finalmente al sicuro, molto dopo, a casa, tolgo la maglietta, sfilo il reggiseno, roba elastica da farmacia, evitando di alzare gli occhi allo specchio, anni che non mi guardo. Prendo l’altro reggiseno – se mai qualcuno dovesse perquisirmi, direi: volevo un ricordo, un piccolo ricordo di lei. Lo indosso, fatico col gancio. Eccomi. A destra la coppa è semivuota, a sinistra straripa. Da una parte cotone a riempire, dall’altra mano ad appiattire. Dovrei essere questa – alzo gli occhi –, la ragazza dal seno pari, dal reggiseno rosso. Dalla mano sul cuore. Operatemi.
Ma riavvolgiamo il nastro – in seguito scoprirete che esiste davvero una registrazione –, riavvolgiamo il nastro alla mattina della sparizione.
Il salotto popolato di persone, padre, madre, amici stretti, parenti.
Immaginiamo di contro la piccola folla che presidierebbe casa mia. Raffigurazione di famiglia nel caso di mia scomparsa, crocchio di parenti da parte di madre sfilano nella testa. Zio assicuratore, zia insegnante d’italiano in istituto tecnico. Nel salotto al primo piano di via dei Monti Parioli 49/a, divani beige – vista palazzo di fronte.
Ritorno alla realtà, alla casa dalle grandi vetrate – tetti, cielo.
La madre chiede di cercare una foto di Livia, vuole andare per strada, mostrarla alla gente. Mormora barcollando, subito sostenuta dalla zia. È in questo istante, in questo preciso istante che nota la chiazza sulla moquette.
Cos’è? Si china, tocca.
Se ci fosse un gatto, un cane. Se si potesse dare un senso a questo episodio, che possa essere un indizio – il rapitore per sfregio? La stessa Livia?
E d’un tratto: un gorilla? dice la madre. Se l’avesse presa un gorilla, insiste, mentre i presenti tacciono imbarazzati.
Non c’è risposta, gli eventi incalzano, e a breve nessuno penserà più alla chiazza, chi mai nella notte (ieri non c’era, assicura Imelda), chi mai nella notte si è introdotto in casa a pisciare sulla moquette.
E io estranea, la mano nella tasca a stringere il reggiseno rosso. Devo andarmene, sussurro a Federica.
Rimani, dice lei afferrandomi per il braccio.
So che significa la stretta, tutto quello che significa.
Solitudine, futuro sconosciuto che incombe, quel sovrapporsi, fondersi, sommarsi per formare un unico individuo forte, meno spaurito, leggermente meno, meno di chi. Di me, di te. Delle ragazze della botola, di Livia, di quel che resta di Livia tra i cespugli del giardino al piano terra della palazzina rosa del quartiere signorile.
Dalle vetrate illusione di primavera. Il celeste del cielo, il giallo dei limoni. L’arancione di quella che sembra una farfalla, e invece – mettendo meglio a fuoco, mettiamo a fuoco – è una macchia di insetticida.
La madre si lamenta, prospetta il peggio, questa figlia, dice, come se non ne esistessero altre. Ma poiché esistono, come se quella fosse il frutto migliore. Basterebbe aprire l’armadio rispettivamente di Livia e di Federica per verificare le differenze, toccare con mano quale delle due sia la prediletta.
Il reggiseno nella tasca palpita.
Cuore rosso di tutte noi.
Rianimatosi, il padre annuncia che vuole andare alla polizia, non riesce ad aspettare le ventiquattr’ore. Andare a spiegare che si tratta di un caso particolare, una ragazza speciale che va cercata subito.
La madre scoppia a piangere, ammirevole l’essersi trattenuta tanto, piange e dice che quella figlia l’ha sempre fatta disperare, anche questo, cosa credete, è un dispetto nei suoi confronti (alternato alla teoria del rapimento), Livia vive in competizione con lei, forse perché sono simili – inizia il percorso di identificazione –, quanto sono simili nel carattere e nel fisico, le occasioni in cui Livia le ha rubato i vestiti, hanno la stessa taglia – piange la madre, e sta piangendo se stessa, esiste un momento nella perdita di una persona amata in cui si piange se stessi. Per i noi perduti con lei. La madre piange quando suonano alla porta, e scatta in piedi, nella convinzione che sia tornata.
Pochi secondi per scoprire che non si tratta di Livia, bensì del Generale del piano terra – quello che per noi è il vecchio.
Da qui in poi tutto si svolge confusamente.
Scendiamo le scale dietro alla madre, al padre, agli zii – vago ricordo di affollamento.
Una voce rassicura: sta arrivando l’ambulanza. È morta, dice la madre, ditemi la verità.
Scendiamo, incespichiamo, quasi a perder l’equilibrio, non lo perdiamo, mano alla ringhiera, fino a giù. Sirena in lontananza. Nell’atrio persone nebulose, corpi a ostruirci il passo che ci spingono indietro, la sirena dell’ambulanza più vicina, mentre Federica si dibatte tra le braccia di una figura, urla: lasciatemi. E anche: è mia sorella.
Potevano prendere la sorella minore. Immaginiamo Federica tra i cespugli, immaginiamo una ragazza meno speciale di Livia, altezza nella norma, peso al di sopra della media. Immaginiamo un corpo qualunque tra la vegetazione di un giardino signorile.
Non sarebbe stata forse una perdita minore?
Adesso tuttavia è quel corpo qualunque, con forza inaspettata, che riesce a sgusciare tra la gente, farsi largo a pugni e calci – io dietro, o così mi pare, a questo punto della storia siamo un’unica ragazza forte.
Nell’atrio del palazzo Federica sguscia, s’immette nel giardino, corre, senonché il padre la blocca, impedendole di andare oltre.
E lei, aggrappandosi alle sue spalle, in punta di piedi, affannata, ansimante, lei guarda. Laggiù, tra i cespugli, la madre accasciata su qualcosa, la madre gettata a peso morto su un gatto un cane cosa. Riuscendo a scansare il padre, Federica raggiunge la madre e guarda quello su cui è riversa. Sua sorella, in camicia da notte.
Camicia da notte rosa.