6 marzo menopausa, 20 aprile fine dell’esperienza televisiva di Anita. 28 maggio, tenete a mente questa data, quando sarà primavera inoltrata, e i mandorli inizieranno a sfiorire.
Per adesso siamo all’inizio di aprile, mandorli in fiore, l’amante mi scopa nel bagno di un bar. Non propriamente scopare. Si cala i pantaloni, mi viene in bocca, ti volevo tanto, dice. Comincio ad amarlo. Chissà quando ci rivedremo, la prossima volta ti voglio dentro – detto con sfida del pericolo, come se non fossi una donna in menopausa. Non pensiamoci, viviamo il momento finché si può, finché qualcuno non mi smaschera. Concentrare le energie su sesso e lavoro, questo è il proposito, se non fosse per Livia che manda messaggi, telefona.
M’invita da lei, guardiamoci un film, rimani a dormire. Facciamo l’alba. Era a quindici anni che volevamo fare l’alba come segno di autonomia, di vita adulta che si spalancava davanti?
Sono il suo alibi, se il padre la sa in mia compagnia è tranquillo, si fida.
Oppongo resistenza, la responsabilità vince sulla colpa. Non posso, dico, devo ricercare materiale per il libro. L’idea è quella di creare una cornice alle testimonianze, viaggio nei disturbi alimentari, io che vado a Todi, nel centro che ospita le ragazze. Per il momento accumulo interviste, sento le pazienti al telefono, ci scambiamo mail, col permesso della direttrice. Fisso una data per andare di persona.
Aspetto l’amante fino a notte inoltrata, quando arriva il messaggio: “Ho avuto un problema, ti chiamo domani”.
E dunque, Livia, perdono – dico e ridico, rifiutando gli inviti.
Razionalmente: ho espiato? Non posso farmi carico di questa persona a tempo indeterminato. La durata dell’espiazione la determino io in base a ciò che sento. Sento di aver ripulito la coscienza?
Aprile, fuori primavera, nel vedere il nome di Livia sul telefono decido di non rispondere.
Lei richiama. È fatta così, un animaletto cocciuto. Il criceto dell’infanzia. Quel criceto che, liberato nella stanza, torna a sbattere sulla vetrata.
Poteva sbattere senza sosta.
Su questa associazione rispondo.
Dall’altro lato la voce rotta: vienimi a prendere.
Prima di procedere nel racconto voglio spostarmi dall’altra parte d’Europa. In un volo non proprio d’immaginazione.
Oltre la Francia, oltre il canale della Manica.
Oggi a Londra è una giornata fredda, il cielo grigio minaccia pioggia. Mia figlia sta tornando dall’università. La giacca troppo leggera, l’abitudine di non coprirsi abbastanza. Uscita dalla metropolitana percorre i chilometri che la separano da casa, due chilometri e seicento metri. Cammina spedita, gli anni di danza classica non hanno viziato il passo, niente papera, piuttosto un portamento elegante, che forse sarebbe stato uguale senza i tre anni di danza. Più probabile che sulla postura abbiano influito gli anni di nuoto, cinque, di certo non i due di hip hop. E dunque la ragazza cammina verso casa. Qualche uomo la guarda. Non sempre giovani, cosa che a me madre infastidisce, e la colpa non è della ragazza, poco vistosa, capelli raccolti. La colpa è nello sguardo degli uomini, che se potesse, la madre, esattamente da quello difenderebbe la figlia. In totale contraddizione con altri momenti della vita, vedi le fasi in cui temeva che ingrassasse, diventasse bassa e grassa come lei, che nessuno la volesse. La stessa madre del resto che a volte suggeriva alla figlia di ingrandirsi il seno, altre di diminuirlo. Contro e per quel desiderio che lei stessa fronteggia dall’adolescenza. La lotta personale della madre per e contro l’ardore – cos’erano le diete, quantunque fallite, e gli occhi azzurri? Perché l’autostop di notte nelle località di mare? Due ragazzine, tu e Federica, due ragazzine col pollice proteso nella speranza che si fermasse un maschio, qualcuno. E no, non si fermava nessuno, tranne una volta, ed era una donna. Beata Livia, pensavate allora. Meno dopo l’incidente, assistendo alla trasformazione, la caduta di freni inibitori. Fuoco sempre acceso, lampada che emette luce – lampada solare, o lampada rosa sul comodino di fianco al letto sfatto il giorno che sparisce. Impossibile non ragionare sulla mutazione, l’ingranaggio del cervello inceppato che la mette in connessione diretta con la frenesia sessuale. Simile a quella degli animali, vedendo per strada un cane che tenta d’ingropparsi un altro, il pensiero va a Livia. E tu, madre, distogli lo sguardo. Ancora nell’altalenante rapporto con la passione – rifiuto e slancio. Un fervore che tutt’oggi affronti male, malissimo, nel bulimico prendere, arraffare di amanti (pochi o tanti che siano, conta l’arraffare). Una madre in bilico tra infanzia ed età adulta, questo sei, ferma alla creatura a metà.
Presente, Londra: la figlia cammina quando inizia a piovere, piovigginare, e lei non ha l’ombrello, sicché corre sotto la pensilina del bus. Seduta sulla panchina – precisamente quella, o un’altra poco distante, che la madre ha visto su Google Maps individuandola come il punto dove la figlia, in caso di pioggia, neve, avrebbe potuto ripararsi.
Ecco da cosa la madre vuole proteggerla.
Lasciando la figlia sulla strada di Londra, al riparo, veniamo alla madre che, mani sul volante, guida, lei che non ama guidare.
Ansimando, imprecando, insieme augurandosi che non sia successo niente, perché proprio lei potrebbe essere accusata. Chi ha insegnato a Livia la strada, chi l’ha condotta laggiù – qualcuno testimonierà, e tu sarai responsabile. Se non ci fossi stata tu, diranno. E avranno ragione.
Superata da auto e camion, la colpevole tiene la strada con trepidazione, intimorita da qualsiasi ombra che si manifesti dietro, grande o piccola – dallo specchietto paiono tutte enormi, masse enormi a incombere –, quasi potessero investirla, invece sorpassano. Se non fosse il momento che è, varrebbe la pena segnalare che si tratta della prima volta da sola in autostrada. La volta precedente era con Livia, perché sì, basta una persona di fianco, un essere vivente a tranquillizzarmi – come dormire nella casa nel bosco con mia figlia neonata, come la donna del libro o del film che si suicida col gatto.
Stringendo fortissimo le mani sul volante, vigile, a sprazzi lucida: come ha fatto ad arrivare?
Non è una novità che mi stupisca di certe azioni di Livia. Lei ricorda, dimostrandosi migliore di come uno l’ha creduta, arrivando a instillare il dubbio che stia fingendo. Che questa persona abbia finto per anni? Poi torna l’apprensione, i dubbi risucchiati nel vortice dell’ansia. Immagino il peggio. Livia che si avvicina, Massimo che reagisce. Vattene. Lei che scoppia a piangere, gli si scaraventa contro e prende a battergli i pugni sul petto. Io ti amavo – tra le lacrime. Lui l’allontana, lei torna sotto. Vattene o chiamo la polizia. La strattona, cade.
Nella mia mente Livia cade all’infinito.
Dovevo impedire che lo rivedesse, nessuno in questi anni lo ha permesso, e lei lo avrà chiesto, figuriamoci. Quanto l’avrà chiesto al padre, alla sorella. Pregato, implorato. Tutti a negarglielo, comprendendo il pericolo di un eventuale incontro, tutti tranne me, scriteriata. Barlume di cattiveria, la tua era cattiveria mascherata da bontà.
Una moto mi supera in curva, nel frattempo ho lasciato l’autostrada per imboccare la strada di campagna, fiancheggiata dagli alberi – che siano lecci, abeti, carpini, olmi, pini marittimi, mai saputo distinguere, non conosco i nomi di fiori e piante, vivo in un mondo di glicini. Il mio ex marito diceva: il susino sta ingiallendo, e io guardavo a destra, dalla parte sbagliata del bosco.
La scena che si presenta ai miei occhi già dalla piazza, a molti metri dal negozio, oltre il vetro della porta, la scena è di quiete.
Livia su un divanetto, a ridere buttando indietro la testa. Massimo poggiato al bancone.
Indugio, nascosta nella semioscurità, tardo pomeriggio.
Quando entro, sono pronta a presentarmi come l’amica di Federica, quella grassoccia – per velocizzare l’identificazione.
Massimo si avvicina: sei tu, dice.
E sul momento penso che mi abbia confusa con un’altra.
Ma no, parla a me, si rivolge proprio alla persona che sono diventata, scusandosi di non aver letto il libro, ha comunque seguito la mia carriera, sui giornali, in televisione, un’intervista in cui raccontavo del mio passato difficile, e lui si è dispiaciuto, gli è dispiaciuto scoprire che avessi problemi nel periodo della scuola – pausa, quasi a intendere che se solo avesse saputo avrebbe fatto qualcosa. Il più bello del liceo mi avrebbe consolata.
Nel mentre Livia gioisce: sei arrivata.
E io disorientata, cos’è questo quadretto privo di rabbia, penso. Cosa sono queste persone insieme dopo una vita a fuggirsi e combattersi, seppur non direttamente, attraverso le famiglie.
Passavo da queste parti, si giustifica Livia, mi sono detta: perché non andare a salutare Massimo?
Spaventata dal mio silenzio, cambia tono: sei arrabbiata? Come se fossi il padre, la sorella, facendomi innervosire, con la tentazione di voltarmi e andarmene, lasciarla lì, fatti suoi, del padre e della sorella.
L’avrei riportata io, s’inserisce Massimo.
Sì, segue Livia, è stato gentilissimo, un signore – e sposta lo sguardo su di lui, sorride, vedendo il diciottenne, lei vede il diciottenne.
Eppure Massimo è lontanissimo dall’adolescente che fugge dalla stanza di ospedale, che si eclissa da un giorno all’altro dall’esistenza della femmina non più bionda. Qualcosa da bere? chiede.
Aperitivo! esulta Livia.
Sarà il caso di metterci in macchina se non vogliamo viaggiare di notte, dico. Aggiungendo che il padre ha chiamato me, e io ho mentito, ho detto che stavamo insieme e che l’avrei riportata dopo cena. Vuole farlo preoccupare? Creare inutili allarmismi? chiedo. L’impulso sarebbe prenderla per un braccio, trascinarla via, dovesse opporre resistenza, tirarla per i capelli.
Resisto perché di fronte non ho una persona normale, ma una pazza dalle reazioni imprevedibili, e la mia missione è quella di riportarla a casa salva, per lasciarla al padre, alla sorella, a chicchessia costretto per sangue o lavoro a prendersene cura, e a loro abbandonarla.
Ecco la durata dell’espiazione. Fatemi arrivare rapida al termine, ci sono quasi, l’idea che dopo avrò chiuso i conti. Staccherò il telefono, cambierò numero, sparirò dall’esistenza di queste persone con cui non condivido niente e che niente rappresentano per me.
Arriviamo veloci alla fine.
Se non fosse che Livia lo impedisce. Guarda che cose bellissime, dice allargando le braccia agli oggetti del negozio. Non è stupendo? indicando un comodino. Quindi a Massimo: quanto me lo fai?
Livia, intervengo.
Seriamente, a quanto me lo metti?
Lui tentenna, prova a convincerla a lasciar perdere, lei non demorde, sostenendo che le serve, l’ha cercato tanto, è perfetto per la sua stanza.
(Soffermiamoci su questa donna che parla di stanza e non di casa, riflettiamo su questa cinquantenne che dispone di un unico spazio: la sua camera rimasta intatta da allora. Rosa.)
Quindi, in preda a una furia dimostrativa, fruga nella borsa, tira fuori i soldi – sparsi alla rinfusa, caramelle, fazzoletti sporchi –, cento, duecento, conta. Il padre si assicura sempre che abbia contanti con sé.
Appena credo di averla convinta a partire, lei chiede del bambino, vorrebbe tanto salutarlo, con me che domando: quale bambino. Il figlio di Massimo, risponde lei.
Esiste un bambino.
Spiega di averlo incontrato prima, era passato a trovare il padre. Dovresti vederlo. Devi vederlo, rilancia, forse la scusa per trattenersi oltre. O reale interesse, lei è attratta dai bambini. Per strada li ferma. Come ti chiami? chiede chinandosi, e le madri turbate a scansarli.
A seguito dello scambio sul bambino, a quest’ora a casa, informa Massimo – ci sarà di certo un’altra occasione, promette –, riesco a portarla via. Ci ritroviamo fuori, e d’un tratto comincia a piovere. Ma Livia, piuttosto che ripararsi – in macchina, sotto una pensilina di qualsiasi strada del mondo –, lei si sposta al centro della piazza. È neve, dice. Allarga le braccia, viso rivolto verso l’alto, bocca spalancata a ingoiare pioggia direttamente dal cielo.
Che sia questa l’immagine esatta del ritardo mentale.
Non gli impeti improvvisi. Denudarsi, urlare. Volteggiare, perdere l’equilibrio, nuotare sul tappeto con la ciambella. Non l’errore di misura, inciampare sulle scale credendo lo scalino più basso. L’errore di tempo, dimenticare che tua madre è morta, non ricordare di avere cinquant’anni. Che sia questa la radiografia – altro che cervello sul monitor, agglomerato nero sul lobo sinistro –, la radiografia perfetta del cervello danneggiato.
La trascino per un braccio per portarla al riparo – si accende l’istinto materno. Cos’è del resto questo impeto di protezione, questa lotta spavalda contro le intemperie? Pronte a bagnarci, gelarci, ammalarci, cadere, precipitare, precipitare al posto delle figlie.
Il pensiero ad Anita – in macchina, lungo il viaggio, con Livia che si accoccola su un fianco, chiude gli occhi.
Se ho detto che al quiz si può perdere, e tornare, non ho detto che perdere comporta la caduta nella botola (“La botola ai suoi piedi si apre, facendolo precipitare”, riferito al concorrente – da Wikipedia). È sulla caduta che concentro l’attenzione, andando a cercare dettagli, scoprendo che, in virtù di questa, ci sono vincoli per partecipare al programma, quali età compresa tra i diciotto e i cinquantacinque anni, non pesare oltre cento chili, essere alti meno di due metri, non soffrire/aver sofferto di problemi cardiaci o alla schiena.
Sicuri che Anita abbia il cuore a posto? Ultimo elettrocardiogramma? E la schiena? L’accenno di scoliosi? Manifesto un’apprensione nuova nei confronti di mia figlia, a cui ho lasciato grande libertà fin da piccola. Quanta libertà, al punto che qualcuno mi considerava una madre indifferente. La tata diceva: la porto al parco, poi succedeva che andassi a cercarle, non le trovassi, pazienza. Non mi agitavo. Forse un po’.
Adesso invece, adesso che ha vent’anni, vorrei sapere esattamente dove si trova (Google Maps), al riparo sotto le pensiline, innalziamo pensiline, madri.