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Oriente

Poi venne la prova con i coltelli. Anche in quel caso gli apprendisti si sfidavano sotto gli occhi del Generale dei Mari e di un gruppo di sconosciuti in toga azzurra: altri membri del Clan Miduchi che avevano sostenuto a loro volta le prove dell’acqua ormai cinquant’anni prima. Le persone di cui Tané sperava di seguire le orme, ammesso che il corpo non la tradisse all’ultimo momento.

Teneva gli occhi fissi e sgranati come un pesce. Mentre impugnava i coltelli, le sembrò di avere le mani sudate e maldestre, ma riuscì ad aggiudicarsi il secondo posto dopo Turosa, che doveva all’abilità con i coltelli la propria fama nella Casa di Settentrione.

Turosa aveva appena ottenuto il suo punteggio perfetto quando Onren irruppe nella sala, con i capelli sciolti e arruffati. Il Generale dei Mari si incupì, ma la ragazza si limitò a fargli un inchino e dirigersi spedita verso i coltelli.

Quando, di lì a pochi istanti, anche Kanperu fece la sua comparsa, il generale si accigliò sul serio. Onren impugnò il coltello, assunse la posizione e lo scagliò contro il primo fantoccio al lato opposto della sala.

Tutti i tiri andarono a segno.

«Punteggio perfetto,» commentò il generale «ma non presentatevi mai più in ritardo, onorevole Onren.»

«Sì, onorevole generale.»

Quella notte i guardiani vennero svegliati dai servitori che li scortarono, ancora in vestaglia, fino a una schiera di palanchini. Tané prese posto sul suo, rosicchiandosi le unghie fin quasi a raggiungere la carne viva.

I palanchini li condussero in mezzo al bosco, sulla sponda di un vasto lago sorgivo increspato da goccioline di pioggia.

«Capita spesso che i membri della Guardia dei Mari si debbano alzare in piena notte per proteggere Seiiki. In acqua dobbiamo essere come pesci, perché non sempre avremo a disposizione una barca o il nostro drago» spiegò il generale. «Otto perle danzanti giacciono sotto la superficie di questo lago. Chiunque ne trovi una si mostrerà degno di una valutazione più alta.»

Turosa aveva già iniziato a spogliarsi. Lentamente, Tané si sfilò la vestaglia e si immerse fino al petto.

Ventisei guardiani e otto perle soltanto. Non sarebbe stato facile trovarne una nel buio.

Chiuse gli occhi cercando di non pensarci, quindi, al cenno del generale, si tuffò.

L’acqua la avvolse. Dolce, pulita, fresca sulla pelle. Con i capelli che le fluttuavano attorno simili ad alghe, Tané si girò su se stessa alla disperata ricerca di un bagliore verde-argento.

Onren entrò in acqua senza sollevare neanche uno schizzo. Si immerse, recuperò il tesoro e affiorò in superficie con un unico movimento fluido. Nuotava davvero come un drago.

Decisa a essere la prossima, Tané si spinse più giù. La corrente, ragionò, avrebbe portato le perle verso ovest. Con un’abile giravolta raggiunse il fondale del lago e da qui procedette nuotando solo con le gambe, mentre le mani frugavano nel limo.

Quando ormai stava per mancarle il fiato, le dita incontrarono una pallina dura. Riemerse quasi all’unisono con Turosa, che si scostò i capelli dagli occhi per esaminare la perla appena trovata.

«Perle danzanti, degne dei prescelti» disse. «Un tempo erano simbolo di alto lignaggio, di origini nobili.» Fece un ghigno sprezzante. «Oggi le si vede addosso a tanti di quei plebei che sembrano solo paccottiglia.»

Tané lo fissò dritto negli occhi. «Nuoti bene, onorevole Turosa.»

Il commento parve divertirlo. «Oh, paesanotta. Ti umilierò al punto che non permetteranno mai più a un plebeo di insozzare il Clan Miduchi.» La superò con due bracciate. «Preparati alla sconfitta.»

Raggiunse la sponda del lago, seguito a distanza da Tané.

A quanto si diceva, nella prova finale si sfidavano tra loro gli apprendisti migliori. Tané aveva già combattuto contro Onren, dunque la scelta restava fra Turosa e Dumusa.

Dei due, il primo era disposto a tutto pur di annientarla.

Ornamento di separazione

In una camera della villa del governatore, Niclays trascorreva l’ennesima notte insonne. Il letto era di gran lunga migliore rispetto a quello cui era abituato a Orisima, ma il martellare incessante della pioggia contro le tegole del tetto non gli dava pace. Per non parlare dell’umidità insopportabile, tipica delle estati seiikinesi.

A un certo punto, a notte fonda, si liberò del groviglio sudaticcio di lenzuola e andò ad aprire la finestra. Fuori soffiava una brezzolina calda e densa come brodo, ma da lì almeno poteva vedere le stelle. E riflettere.

Nessun uomo di buon senso credeva davvero nei fantasmi. Secondo alcuni ciarlatani gli spiriti dei morti continuavano a vivere in un elemento chiamato etere, ma erano tutte idiozie. Eppure il mormorio che sentiva nell’orecchio e che lo accusava di essersi comportato da criminale con la musicista poteva essere soltanto Jannart.

I fantasmi erano le voci dei morti che indugiavano in questo mondo. Echi di anime scomparse troppo presto.

Jannart, per salvare la musicista, avrebbe mentito. D’altra parte, lui era bravissimo a raccontare balle. La sua vita era stata quasi tutta una menzogna: trent’anni di bugie a Truyde. A Oscarde.

E, naturalmente, ad Aleidine.

Niclays rabbrividì. Una morsa gelida gli strinse lo stomaco al ricordo dello sguardo della donna durante il funerale. Sapeva. Aveva sempre saputo, e mai detto nulla.

Lei non ha colpa se il mio cuore appartiene a te, gli aveva detto Jannart, e almeno quella volta era stato sincero. Come tante unioni tra nobili, anche il loro era un matrimonio combinato dalle famiglie. L’accordo era stato sancito il giorno del ventesimo compleanno di Jannart, un anno prima che Niclays lo conoscesse.

Non se l’era sentita di andare alla cerimonia, il nodo nei fili dei loro destini era un tormento troppo atroce. Avrebbero potuto stare insieme, se solo fosse arrivato a corte un po’ prima.

Sbuffò. Già, come se il marchese di Zeedeur avesse mai potuto sposare una cenciosa nullità di Rozentun. Aleidine non era nobile, certo, ma la mano che gli aveva concesso era riccamente ingioiellata. Niclays invece, ancora fresco di studi, avrebbe contribuito al patrimonio familiare con nient’altro che debiti.

Aleidine doveva aver superato i sessanta, ormai. I capelli castani striati d’argento, la bocca solcata da rughe. E Oscarde ne aveva minimo quaranta. Per il Santo, come volava il tempo.

La brezza non gli dava alcun conforto. Rassegnato, chiuse l’imposta e tornò a letto.

Si sentiva arrostire. Avrebbe voluto dormire, ma la mente si rifiutava di quietarsi e un dolore sordo gli pulsava alla caviglia.

Il temporale non diede cenno di smettere nemmeno il mattino seguente. Niclays osservò la pioggia inondare i cortili. Per colazione un servo gli portò tofu, cobite grigliato e tisana d’orzo.

Verso mezzogiorno andarono a informarlo che il governatore aveva accettato la proposta: avrebbe fatto visita in carcere a Triam Sulyard e carpito tutte le informazioni che poteva. Gli venne anche fornito un nuovo bastone da passeggio, di legno più leggero e resistente. Quando chiese un po’ d’acqua, i servi gliene portarono una fiasca.

Fu scortato fino al carcere al tramonto, dentro un palanchino coperto. Là, all’asciutto e al sicuro, Niclays sbirciò fuori dal finestrino.

In sette anni non aveva mai messo piede a Capo Hisan. Ne aveva ascoltato la musica e il brusio, visto le luci simili a stelle cadute, e spesso aveva sognato di camminare per le sue strade, ma il capoluogo era sempre rimasto un mistero irraggiungibile. Il mondo, per lui, era racchiuso entro quattro alte mura.

I lampioni illuminavano una città caotica. Venendo da Orisima era abituato a costanti richiami a Mentendon; qui invece ogni dettaglio acuiva la sensazione di lontananza da casa. Nessun insediamento occidentale profumava di incenso e legno di cedro. In nessun insediamento occidentale si potevano comprare inchiostro di seppia o galleggianti da pesca iridescenti.

E, certo, in nessun insediamento occidentale si veneravano i draghi. I segni della loro presenza erano ovunque. Una frotta di mercanti vendeva a ogni angolo amuleti che assicuravano buona sorte e la protezione dei signori del mare e della pioggia. Fuori da quasi tutte le case c’erano un tempietto di legno e una vasca colma d’acqua salata.

Il palanchino si arrestò davanti alla prigione. Gli aprirono la porta e scese, scacciando un moscerino che gli svolazzava davanti alla faccia. Un paio di guardie carcerarie lo guidarono rapide oltre il cancello.

A colpirlo innanzitutto fu l’odore pungente di merda e piscio. Si coprì naso e bocca con una manica. Quando superarono il luogo delle esecuzioni, poi, sentì la forza abbandonargli le gambe: allineate su una pedana c’erano file di teste mozzate e marcescenti, le lingue gonfie simili a vermi ritorti.

Sulyard era stato nascosto nel seminterrato. Stava sdraiato a faccia in giù sul pavimento della cella, con uno straccio intorno alla vita. Le guardie furono così gentili da lasciare a Niclays una lanterna prima di andarsene.

I loro passi rimbombarono nell’oscurità. Niclays si inginocchiò aggrappandosi a una delle sbarre di legno della porta.

«Sulyard.» Bussò a terra con il bastone. «Mi sembri in forma.»

Niente. Niclays infilò il bastone tra le sbarre e diede un colpetto secco al ragazzo, che trasalì.

«Truyde» mormorò.

«Mi spiace deluderti, sono Roos.»

Un attimo di silenzio. «Dottor Roos.» Sulyard si mise a sedere. «Pensavo fosse un sogno.»

«Ti piacerebbe.»

Non aveva una bella cera: la faccia gli era lievitata come pasta nel forno e qualcuno gli aveva scritto straniero sulla fronte. Cosce e schiena erano sporche di sangue rappreso.

Sulyard non aveva nessun principe a proteggerlo dall’altra parte dell’oceano. Forse un tempo Niclays sarebbe rimasto sconvolto da tanta brutalità, ma a Virtudom si usavano metodi perfino più crudeli per estorcere la verità ai detenuti.

«Sulyard,» ripeté «che cosa hai detto all’interrogatorio?»

«Solo la verità» gemette il ragazzo. «Che sono venuto sull’isola per supplicare l’aiuto del Signore della Guerra.»

«Non parlo di quello. Cosa hai detto di come hai raggiunto Orisima?» Niclays si avvicinò alle sbarre. «L’altra donna, quella che hai visto sulla spiaggia… hai raccontato di lei?»

«No.»

Combatté contro l’impulso di prendere quell’imbecille per la gola. Poi però tolse il tappo dalla fiasca e la spinse tra le sbarre.

«Ecco, bevi. La prima donna, invece di denunciarti, ti ha condotto fino alla zona del teatro. È per colpa sua che sei finito a Orisima. Sarai pur in grado di descriverla… viso, vestiti, qualcosa. Bevi, Sulyard.»

Una mano sporca di sangue afferrò la fiasca. «Aveva i capelli scuri e lunghi e una cicatrice sulla guancia sinistra. Una specie di amo da pesca.» Sulyard bevve. «Credo… poteva avere più o meno la mia età, o forse più giovane. Portava i sandali e un mantello grigio sopra una tunica nera.»

«Fornisci queste informazioni ai carcerieri» lo incoraggiò Niclays «in cambio della salvezza. Aiutali a trovarla e forse di risparmieranno.»

«Li ho implorati di ascoltarmi.» Sulyard sembrava perso nel delirio. «Ho detto che mi manda Sua Maestà, che sono un ambasciatore, che la mia nave è affondata. Nessuno mi ha creduto.»

«Non saresti il benvenuto nemmeno se fossi davvero un ambasciatore, e chiaramente non lo sei.» Niclays si guardò alle spalle. Presto le guardie sarebbero tornate a prenderlo. «Ascoltami bene, Sulyard. Mentre le indagini sono in corso, il governatore di Capo Hisan mi manda nella capitale. Porterò io il tuo messaggio al Signore della Guerra.»

Gli occhi del ragazzo si riempirono di lacrime fresche. «Fareste questo per me, dottor Roos?»

«Devi dirmi di più sulla tua missione. Perché credi che Sabran abbia bisogno di allearsi con Seiiki?»

Non era affatto certo di poter mantenere la promessa, ma almeno doveva capire il vero motivo del viaggio del ragazzo. Che cosa lui e Truyde avevano progettato di fare.

«Grazie.» Sulyard si sporse dalle sbarre e strinse le mani di Niclays. «Grazie, dottor Roos. È il Cavaliere di Sodalizio che ci ha fatti incontrare.»

«Sì, come no» tagliò corto Niclays.

Attese. Sulyard, torcendo la mano al vecchio, abbassò il tono di voce fino al più lieve dei sussurri.

«Io e Truyde,» esordì «noi… noi crediamo che il Senza Nome si risveglierà molto presto. Crediamo che non sia mai stata la sopravvivenza della Casata di Berethnet a tenerlo soggiogato. Che comunque vada lui ritornerà, ed è per questo che i suoi servitori si stanno riscuotendo dal sonno. Rispondono alla chiamata.»

Parlando, gli tremavano le labbra. Esternare l’idea che non fosse la Casata di Berethnet a impedire il risveglio del Senza Nome era considerato alto tradimento in tutta Virtudom.

«Cosa te lo fa pensare?» chiese Niclays sbalordito. «Un vate della rovina ti ha spaventato, è così, ragazzo?»

«Non un vate. I libri. I vostri libri, dottor Roos.»

«Miei?»

«Sì. I volumi di alchimia che avete lasciato a palazzo» bisbigliò Sulyard. «Io e Truyde volevamo venire a cercarvi a Orisima. È il Cavaliere di Sodalizio che mi ha condotto da voi. Non lo vedete che si tratta di una missione divina?»

«No, mi dispiace, stupido broccolo.»

«Ma…»

«Credevate davvero che i governanti orientali avrebbero accolto questa folle proposta meglio di Sabran?» Niclays sogghignò. «Volevate attraversare l’Abisso e rischiare la vita… solo perché avete sfogliato un paio di libri sull’alchimia. Libri che gli stessi alchimisti impiegano decenni, se non un’intera vita, a comprendere. Ammesso che ci riescano mai.»

Provò quasi tenerezza per Sulyard e la sua follia. Era giovane ed ebbro d’amore. Il ragazzo doveva essersi convinto di essere come Lord Wulf Glenn, o Sir Antor Dale, gli eroi romantici della storia di Inys, e di dover rendere omaggio alla propria amata correndo incontro alla morte.

«Vi prego, dottor Roos, vi supplico, ascoltatemi. Truyde quei libri li capisce davvero. Anche lei crede in un equilibrio naturale del cosmo, come gli antichi alchimisti» continuava a blaterare Sulyard. «Lei crede nella vostra opera e sostiene di aver trovato un modo per metterla in pratica nel nostro mondo. Nella nostra storia.»

Equilibrio naturale. Si riferiva alle parole incise sulla Tavola di Rumelabar, ormai perduta da tempo; parole che da secoli affascinavano gli alchimisti:

Nell’equilibrio tra il sopra e il sotto,

risiede la precisione dell’universo.

Dalla terra ascende il fuoco, la luce discende dal cielo.

Troppo del primo infiamma il secondo,

e in questo risiede l’estinzione dell’universo.

«Sulyard,» replicò Niclays a denti stretti «nessuno ha mai capito quella maledetta tavola. Sono tutte congetture, pura follia.»

«Nemmeno io ero convinto all’inizio. Non riuscivo ad accettarlo. Ma poi vedere la passione di Truyde…» Sulyard strinse la presa. «È stata lei a spiegarmi che, quando i wyrm perdono il loro fuoco e piombano nel lungo sonno, i draghi orientali diventano più forti. Ora, al contrario, sono questi ultimi a indebolirsi e l’Armata Draconica si risveglia. Non vedete? È un ciclo.»

Niclays osservò a lungo l’espressione solenne del ragazzo. Non era lui l’artefice della missione.

Truyde. Era stata Truyde. Il suo cuore e la sua mente erano il terreno in cui l’idea era germogliata. Com’era simile a suo nonno; l’ossessione che aveva ucciso lui tornava a vivere nel sangue di lei.

«Siete due sciocchi» concluse a mezza voce.

«No.»

«Sì.» Stava perdendo la pazienza. «Perché mai vorreste l’aiuto dei draghi, se a maggior ragione sapete che si stanno indebolendo?»

«Perché sono comunque più forti di noi, dottor Roos. Con loro abbiamo più possibilità che da soli. Se ancora esiste una speranza di vittoria…»

«Sulyard,» lo interruppe in tono più conciliante «fermati. Il Signore della Guerra non darà mai ascolto a queste teorie. Proprio come Sabran.»

«Volevo provarci. Il Cavaliere di C-coraggio insegna ad alzare la voce quando nessun altro osa parlare.» Sulyard scosse il capo, con il viso rigato di lacrime. «Abbiamo sbagliato a sperare, dottor Roos?»

All’improvviso Niclays si sentì esausto. L’uomo che gli stava davanti sarebbe morto invano, lontanissimo da casa. Non restava che una cosa da fare: mentire.

«Certo va detto che commerciano con Mentendon. Forse in fondo potrebbero starci a sentire.» Diede un buffetto sulla mano sudicia che stringeva la sua. «Perdona il cinismo di un uomo anziano, Sulyard. Riconosco la tua passione e sono convinto della tua sincerità. Chiederò udienza al Signore della Guerra e gli esporrò il tuo caso.»

Sulyard si gettò in avanti con uno slancio del gomito. «Dottor Roos…» gemette in preda all’ansia. «Non rischiate che vi uccidano?»

«È un rischio che sono disposto a correre. I Seiikinesi rispettano le mie doti di anatomista, senza contare che sono un legittimo colono» rispose Niclays. «Facciamo un tentativo. Sospetto che alla peggio si faranno una bella risata.»

Le lacrime inondarono gli occhi iniettati di sangue di Sulyard. «Non so come ringraziarvi.»

«Io invece lo so.» Lo afferrò per le spalle. «Provando almeno a salvarti. Quando vengono a prenderti, racconta della donna sulla spiaggia. Giurami che lo farai.»

Sulyard annuì. «Lo giuro.» Quindi stampò un bacio sulla mano di Niclays. «Il Santo vi benedica, dottor Roos. Al suo Desco c’è una sedia che vi aspetta, accanto al Cavaliere di Coraggio.»

«Può tenersela» mugugnò Niclays. Non riusciva a concepire un tormento peggiore di star seduto per il resto dell’eternità insieme a un branco di sbruffoni morti.

Quanto al Santo, avrebbe già avuto il suo bel daffare se intendeva salvare la vita a quel povero disgraziato.

Quando udì le guardie che si avvicinavano, si ritrasse. Sulyard si chinò toccando terra con la fronte.

«Grazie, dottor Roos. Mi avete restituito la speranza.»

«Buona fortuna, Triam il Pazzo» rispose piano Niclays, prima di lasciarsi accompagnare nuovamente sotto la pioggia.

Fuori dai cancelli della prigione lo attendeva un altro palanchino, decisamente meno lussuoso di quello che l’aveva condotto dal governatore. Uno dei quattro nuovi portantini si inchinò al suo cospetto.

«Sapiente dottor Roos,» disse «abbiamo l’ordine di ricondurvi a casa dell’onorevole governatore di Capo Hisan, così potrete riferirgli ciò che avete scoperto. Dopodiché partiremo per Ginura.»

Niclays annuì, morto di stanchezza. Al governatore avrebbe solo detto che lo straniero intendeva identificare una seconda persona che lo aveva aiutato. E poi non si sarebbe più lasciato coinvolgere.

Mentre prendeva posto sul palanchino, Niclays si chiese se avrebbe mai più rivisto Triam Sulyard. Sperava di sì, per il bene di Truyde.

Per il suo, invece, si augurava proprio di no.