Niclays Roos: un cospiratore. E con un piano così perfetto e pericoloso che a volte, da eterno vigliacco qual era, stentava a credere che fosse frutto della sua mente.
Avrebbe preparato l’elisir e si sarebbe comprato il ritorno a casa, oppure sarebbe morto nel tentativo. Cosa in effetti assai probabile. Ma andarsene da Orisima una volta per tutte e infondere nuova vita alla sua grande opera comportava dei rischi. L’unico modo era impadronirsi di ciò che la legge orientale gli aveva sempre negato.
Il sangue di drago gli avrebbe finalmente svelato l’arcano della rigenerazione divina.
E ora sapeva come fare a procurarselo.
La cucina era un turbinio di domestici. «Posso aiutarvi, sapiente dottor Roos?» chiese una di loro, vedendolo comparire sulla soglia.
«Dovrei spedire una lettera.» Prima che l’ultimo barlume di coraggio lo abbandonasse, consegnò la busta alla ragazza. «Deve arrivare all’onorevole Lady Tané, presso la Fortezza dei Fiori di Sale, prima che faccia buio. La porteresti a un corriere?»
«Certo, dottor Roos. Sarà fatto.»
«Non dire nulla su chi la manda» aggiunse Niclays a bassa voce. La domestica, pur con un’espressione diffidente, promise di non farlo e, quando ebbe il denaro per il corriere, se ne andò.
Non restava che aspettare.
Per fortuna poteva ingannare l’attesa leggendo. Eizaru era al mercato e Purumé con i pazienti, dunque Niclays si sentì libero di ritirarsi in camera sua, sistemarsi accanto al gatto ronfante e immergersi nella lettura del suo sgualcito manuale d’alchimia preferito, Il Principe D’Oro.
Nel pomeriggio, voltò le pagine di un nuovo capitolo e dal volume scivolò fuori un frammento di seta finissima.
Gli mancò il respiro. Raccolse il frammento da terra e se lo lisciò tra le dita prima che il gatto potesse affondarci gli artigli. Erano trascorsi anni dall’ultima volta che si era ritrovato per le mani il più grande mistero della sua intera esistenza.
La maggior parte dei libri e dei documenti in suo possesso una volta appartenevano a Jannart, che gli aveva lasciato in eredità, oltre a metà della sua biblioteca, una sfera armillare, un orologio a candela lacustrino e una miriade di altri oggetti interessanti. Della collezione facevano parte molti splendidi volumi, codici illustrati, trattati rarissimi, breviari miniati, ma nulla ossessionava Niclays più di quel piccolo lembo di seta. Non per le frasi in una lingua indecifrabile che vi erano scritte sopra, e nemmeno per la sua manifesta antichità… semplicemente perché, racchiuso in quel pezzetto di stoffa, c’era il mistero per cui Jannart aveva perso la vita.
Aleidine, rimasta vedova, l’aveva donato a Truyde, che aveva reagito alla perdita del nonno sviluppando un attaccamento maniacale ai suoi oggetti. Per anni, la ragazzina aveva tenuto il frammento appeso al collo, ripiegato dentro un medaglione.
Poco prima che Niclays partisse per Inys, Truyde era andata a trovarlo a Brygstad. Indossava una piccola gorgiera, seminascosta dalla cascata di capelli rossi… i capelli di Jannart.
Zio Niclays aveva detto in tono solenne so che stai per andartene. Il mio amato nonno è morto stringendo questo pezzo di carta tra le mani. Ho provato a capire di cosa si tratta, ma alla mia stupida scuola non mi insegnano abbastanza. Quindi aveva aperto la manina guantata. Secondo papà sei un uomo brillante: forse tu riuscirai a decifrare queste scritte.
Appartiene a te, piccola mia aveva detto Niclays, lottando contro il desiderio di prenderlo. La nonna l’ha dato a te.
Penso che in realtà fosse per te. E comunque ho deciso così. Appena capisci che cosa significa, scrivimi.
Ma quella lettera non era mai stata spedita. A giudicare da grafia e materiale, il frammento proveniva di certo dall’antico Oriente, ma quella era l’unica conclusione cui era giunto lo stesso Jannart poco prima della fine. Da allora erano trascorsi anni, eppure Niclays ancora si domandava come mai il suo amato fosse morto stringendo quell’oggetto.
Lo arrotolò con cautela, per poi infilarlo dentro una scatola intagliata, dono di Eizaru. Si asciugò gli occhi, trasse un respiro profondo e riaprì le pagine del Principe d’Oro.
Quella sera, dopo aver cenato con Eizaru e Purumé, Niclays finse di voler andare a letto. Quindi, nel cuore della notte, sgattaiolò fuori da camera sua, si calò in testa un cappello di Eizaru e si avventurò per le strade buie.
Sapeva come raggiungere la spiaggia evitando le guardie. Attraversò rapidamente il mercato notturno, con il capo chino e il bastone stretto in mano.
Le lanterne erano spente, riuscì ad arrivare in spiaggia inosservato. La distesa di sabbia, a parte la donna, era deserta.
Tané Miduchi lo attendeva accanto a una pozza tra le rocce. Il bordo dell’elmo le disegnava un’ombra inquietante sul volto. Niclays preferì sedersi a una certa distanza da lei.
«Mi avete onorato della vostra presenza, Lady Tané.»
Non ripose subito. «Voi parlate seiikinese.»
«Certo.»
«Cosa volete da me?»
«Un favore.»
«Io non vi devo nulla.» La sua voce era bassa e fredda. «Potrei uccidervi seduta stante.»
«Sospettavo che mi avreste minacciato: per questo ho lasciato al dottor Moyaka un biglietto che racconta il vostro crimine.» Una menzogna, ma lei non poteva saperlo. «In casa dormono, ora, ma se non torno in tempo per distruggerlo tutti quanti verranno a sapere ciò che avete fatto. Dubito che il Generale dei Mari vorrà tra i suoi cavalieri una persona che potrebbe aver riportato il morbo rosso a Seiiki.»
«Non avete nemmeno idea di ciò che sarei capace di fare per non perdere quel posto.»
Niclays ridacchiò. «Avete permesso che un uomo innocente e una giovane donna morissero in carcere tra piscio e merda, solo perché la vostra bella cerimonia potesse avere luogo come desideravate» le ricordò. «Quindi, Lady Tané, credo di avere un’idea piuttosto precisa di cosa siete disposta a fare.»
La ragazza rimase in silenzio per un po’. Quindi disse: «Avete detto una giovane donna?».
Ma certo, non poteva saperlo. «So che non vi importa nulla del povero Sulyard,» rispose Niclays «ma sappiate che anche la vostra amica del teatro è stata arrestata. Non oso immaginare con quali metodi abbiano provato a estorcerle il vostro nome.»
«Voi mentite.»
Niclays osservò le labbra tese della donna, l’unica parte del suo viso che riuscisse a scorgere.
«Vi propongo un buon affare» si limitò a dire. «Stanotte ci salutiamo così, e io non dirò niente del vostro coinvolgimento con il forestiero. In cambio del mio silenzio, mi porterete sangue e scaglie del vostro drago.»
La donna fu rapida come un uccello in volo; prima di rendersene conto, Niclays si ritrovò la lama aguzza di un pugnale puntata alla gola.
«Sangue» ripeté Tané in un soffio «e scaglie.»
Le tremavano le mani. Per quanto l’istinto gli gridasse di indietreggiare, Niclays rimase con i piedi radicati al suolo.
«Mi state chiedendo di mutilare un drago. Di profanare la carne di un dio» continuò il cavaliere. Ora riusciva a vederle anche gli occhi, più affilati persino del pugnale. «Le autorità non si limiteranno a decapitarvi, verrete bruciato vivo. L’acqua dentro di voi è troppo sporca per essere purificata.»
«Mi chiedo cosa faranno a voi per i vostri crimini. Aiutare un clandestino. Infrangere un divieto del mare. Mettere in pericolo l’intera Seiiki.» Niclays digrignò i denti sentendo la lama premere sul collo. «Sulyard testimonierà contro di voi; ricorda la vostra faccia nei minimi dettagli, temo, a partire dalla cicatrice. Per ora nessuno gli ha creduto, naturalmente, ma con il mio supporto…»
Tané adesso tremava dalla testa ai piedi.
«E così» disse «siete voi che minacciate me adesso.» Ripose in pugnale. «E non certo per salvare Sulyard. Voi lucrate sulla sofferenza altrui. Siete un servo del Senza Nome.»
«Oh, niente di così eccitante, Lady Tané. Sono solo un povero vecchio che vuole andarsene da quest’isola per poter morire in patria.» Aveva il colletto fradicio di sudore caldo. «Capisco che serva del tempo per ottenere ciò che vi ho domandato. Per quattro giorni a partire da oggi mi recherò su questa spiaggia al tramonto. Se non avete intenzione di venire, vi consiglio di andarvene da Ginura in tutta fretta.»
Fece un profondo inchino e la lasciò lì, sola sotto le stelle.
Il sole sgorgò dal mare come sangue da una ferita. Tané era seduta in punta alla scogliera sulla Baia di Ginura, intenta a scrutare le onde infrangersi in bianchi cristalli contro le rocce sottostanti.
Le pulsava la spalla, nel punto in cui era affondata la spada di Turosa. Bevve un sorso del vino trafugato dalle cucine, lasciando che le bruciasse petto e palato.
Quelle sarebbero state le sue ultime ore come Lady Tané del Clan Miduchi. Aveva ricevuto il titolo da pochi giorni, e già se lo vedeva strappare via.
Si accarezzò la cicatrice sulla guancia, quella che si era procurata salvando la vita di Susa e che era rimasta impressa nella memoria di Sulyard. Non era l’unica: sul fianco recava il segno di un altro taglio, ancora più profondo, che non ricordava di essersi fatta.
Immaginò Susa rinchiusa in carcere. Poi pensò alla richiesta di Roos, e lo stomaco le guizzò come un pesce sulla spiaggia.
Persino imbrattare l’icona di un drago costituiva un reato punibile con la morte. Trafugare sangue e scaglie degli dèi era più di un semplice crimine. Certi pirati usavano il potere della nuvola di fuoco per addormentare i draghi, trascinarli sulle loro navi e depredarli di tutto ciò che potevano rivendere al mercato delle ombre di Kawontay, dal grasso alle zanne. In Oriente non esisteva delitto più grave, e alcuni Signori della Guerra erano passati alla storia per le brutali esecuzioni pubbliche riservate a chi se ne macchiava.
Non avrebbe preso parte a una simile crudeltà. Dopo tutte le battaglie che Nayimathun aveva combattuto durante il Grande Cordoglio, dopo tutte le cicatrici che si era già procurata, Tané non poteva farle una cosa del genere. Qualunque intruglio volesse preparare Niclays con il suo sangue sacro, per Seiiki non si preannunciava nulla di buono.
D’altra parte non poteva rischiare di perdere Susa… l’aveva trascinata lei in quel pantano.
Si grattò il capo tormentandosi i capelli come faceva a volte da bambina, quando le istruttrici la sgridavano e le davano colpetti sulle mani.
Ma no. Non avrebbe ceduto al ricatto di Roos. Si sarebbe costituita al Generale dei Mari, a costo di perdere Nayimathun e il Clan Miduchi. A costo di perdere tutto ciò per cui lottava fin da bambina… ma non solo se lo meritava, era l’unico modo per salvare la sua migliore amica.
«Tané.»
Sollevò lo sguardo.
Nayimathun volava oltre il bordo della scogliera, con la corona pulsante di luce.
«Potente Nayimathun» mormorò Tané.
Il drago inclinò il muso, l’enorme corpo che ondeggiava nel vento, leggero come un foglio di carta. Tané stese le braccia e si inchinò finché la fronte non sfiorò la terra.
«Non sei venuta all’Orfano Afflitto stanotte» disse Nayimathun.
«Perdonami.» Poiché non arrivava a toccare il drago, la ragazza sottolineò a gesti il senso delle proprie parole. «Non possiamo più vederci. Mi dispiace davvero, potente Nayimathun.» La voce le si spezzò come legno marcio sottoposto al minimo sforzo. «C’è una cosa che devo confessare al Generale dei Mari.»
«Vorrei che volassi con me, Tané. Così potremo parlare di ciò che ti affligge.»
«Ti disonorerei.»
«Intendi anche disobbedirmi, figlia della carne?»
I suoi occhi erano cerchi di fuoco ardente, la bocca un rifugio per zanne che non ammettevano replica. Tané non poteva ribellarsi al volere di un dio. L’acqua scorreva nel suo corpo, e tutta l’acqua apparteneva agli dèi.
Per quanto pericoloso, si poteva cavalcare un drago anche senza sella. Si alzò in piedi e si avvicinò al precipizio. Quando Nayimathun piegò il muso per consentirle di aggrapparsi alla criniera, a Tané vennero i brividi, ma piantò comunque uno stivale sul collo della creatura e le si sedette a cavalcioni. Nayimathun si alzò nel cielo, allontanandosi dalla fortezza…
… e si tuffò.
Un fremito percorse la schiena di Tané mentre calavano in picchiata verso il mare. Non riusciva a respirare, vuoi per il panico, vuoi per la gioia, come se qualcuno le avesse preso all’amo il cuore e ora fosse deciso a cavarglielo dalla bocca.
Una cresta di scogli si impennò verso di loro. Il vento le ululava nelle orecchie e un secondo prima di entrare in acqua l’istinto le fece abbassare la testa.
Per poco l’impatto non la disarcionò. L’acqua le riempì naso e bocca. Aveva le cosce doloranti e le dita indolenzite per lo sforzo di reggersi mentre Nayimathun nuotava aggraziata come un’orca, spingendosi con la coda e le possenti zampe piegate. Tané si costrinse ad aprire gli occhi. Sentiva le spalle bruciare del fuoco purificatore che solo il mare era in grado di accendere.
La circondava un vortice di bolle grandi come lune di mare. Nayimathun riemerse, con Tané sempre in groppa.
«Su» chiese il drago «o giù?»
«Su.»
Un flettersi di scaglie e muscoli. Tané si aggrappò con più forza alla criniera. Con un solo balzo vigoroso, Nayimathun si slanciò nel cielo sopra la baia rovesciando una cascata di gocce sulle onde.
Tané si voltò: Ginura era già lontana. Assomigliava a un quadro, insieme finto e reale, un mondo galleggiante in bilico sull’oceano. Si sentiva viva, viva davvero, come se avesse trattenuto il fiato sino a quel momento. Lassù non era più Lady Tané del Clan Miduchi, né qualunque altra persona; la sua identità sfumava nel tramonto, nient’altro che un refolo di vento sopra il mare.
Era così che immaginava la propria morte. Lucenti tartarughe marine avrebbero scortato il suo spirito fino al Palazzo delle Molte Perle, mentre il corpo veniva affidato alle onde. Di lei non sarebbe rimasto altro che semplice spuma.
O almeno, questo se non avesse trasgredito le regole: ai cavalieri era concesso l’eterno riposo insieme ai draghi, mentre lei si era condannata a un’eternità di tormentato vagare per l’oceano.
Sentiva il sangue appesantito dal vino. Nayimathun si librò più in alto, intonando un canto in lingua antica, mentre il respiro del drago e quello dell’umana si trasformavano in nuvole.
Il mare si estendeva sotto di loro a perdita d’occhio. Tané si accoccolò nella criniera per ripararsi dal vento e ammirare la miriade di stelle che si stagliavano luminose come cristalli contro la scura volta celeste senza nubi. Occhi di draghi mai nati. Quando il sonno la vinse, li sognò, un’armata che piombava dal cielo per sconfiggere le ombre. Sognò di essere piccola come una piantina, con rami che nascevano da ogni sua speranza, fino a trasformarla in un albero.
Riaprì gli occhi, fiacca e accaldata, con un dolore sordo che le martellava le tempie.
Le ci volle un attimo per uscire del tutto dalle profondità del sonno. Quando i ricordi la investirono e comprese di trovarsi su una roccia, il freddo la assalì di nuovo.
Rotolò sul fianco. Riusciva a malapena a scorgere la sagoma del suo drago immersa nell’oscurità.
«Dove siamo, Nayimathun?»
Un sibilo di scaglie e roccia.
«Da qualche parte» rimbombò la voce del drago. «Da nessuna parte.»
Erano dentro una grotta scavata dalle maree e sferzata dalle onde. Si infrangevano contro gli scogli, accendendo per un attimo pallide scintille simili ai minuscoli calamari fosforescenti che a volte si spiaggiavano lungo le coste di Capo Hisan.
«Ora dimmi,» disse Nayimathun «in che modo mi avresti disonorata?»
Tané si strinse le ginocchia al petto. Ammesso che dentro di lei fosse rimasta un briciolo di coraggio, non era abbastanza per resistere al volere di un drago.
Parlò a bassa voce, senza omettere nulla. Raccontò quanto era accaduto dal momento della comparsa dello straniero sulla spiaggia, mentre Nayimathun ascoltava in silenzio. Alla fine Tané premette la fronte a terra, in attesa del suo giudizio.
«Alzati» ordinò il drago.
Tané obbedì.
«Ciò che è successo non disonora me» disse la creatura. «Disonora il mondo.»
Tané chinò il capo. Si era ripromessa di non piangere di nuovo.
«So di non meritare il tuo perdono, potente Nayimathun.» Teneva lo sguardo fisso sulle punte degli stivali, cercando di controllare il tremore nella voce. «Andrò dal Generale dei Mari domattina. C-così potrai scegliere un altro cavaliere.»
«No, figlia della carne. Il mio cavaliere sei tu, l’hai giurato in riva al mare. E hai ragione, non meriti il perdono» proseguì Nayimathun «giacché non hai commesso alcun crimine.»
Tané sollevò lo sguardo. «Invece sì, più di uno» disse con voce rotta. «Ho infranto il ritiro. Ho nascosto uno straniero. Ho disobbedito al Grand’Editto.»
«No.» Un sibilo riecheggiò nella caverna. «Ovest o Est, Nord o Sud… il fuoco non fa differenza. La minaccia proviene da sotto, non da lontano.» Il drago si appiattì a terra, in modo da avere gli occhi alla stessa altezza di quelli di Tané. «Hai dato asilo a un ragazzo. Gli hai risparmiato la vita.»
«Non ero mossa da compassione» ammise Tané. «L’ho fatto per…» Un vuoto allo stomaco. «Perché volevo che la mia vita prendesse un certo corso e pensavo che lo straniero l’avrebbe impedito.»
«Questo delude me e disonora te. Ma non è imperdonabile.» Nayimathun inclinò il muso. «Dimmi, piccola mia. Perché l’uomo inysh è venuto a Seiiki?»
«Voleva incontrare lo stimabile Signore della Guerra.» Tané si inumidì le labbra. «Sembrava disperato.»
«Allora lo deve incontrare. E anche l’imperatore dei Dodici Laghi dovrà dargli udienza.» Gli aculei sulla schiena del drago si drizzarono. «La terra tremerà sotto l’oceano. Egli si agita.»
Tané non osò chiedere spiegazioni. «Cosa devo fare, Nayimathun?»
«Non è questa la domanda che devi pormi. Chiedimi piuttosto cosa dobbiamo fare.»