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Oriente

Si erano rifugiati nella solita remota stanza di Palazzo di Brygstad, quella dove rubavano una notte ogni volta che l’Illustre Principe era assente. Le pareti erano ricoperte di arazzi, le finestre appannate dal calore del camino. Era lì che i figli dei re venivano alla luce. Sotto una volta stellata.

Altre notti scappavano insieme fino al Quartiere Vecchio, dove Jannart affittava una camera dalla proprietaria del Sole Splendente, una locanda nota per la sua discrezione che dava ricovero a molti amanti costretti a fuggire dalle leggi del Cavalierato. Alcuni, come lo stesso Jannart, erano intrappolati in matrimoni che non avevano scelto. Altri non erano sposati. Altri ancora amavano persone molto al di sopra o molto al di sotto del loro rango. Tutti amori che secondo le leggi di Virtudom sarebbero costati cari.

Quel giorno Edvart era partito portandosi dietro metà della corte, sua figlia e suo nipote, alla volta della residenza estiva vicino alla Foresta degli Sponsali. Jannart gli aveva promesso che l’avrebbe raggiunto al più presto per cacciare insieme a lui il leggendario Lupo Sangyn, che si aggirava tra i boschi settentrionali di Mentendon.

Niclays non aveva mai capito se Edvart sapesse che tipo di relazione ci fosse fra lui e Jannart. Forse preferiva non vedere. Se la questione fosse diventata di pubblico dominio, l’Illustre Principe non avrebbe avuto scelta: sarebbe stato costretto a bandire Jannart, il suo amico più caro, per aver violato il voto fatto al Cavaliere di Sodalizio.

Un ceppo crollò nel camino. Jannart era sdraiato vicino a Niclays, intento a studiare uno dei molti manoscritti sparpagliati sul tappeto. Negli ultimi anni aveva abbandonato l’arte per dedicarsi esclusivamente allo studio della storia. La disastrosa perdita di conoscenza verificatasi nel corso dell’Era Dolente era un argomento che l’aveva sempre turbato: tutte quelle biblioteche bruciate, gli archivi distrutti, gli antichi edifici andati irrimediabilmente in rovina. Ora che suo figlio Oscarde era grande abbastanza per occuparsi di qualcuna delle tante incombenze del ducato, finalmente poteva trascorrere un po’ di tempo a rammendare la tela della storia.

Niclays era a letto, nudo, e contemplava le stelle dipinte sul soffitto. Qualcuno si era dato un gran daffare per renderle identiche a quelle vere.

«Che cos’hai?»

Jannart non aveva nemmeno bisogno di sollevare lo sguardo per intuire che qualcosa non andava. Niclays sospirò. «Una viverna alla periferia della capitale dovrebbe abbattere anche il tuo, di spirito.»

Tre giorni prima due uomini si erano avventurati in una grotta a ovest di Brygstad, imbattendosi in una viverna addormentata. Era risaputo che le bestie draconiche alla fine dell’Era Dolente avevano trovato riparo nelle caverne di tutto il mondo: battendo il territorio per bene, ne sarebbe saltata fuori una in ogni contea.

La legge del Libero Stato di Mentendon imponeva a chiunque ne vedesse una di lasciarla stare lì dov’era, pena la morte. Serpeggiava il malcelato timore che il risveglio di una singola bestia avrebbe comportato quello di tutte le altre… ma quegli uomini si erano creduti al di sopra della legge. Inebriati dal sogno di diventare cavalieri, avevano sguainato le spade e tentato di uccidere la creatura. Non proprio lieta di quel brutale risveglio, la viverna prima aveva divorato gli aggressori, poi era uscita dalla grotta come una furia. Malgrado fosse ancora troppo intorpidita dal sonno per sputare fuoco, era riuscita comunque a fare a pezzi diversi abitanti dei villaggi vicini prima che un’anima coraggiosa le piantasse una freccia nel cuore.

«Clay,» lo rimproverò Jannart «erano solo due ragazzini arroganti che giocavano a fare gli idioti. Ed farà in modo che non accada mai più.»

«Forse i duchi prendono questo genere di cose alla leggera, ma il mondo è pieno di sciocchi arroganti.» Niclays si versò un bicchiere di vino scuro. «Vicino a Rozentun c’era una miniera abbandonata, hai presente, no? Tra i bimbi del villaggio girava voce che una coccatrice avesse deposto là dentro delle uova d’oro prima di sprofondare nel sonno. Una bambina che conoscevo si ruppe la schiena nel tentativo di arrivarci. Un altro si smarrì nell’oscurità. Non è mai stato ritrovato. Sciocchi arroganti, tutti e due.»

«Mi sorprende che dopo tutti questi anni ci siano ancora dei particolari della tua infanzia che non conosco.» Jannart assunse un’espressione divertita. «E tu? Sei mai andato a caccia di uova d’oro?»

Niclays sbuffò. «Solo a livello metaforico. Sì, un paio di volte mi sono inoltrato per qualche metro nella caverna, ma sai, l’amore della tua vita è sempre stato un codardo, persino da bambino. Temo troppo la morte per andare a cercarla.»

«Be’, non posso che essere grato per il tuo poco fegato. Anche a me fa paura la tua morte, ti confesso.»

«Vorrei ricordarti che sei più vecchio di me di due anni: l’aritmetica è dalla mia.»

Jannart sorrise. «Non parliamo di morte quando c’è ancora tanta vita da vivere.»

Si alzò in piedi, e Niclays si perse nella contemplazione di quel corpo scolpito da decenni di scherma. A cinquant’anni suonati, Jannart era ancora sorprendente come il giorno del loro primo incontro. I capelli, che col tempo si erano scuriti in un ricco granata spruzzato di grigio alle radici, gli scendevano fino alla vita. Niclays non aveva idea di come avesse fatto a ritagliarsi un posto nel cuore di quell’uomo per tutti quegli anni.

«Molto presto voglio fuggire con te alla Laguna del Latte, dove potremo vivere liberi da nomi e titoli.» Jannart gattonò sopra di lui e lo baciò. «E poi di questo passo non c’è dubbio che morirai tu per primo. Forse se la smettessi di tradirmi con il vino di Ed…» Tentò di rubargli la coppa dalle mani.

«Tu hai i tuoi volumi polverosi, io il mio vino» ridacchiò Niclays impedendogli di raggiungerla. «Erano i patti.»

«Capisco.» Jannart si lanciò in un altro attacco giocoso. «E quand’è che avremmo stipulato questi patti?»

«Oggi. Ma forse dormivi.»

Dandosi per vinto, Jannart si lasciò cadere tra le lenzuola accanto a lui, mentre Niclays faceva di tutto per ignorare la fitta di rimorso.

Negli anni, il suo debole per il vino era più volte stato argomento di discussione. Aveva diminuito le dosi e non gli capitava più, come invece accadeva spesso quand’era ragazzo, di perdere frammenti di memoria, ma le mani gli tremavano se restava troppo a lungo senza bere. Di recente Jannart doveva essere troppo esasperato anche solo per tirare fuori l’argomento e a Niclays dispiaceva deludere l’unica persona al mondo che l’avesse mai amato.

Eppure il vino rosso era il suo unico conforto. La sua densa dolcezza riempiva il vuoto che gli si creava nello stomaco alla vista dello spazio nudo sull’anulare, derubato del nodo d’amore. Leniva il dolore provocato dal vivere una menzogna.

«Credi che la Laguna del Latte esista sul serio?» mormorò.

Magari nelle favole e nelle filastrocche. Il paradiso degli amanti.

Jannart cominciò a disegnargli dei cerchiolini attorno all’ombelico. «Sì, naturalmente» rispose. «Grazie alle fonti che ho raccolto, sono sicuro come minimo che esistesse prima dell’Era Dolente. Secondo Ed i soli a sapere dove si trova sono i discendenti della famiglia Nerafriss, che però hanno giurato di rivelarlo solo ai puri di cuore.»

«Allora io non ho speranza. Dovrai andarci da solo.»

«Non ti libererai di me tanto facilmente, Niclays Roos.» Jannart sollevò la testa per strofinare il naso contro il suo. «Anche se non troviamo la Laguna, possiamo andarcene da qualche altra parte.»

«E dove?»

«In un posto a sud, magari. Ovunque il nome del Cavaliere di Sodalizio non significhi nulla» rispose Jannart. «Al di là della Porta di Ungulus si aprono territori inesplorati. Forse addirittura interi continenti.»

«Io non sono certo un esploratore.»

«Chi può dirlo, Clay? Potresti essere tutto ciò che vuoi, non dimenticartelo.» Jannart gli accarezzò la guancia con il pollice. «Se mi fossi convinto di non essere un peccatore, non avrei mai baciato le labbra che volevo baciare. Quelle di un uomo con l’oro di rose tra i capelli, la cui nascita, secondo le leggi di un cavaliere defunto da secoli, lo rendeva indegno del mio amore.»

Niclays si sforzò di non perdersi nell’adorante contemplazione di quegli occhi grigi da Vatten. Persino ora, dopo tanto tempo, la vista di quell’uomo gli toglieva il respiro.

«E Aleidine?» chiese.

Sperò che il suo tono risultasse incuriosito e non acido. Era un argomento delicato per Jannart, diviso ormai da decenni tra la moglie e l’amante, e sempre sottoposto allo sguardo indagatore della corte. Niclays non aveva simili preoccupazioni. Nessuno l’aveva mai obbligato a sposarsi, dunque non l’aveva fatto.

«Ally se la caverà» rispose Jannart, ma una ruga gli si disegnò in fronte. «Sarà la duchessa vedova di Zeedeur, ricca e potente a pieno diritto.»

Jannart era affezionato ad Aleidine. Non aveva mai potuto amarla come una compagna, ma nei trent’anni di matrimonio tra loro si era instaurata una salda amicizia. Lei aveva gestito i suoi affari, dato alla luce suo figlio, amministrato accanto a lui il Ducato di Zeedeur, il tutto senza mai smettere di amarlo incondizionatamente.

Niclays sapeva che, una volta partiti, Jannart avrebbe sentito la sua mancanza. La sua e quella di tutta famiglia che insieme avevano costruito… ma, per come la vedeva lui, a loro aveva già immolato la giovinezza. Ora meritava di trascorrere il resto dei suoi anni con l’uomo che amava davvero.

Niclays gli prese la mano, quella su cui spiccava il nodo d’amore d’argento.

«Partiamo il prima possibile» disse con dolcezza, per distrarlo. «Tutti questi sotterfugi mi stanno facendo invecchiare prima del tempo.»

«L’età ti dona, vecchia volpe.» Jannart lo baciò. «Ce ne andremo presto. Promesso.»

«Quando?»

«Fammi passare ancora un paio d’anni con Truyde. Voglio che abbia qualche ricordo di suo nonno.»

La bimba aveva solo cinque anni, ma già sfogliava maldestramente qualunque tomo Jannart le mettesse tra le mani, con le labbra serrate per la concentrazione. Aveva ereditato i suoi capelli.

«Bugiardo» lo prese in giro Niclays. «Vuoi solo qualcuno che segua le tue orme, dato che Oscarde non ha alcun talento per la pittura.»

Jannart eruppe in una sonora risata. «Potrebbe essere.»

Rimasero così per un po’, tenendosi per mano mentre i raggi del sole riempivano la stanza di luce dorata.

Presto sarebbero stati solo loro due. Niclays continuava a ripetersi che prima o poi sarebbe successo, se lo ripeteva tutti i giorni, anno dopo anno. Ancora uno, al massimo due, finché Truyde non fosse cresciuta un pochino. Allora avrebbero potuto lasciare Virtudom.

Quando Niclays si voltò a guardarlo, Jannart fece uno dei suoi sorrisi maliziosi, quelli che gli increspavano un angolo della bocca. Con l’età gli si formavano anche delle piccole rughe sulla guancia, col solo risultato di renderlo ancora più affascinante. Niclays sollevò il capo per accogliere il bacio, e Jannart gli prese il volto tra le mani come per incorniciare un ritratto. Niclays disegnò una linea sulla tela bianca del suo ventre, facendolo fremere e attirandolo più vicino a sé. E per quanto ormai si conoscessero da una vita, la forza del loro abbraccio parve nuova.

Il tramonto li sorprese aggrovigliati davanti al camino, sudati e insonnoliti. Jannart faceva scivolare i polpastrelli tra i capelli di Niclays.

«Clay» mormorò. «Devo partire per qualche tempo.»

Niclays lo guardò. «Come?»

«Ti sarai chiesto cosa faccio chiuso nel mio studio tutto il giorno, ultimamente» spiegò Jannart. «Qualche settimana fa ho ereditato un frammento di testo da una mia zia che è stata per quarant’anni vicaria di Orisima.»

Niclays sospirò. Quando Jannart si metteva sulle tracce di un enigma, era come un corvo su una carcassa, portato per natura a spolpare fino all’ultimo ossicino. Traeva godimento dalla conoscenza tanto quanto Niclays smaniava per vino e alchimia.

«Dimmi di più» lo incalzò, sforzandosi di mascherare il malumore.

«Il frammento è molto antico. L’ho toccato il meno possibile, per paura che si sgretoli. Stando al diario di mia zia, gliel’aveva affidato un uomo raccomandandosi di portarlo via dall’Oriente ed evitare che ci ritornasse.»

«Quanto mistero.» Niclays gli appoggiò la testa sul braccio. «E perché mai questo dovrebbe portarti lontano da me?»

«Non riesco a decifrare il testo. Voglio andare a vedere se all’Università di Ostendeur c’è qualcuno che conosce quella lingua. Sospetto sia una forma di seiikinese antico, ma i caratteri hanno qualcosa di strano. Alcuni sono più grandi, altri più piccoli, e anche la spaziatura non mi convince.» Aveva lo sguardo perso in lontananza. «C’è un messaggio nascosto, Clay. L’istinto mi dice che si tratta di un frammento di storia fondamentale. Qualcosa di ben più importante rispetto a tutto quanto ho studiato finora. Devo saperne di più. Ho sentito di una biblioteca che potrebbe fare al caso mio.»

«E dove si trova esattamente?» chiese Niclays. «Dentro l’università?»

«No. È… un po’ isolata. Qualche chilometro fuori Wilgastrōm.»

«Oh, Wilgastrōm. Affascinante.» Un borghetto sonnacchioso affacciato sul Lint. Nessuna viverna da quelle parti. «Bene, allora torna presto. Ogni volta che te ne vai, Ed prova a coinvolgermi in battute di caccia o partite di badminton o altri passatempi che comportano intrattenere una conversazione con i cortigiani.»

Jannart lo strinse a sé. «Sopravvivrai.» Il sorriso svanì e per un attimo un’ombra scura gli velò lo sguardo. «Non ti lascerei mai senza motivo, Clay. Te lo giuro.»

«Sarà meglio per te, caro Zeedeur.»

Ornamento di separazione

Esiste un luogo fra il sonno e la veglia, e Niclays ci si trovava intrappolato. Trasalì, e una lacrima gli scese sulla guancia.

Una leggera pioggerellina gli inumidiva il volto e il beccheggiare della nave lo dondolava come un bimbo nella culla. Sagome accucciate attorno a lui, voci indistinte, un’arsura tremenda che gli bruciava la gola.

Alcuni vaghi ricordi gli si affacciarono alla mente. Delle mani lo afferravano. Qualcuno lo costringeva a ingoiare del cibo, a costo di farlo soffocare. Un fazzoletto premuto su naso e bocca.

Raggiunse barcollando il parapetto e vomitò in mare. Tutto intorno, a perdita d’occhio, una distesa di onde verdi e limpide come vetro forestale.

«In nome del Santo…» gracchiò con voce roca. «Acqua» disse in seiikinese. «Vi prego.»

Nessuna risposta.

Poteva essere il tramonto. Oppure l’alba. Il cielo era livido di nuvole tra le quali il sole aveva lasciato uno sbaffo color miele. Niclays si riparò gli occhi dalla pioggia e osservò le vele arancione acceso che incombevano sul vascello, illuminate da una miriade di lanterne. Una nave fantasma avvolta dalla nebbia. Uno dei rapitori gli diede uno schiaffo sulla nuca e abbaiò qualcosa in lacustrino stretto.

«Va bene» bofonchiò Niclays. «Va bene.»

Lo sollevarono per le corde che gli legavano i polsi e lo spinsero in punta di coltello fino a una scaletta. La vista della nave gli fece crollare la mascella e dipanò anche gli ultimi rimasugli di sonnolenza.

Un galeone a nove alberi con lo scafo rinforzato in ferro, lungo almeno il doppio di un Grande dell’Ovest. Niclays non aveva mai visto un’imbarcazione di quelle proporzioni, nemmeno al largo di Inys. Appoggiò il piede nudo sul piolo di legno e cominciò a salire, incitato da urla e fischi.

Era circondato da pirati, senza ombra di dubbio. A giudicare dal verde giada delle onde, dovevano trovarsi sul Mare Lucente, che sfociava nell’Abisso… lo scuro tratto di oceano posto nel centro esatto tra Settentrione, Meridione, Oriente e Occidente. Lo stesso mare che aveva attraversato diretto a Seiiki tanti anni prima.

Lo stesso mare in cui sarebbe morto. I pirati non erano propriamente noti per la loro magnanimità, o il trattamento civile che riservavano ai prigionieri. Era già un miracolo che fosse arrivato fin lì senza ritrovarsi con la gola squarciata.

Una volta in cima, fu strattonato sul ponte. Tutto intorno a lui c’erano uomini e donne orientali, mescolati con cinque o sei meridionali. Alcuni di loro gli scoccarono occhiate sospettose, mentre gli altri lo ignorarono bellamente. La maggior parte aveva parole seiikinesi tatuate sul viso: assassino, ladro, piromane, blasfemo… i crimini per cui erano stati puniti.

Niclays venne legato a uno degli alberi e abbandonato lì a riflettere sulla sua condizione disperata. Quella aveva tutta l’aria di essere la più grande nave mai esistita, il che poteva significare solo una cosa: era caduto nelle mani dei corsari dell’Occhio di Tigre, specializzati nel contrabbando di carne di drago al mercato delle ombre. Anche se, in quanto appartenenti alla categoria, non si facevano mancare molti altri crimini.

Gli avevano confiscato tutto, compreso il frammento che a Jannart era costato la vita… quello che non avrebbe dovuto mai e poi mai fare ritorno in Oriente. Era il solo ricordo di lui che gli fosse rimasto e, dannazione, l’aveva appena perso. Il pensiero gli fece venire le lacrime agli occhi. Ma la sua unica speranza era convincere i pirati di aver bisogno di un vecchio a bordo, e scoppiare in singhiozzi terrorizzati poteva non essere la strategia migliore.

Sembrarono trascorrere mesi prima che qualcuno si avvicinasse. Il sole, a quel punto, splendeva alto nel cielo.

Gli si piantò davanti una donna lacustrina. Aveva le labbra dipinte di nero e in testa, sopra la chioma brizzolata, portava un pesante copricapo con intarsi d’oro dall’aria affilata: ognuno era una piccola opera d’arte. Le pendeva dal fianco una spada dello stesso colore ma due volte più pericolosa. Le rughe che le solcavano il volto suggerivano una vita intera trascorsa sotto il sole.

La circondavano altri sei pirati, tra cui un immenso e baffuto cittadino di Sepul, col petto nudo talmente ricoperto di tatuaggi che non pareva rimasto nemmeno un centimetro di pelle vergine: sul torso tigri giganti intente a smembrare draghi, sulle spalle rivoli di sangue che si mescolavano a schiuma di mare. Una perla al posto del cuore.

Il capitano, perché quella donna non poteva che essere il capitano, indossava una lunga giacca di seta di mare. Al moncherino che aveva al posto del braccio destro era assicurato, tramite legacci di pelle e una gabbia di metallo sulla spalla, un arto di legno completo di gomito, polso e falangi. Per quanto dubitasse della sua utilità in battaglia, Niclays ammirò la modernità del marchingegno, diverso da qualunque protesi avesse mai visto in Occidente.

La donna lo squadrò dall’alto in basso, poi tornò a unirsi alla ciurma, che si aprì al suo passaggio. Il gigante di Sepul slegò le corde di Niclays e lo trascinò fino alla cabina del capitano, alle cui pareti faceva bella mostra di sé una collezione di spade e bandiere insanguinate.

In un angolo c’erano altre due persone. Una donna tarchiata con la pelle scura e lentigginosa e rughe profonde intorno alla bocca, e un uomo pelle e ossa, alto e pallido, dall’aria… antica. La logora tunica di seta color porpora che aveva indosso gli oltrepassava le ginocchia.

Il capitano si spaparanzò sul trono, prese la pipa di legno e bronzo che l’uomo le porgeva e inalò una boccata del suo contenuto, qualunque esso fosse. Scrutò Niclays attraverso la nebbiolina di fumo azzurro, quindi gli si rivolse in lacustrino. Aveva la voce bassa e misurata.

«Il mio equipaggio non è solito fare prigionieri» tradusse in seiikinese la donna con le lentiggini «a parte quando siamo a corto di uomini.» Guardò Niclays con un sopracciglio sollevato. «Tu sei un caso speciale.»

Non era così stolto da aprire bocca senza permesso, dunque si limitò a inclinare il capo. L’interprete attese che il suo capitano ricominciasse a parlare.

«Sei stato trovato sulla spiaggia di Ginura, in possesso di alcuni documenti» continuò la donna. «Uno di essi deriva da un antico manoscritto. Come è giunto fino a te?»

Niclays fece un profondo inchino. «Onorevole capitano,» esordì guardando la Lacustrina «mi è stato lasciato in eredità da un carissimo amico in punto di morte. L’ho portato con me dal Libero Stato di Mentendon fino a Seiiki, nella speranza di capirne il significato.»

Le sue parole vennero tradotte in lacustrino.

«E ci sei riuscito?» fu la replica.

«Non ancora.»

Gli occhi della donna erano schegge di vetro vulcanico.

«Hai custodito questo oggetto come un talismano per decenni e sostieni di non saperne nulla. Affascinante» tradusse l’interprete. «Forse le botte ti rinfrescheranno la memoria. Quando si vomita sangue, spesso vengono fuori anche i segreti.»

Un rivolo di sudore gli corse lungo la schiena.

«Per favore» implorò. «È tutto vero. Abbiate pietà.»

Rispondendo, il capitano non riuscì a trattenere una risata.

«Non sono diventata signora dei pirati mostrando pietà a ladri bugiardi.»

Signora dei pirati.

Non era un capitano qualunque. Quella era la temibile sovrana del Mare Lucente, signora del caos, comandante di una flotta sterminata oltre che di migliaia di uomini. Quella era la Dorata Imperatrice, nemica dell’ordine, che si era affrancata dalla povertà costruendosi un regno tra le onde… un regno al di là delle leggi dei draghi.

«Onorevole Dorata Imperatrice» si prostrò Niclays. «Perdonatemi per la mancanza di rispetto. Non sapevo chi foste.» Il dolore alle ginocchia era intollerabile, ma fece uno sforzo per tenere la fronte incollata a terra. «Portatemi con voi. Vi servirò con la mia esperienza di anatomista, oltre che con tutte le mie conoscenze e la mia più profonda lealtà. Farò tutto ciò che chiedete, ma vi prego, risparmiatemi.»

La Dorata Imperatrice inalò una boccata di fumo. «Ti avrei chiesto il tuo nome se solo avessi mostrato un briciolo di fegato» rispose. «Invece da questo momento in poi sarai Luna di Mare.»

I pirati scoppiarono a ridere. Niclays trasalì. Luna di Mare… era così che a Seiiki chiamavano le meduse. Gelatine invertebrate in balìa delle correnti.

«Dici di essere un anatomista» continuò l’interprete, interrompendosi ogni tanto per ascoltare il capitano. «Il caso vuole che mi serva un medico di bordo. L’ultimo, be’, quella donna si credeva troppo scaltra. Voleva vendicarsi della devastazione del suo villaggio, così mi ha messo il baco d’oro nel vino.» La Dorata Imperatrice tirò di nuovo dalla pipa ed esalò un pennacchio di fumo. «Ma le ho insegnato che l’acqua di mare può essere un veleno altrettanto letale.»

Niclays deglutì.

«Non mi piacciono gli sprechi. Dimostrami di cosa sei capace» concluse la donna «e poi ne riparliamo.»

«Grazie» sputacchiò Niclays. «Grazie, onorevole capitano. Per la vostra misericordia.»

«Questa non è misericordia, Luna di Mare. Si chiamano affari.» Si adagiò sul trono e parlò ancora. «Vedi di essermi fedele» tradusse l’interprete. «Non ci sono seconde possibilità nella Flotta dell’Occhio di Tigre.»

«Capisco.» Niclays chiamò a raccolta tutto il suo coraggio. «Onorevole Dorata Imperatrice, se posso avrei un’ultima domanda.» Lei lo fissava. «Dove si trova il drago che c’era sulla spiaggia?»

«Sottocoperta» fu la risposta. «Gli effetti della Nuvola di Fuoco non dureranno ancora a lungo.» Lo scrutò a fondo. «Ci riparleremo presto, Luna di Mare. Ora ti attende la tua prima operazione.»