59

Oriente

Le assi della Rosa Eterna scricchiolavano sotto l’impeto delle onde. Il maltempo giunto alla seconda settimana di navigazione nel Mare Lucente non accennava a placarsi.

L’acqua si abbatteva contro lo scafo con forza indicibile, mentre l’ululato del vento e il rimbombo dei tuoni inghiottivano le grida dell’equipaggio che lottava contro il fortunale. Chiuso in cabina a occhi serrati, Loth rivolgeva preghiere sommesse al Santo, cercando nel frattempo di reprimere i conati di vomito. All’ennesima ondata, la lanterna appesa sulla sua testa si spense crepitando.

Ora basta. Se proprio doveva morire, almeno non lì dentro. Con mani tremanti si allacciò la fibbia del mantello e arrancò fino alla porta.

«Mio signore, il capitano ci ha ordinato di rimanere in cabina» protestò una delle guardie del corpo.

«Ma il Cavaliere di Coraggio ordina di guardare la morte negli occhi» fu la sua risposta. «E io intendo obbedire.»

Un’audacia che non provava fino in fondo, in verità.

Una volta fuori, la burrasca gli penetrò nei polmoni e il vento gli riempì gli occhi di lacrime. Con gli stivali che scivolavano sulle assi, avanzò fino al centro del ponte e si abbarbicò all’albero maestro, ormai fradicio fino al midollo. I lampi squarciavano il cielo, accecandolo.

«Tornate in cabina, signorino» gli gridò Melaugo, le guance rigate da rivoli di trucco nero. «Volete morire quassù?»

Harlowe stava immobile sul cassero di poppa, la mandibola tesa. Plume teneva il timone. Quando un’onda particolarmente tremenda fece impennare la Rosa, i marinai urlarono. Una rematrice venne scaraventata oltre il parapetto e il boato dei tuoni inghiottì le sue grida, un altro perse la presa e rotolò fino in fondo al ponte. Le vele sbattevano e si gonfiavano, distorcendo l’effigie di Ascalon.

Loth premette la guancia contro l’albero. Se sull’Abisso la nave gli era sembrata solida, ora percepiva tutta la sua fragilità. Era sopravvissuto al morbo, la morte l’aveva guardato con gli occhi di una coccatrice, eppure evidentemente era lì, in quelle acque orientali, che avrebbe incontrato la propria fine.

La Rosa Eterna ripiombò giù tra i flutti che si abbatterono contro la chiglia e inzupparono l’equipaggio. Gli schizzi d’acqua salata arrivavano fin sopra il ponte, mentre la pioggia implacabile martellava le schiene dei marinai. Plume cercava con tutte le sue forze di virare a babordo, ma era come se il vascello vivesse di vita propria.

L’albero maestro cominciava a scheggiarsi: il vento era troppo forte. Loth si avventurò fino al cassero di poppa. Per quanto Harlowe avesse perso il controllo della nave, accanto a lui Loth si sentiva comunque più sicuro. Il capitano si era battuto con un Pirata Nobile nel bel mezzo di un tifone, aveva solcato ogni mare noto all’uomo. Mentre correva per raggiungerlo, Melaugo gli urlò qualcosa che non riuscì a cogliere.

Un’onda sciagurata percosse la nave facendogli perdere l’equilibrio. Bocca e naso gli si riempirono d’acqua: era immerso fino al gomito. Plume tentò di tutto per cavalcarla, ma la Rosa Eterna si ritrovò quasi piegata sul fianco, con l’albero maestro che sfiorava la superficie del mare. Mentre scivolava sul ponte annaspando alla ricerca di un appiglio, la prima cosa che Loth incontrò fu il braccio nerboruto di un carpentiere appeso tenacemente alla grisella.

La Rosa si raddrizzò e il carpentiere mollò la presa, lasciando Loth a tossire e sputacchiare.

«Grazie» gli uscì detto alla fine. L’uomo lo spinse via ansando.

«Terra!» giunse un grido in lontananza. «Terra!»

Harlowe sollevò lo sguardo. Loth si asciugò gli occhi semichiusi per la luce abbagliante dei lampi. Oltre la cortina di pioggia vide il capitano portarsi al viso il cannocchiale.

«Hafrid,» gridò Harlowe «cosa c’è laggiù?»

La cartografa si riparò gli occhi. «Nulla che mi risulti, così a sud.»

«Eppure qualcosa c’è.» Harlowe chiuse di scatto il cannocchiale. «Mastro Plume, facciamo rotta sull’isola.»

«Se è abitata, ci accoglieranno a fil di spada» gridò Plume di rimando.

«Allora la Rosa sopravvivrà e noi moriremo più in fretta che restando qua» latrò Harlowe al timoniere, mentre un lampo gli accendeva le pupille. «Estina, raduna l’equipaggio!»

Il nostromo prese il fischietto d’ottone che portava appeso al collo e ci soffiò dentro. Un trillo acuto sovrastò il vento. Loth rimase abbracciato al parapetto a guardare, in mezzo alle gocce impigliate fra le ciglia, Melaugo che fischiava ordini ai pirati. La ciurma rispondeva a quella bizzarra melodia, arrampicandosi sulle griselle e aggrappandosi alle funi ogni volta che il vascello pareva imbizzarrirsi. Agli occhi di Loth sembrava il caos, eppure in breve tempo l’isola non solo era in vista, ma si avvicinava rapidamente. Troppo rapidamente. Altri fischi: bisognava invertire la rotta.

La Rosa, però, non voleva saperne di rallentare.

Harlowe socchiuse gli occhi, osservando impotente la nave puntare verso terra a velocità folle.

«Non è normale. La marea non è abbastanza forte da trascinarci così.» D’un tratto cambiò espressione. «Finiremo contro la barriera.»

Mentre Loth tentava disperatamente di asciugarsi la faccia, un fulmine si abbatté vicino all’isola, luminoso come un raggio di sole in uno specchio.

«Numidon, cos’è quello?» Plume aguzzò lo sguardo mentre un secondo lampo balenava nel cielo. «Lo vedete, capitano?»

«Sì.»

«Qualcuno ci sta facendo dei segnali.» Melaugo si aggrappò a una cima. «Capitano?»

Tenendosi saldo al parapetto, Harlowe scrutava verso il profilo dell’isola che si stagliava contro le lame di luce.

«Diciassette braccia di profondità, signore» urlò l’addetto allo scandaglio. «Siamo circondati dalla barriera corallina.»

Melaugo si affacciò a controllare. «La vedo, è dappertutto. Che la Donzella abbia pietà di noi» commentò tenendosi la tesa del cappello. «Capitano, sembra che la Rosa conosca la strada. Evita gli scogli per il rotto delle vele.»

Harlowe osservava l’isola impassibile. Loth studiò il volto del capitano alla disperata ricerca di un segno di speranza.

«Ordine annullato» disse Harlowe alla fine. «Gettare l’ancora e ammainare le vele.»

«Non possiamo fermarci adesso!» gridò Plume.

«Dobbiamo provarci. Se si incaglia, la Rosa è finita. Non posso permetterlo.»

«Ma potremmo evitarlo! Forse, sfidando la tempesta…»

«Anche se riuscissimo in qualche modo a virare tra la barriera, verremmo spinti a sud e ci areneremmo appena il tempo si placherà» ringhiò Harlowe. «Vuoi morire così, mastro Plume?»

Melaugo rivolse al timoniere un’occhiata impotente prima di trasmettere il nuovo ordine alla ciurma. Le funi vennero tirate e le vele riavvolte; i marinai dovettero arrampicarsi sui pennoni e fissarle a mani nude. Uno di loro fu spinto via e si schiantò sul ponte. Ossa frantumate. Sangue misto a spuma di mare. Con una calma che aveva qualcosa d’incredibile, Harlowe scese dal cassero di poppa e prese il timone dalle mani di Plume.

Loth rimase dov’era. Le sue sensazioni si esaurivano nel sapore del sale, nel bruciore dietro le palpebre. Quando la prima ancora fece presa sul fondale, gli parve che il contraccolpo gli sparpagliasse tutti gli organi.

Fu gettata la seconda ancora, poi la terza. Il vascello non rallentava. L’addetto allo scandaglio teneva il conto delle braccia. Loth osservò senza fiato l’incedere della nave incurante degli ormeggi.

Lampi e tuoni imperversavano in cielo. Anche l’ultima ancora scomparve tra le onde, ma ormai il fondale era vicino, troppo vicino per evitare l’inevitabile. Harlowe stringeva accanito il timone con le nocche sbiancate.

La scelta era tra la riva e la barriera corallina; Loth comprese dall’espressione del capitano che Harlowe non avrebbe mai rischiato di distruggere la Rosa facendola schiantare contro la barriera.

Il fischietto di Melaugo risuonò come una carica di cavalleria. Ogni uomo sulla nave abbandonò quel che stava facendo e si aggrappò al primo appiglio a portata di mano.

Il vascello prese a tremare. Loth strinse i denti, convinto che da un momento all’altro lo scafo sarebbe esploso. Le scosse parvero durare un’eternità… quindi di punto in bianco la Rosa Eterna si immobilizzò e, a parte il martellare incessante della pioggia, tutto fu silenzio.

«Sei braccia» disse con un filo di voce l’addetto allo scandaglio.

Un’ovazione si levò dalla ciurma. Loth puntò le gambe malferme e raggiunse Melaugo al parapetto. Vedendo che le onde continuavano a lambire la chiglia, si prese il volto tra le mani ed eruppe in una risata incontenibile. Anche Melaugo incrociò le braccia, concedendosi un ghigno.

«Ebbene, signorino, siete sopravvissuto al vostro primo fortunale.»

«Ma come ha fatto a fermarsi?» Loth fissava lo scafo ancora integro e immerso nell’acqua. «Andavamo velocissimi…»

«Ah, non me ne frega un cazzo di come ha fatto. Consideratelo un miracolo… del vostro Santo, se vi fa piacere.»

L’unico restio ad abbandonarsi all’esultanza era Harlowe, che osservava l’isola con aria preoccupata.

«Signore,» lo interpellò Melaugo quando se ne accorse «cosa succede?»

Non distoglieva lo sguardo dalla riva. «In tutti questi anni per mare» disse «non ho mai visto una nave fare quel che ha appena fatto la Rosa. Come se un dio volesse condurla in salvo.»

Melaugo non sapeva cosa dire, dunque si calcò in testa il cappello fradicio.

«Trova della polvere da sparo asciutta e allerta gli esploratori» le ordinò Harlowe. «Una volta ricomposto il corpo di mastro Lark, avremo bisogno di cibo e acqua. Guiderò una pattuglia a riva. Tutti gli altri, compresa la delegazione inysh, staranno a bordo a riparare i danni.»

«Vorrei venire con voi, se posso» intervenne Loth. «Perdonatemi, capitano Harlowe, ma credo che questa esperienza mi abbia privato di buona parte del mio spirito marinaresco. Mi sentirei più utile sulla terraferma.»

«Capisco.» Harlowe lo squadrò dall’alto in basso. «Siete un cacciatore, Lord Arteloth?»

«Sì, a Inys cacciavo spesso.»

«A corte, presumo. Con arco e frecce.»

«Esatto.»

«Be’ qui non disponiamo di archi, temo,» concluse Harlowe «ma vi insegneremo a maneggiare una pistola.» Allontanandosi, gli assestò una decisa pacca sulla spalla. «Farò di voi un buon pirata.»

Ornamento di separazione

La Rosa Eterna era ormeggiata con le vele ammainate, eppure il vento la sballottava ancora da una parte all’altra. Loth salì su una scialuppa insieme a due Cavalieri Protettori, che si erano rifiutati di prendere le pistole: in combattimento avevano bisogno solo di una cosa: la spada.

Loth, al contrario, teneva stretta la sua arma da fuoco. Melaugo gli aveva insegnato a caricarla e sparare.

La pioggia agitava le onde intorno alle barche. Remarono sotto un arco di roccia verso una serie di colline scoscese che digradavano fino alla spiaggia. Quando furono più vicini alla costa, Harlowe allungò il cannocchiale.

«Gente sulla spiaggia» mormorò.

Rivolse qualche parola incomprensibile a un’artigliera. La donna prese il cannocchiale e lo puntò verso la riva.

«Potrebbe essere l’Isola delle Piume, il luogo sacro dove sono custoditi i più preziosi documenti d’Oriente» tradusse Harlowe. «I savi sono gli unici a poterci mettere piede, e loro non saranno bene armati.»

«Sono ancora vincolati alle leggi orientali.» Melaugo armò la pistola. «Per loro non siamo corsari, Harlowe. Siamo pirati untori di morbo rosso. Come chiunque solchi queste acque.»

«Forse loro non aderiscono all’embargo.» Harlowe lanciò un’occhiata torva al nostromo. «Hai un’idea migliore, Estina?»

L’artigliera le fece cenno di abbassare la pistola. Melaugo, con una smorfia insofferente, obbedì.

Ad attenderli sulla spiaggia c’erano tre persone: due uomini e una donna in tuniche color granata, che li osservavano circospetti.

Dietro di loro giaceva una forma che Loth all’inizio scambiò per il relitto di una nave. Quindi si accorse che si trattava dello scheletro di una bestia enorme.

Occupava quasi tutta la spiaggia. Qualunque cosa fosse morta in quel luogo, era ben più grande di una balena. Ora non rimanevano che ossa spolpate, iridescenti sotto la luce lunare.

Loth balzò giù dalla scialuppa e aiutò gli altri a tirarla in secca asciugandosi gli occhi dall’acqua salata. Harlowe raggiunse gli stranieri e si inchinò. Risposero al saluto. Il capitano si intrattenne con loro per qualche minuto prima di tornare dai suoi.

«I savi dell’Isola delle Piume ci offriranno riparo finché la tempesta non si sarà placata, e ci permetteranno di fare scorta d’acqua. Nei loro alloggi c’è posto solo per quaranta di noi, gli altri dormiranno nei magazzini.» Harlowe era costretto a gridare per sovrastare il fischio del vento. «Tutto questo a condizione che nessun’arma sia introdotta sull’isola, e che nessun residente venga sfiorato. Temono il contagio del morbo.»

«Per le armi è un po’ tardi» commentò Melaugo.

«Non mi convince, Harlowe» gridò un Cavaliere Protettore. «Io dico di rimanere sulla Rosa

«E io no.»

«Perché?»

Harlowe gli rivolse un’occhiata gelida con una punta di disprezzo. Così, in mezzo all’infuriare della bufera, assomigliava a una spaventosa divinità marina.

«Avevo programmato di fare provviste a Kawontay» disse «ma ora che il temporale ci ha portati fuori rotta moriremo di fame prima di arrivarci. E l’acqua è quasi tutta imbevibile.» Rimosse due coltelli da caccia dai foderi. «Con questo mare i miei uomini non riusciranno a dormire, e a me servono in forze. Ovviamente ne lascerò un paio a bordo a fare la guardia… e se altri vogliono rimanere sulla Rosa, si accomodino. Vediamo quanto piscio dovranno bere prima di cambiare idea.»

Detto questo, Harlowe tornò dagli stranieri e gettò coltelli e pistola sulla sabbia ai loro piedi. Con uno schiocco di lingua, Melaugo si estrasse dalle tasche un intero arsenale. I Cavalieri Protettori appoggiarono a terra le loro spade con la cura che un padre riserverebbe a un figlio appena nato. Anche Loth consegnò pistola e pugnali, sotto lo sguardo muto dei savi. Una volta che furono tutti disarmati, uno degli uomini si avviò verso le colline e il gruppo di esploratori lo seguì.

L’Isola delle Piume incombeva su di loro. La luce dei lampi rivelava a intermittenza gole minacciose coperte di vegetazione, che raggiungevano profondità mozzafiato. Il savio li condusse attraverso la spiaggia fino a un altro arco di roccia da cui partiva una scala intagliata nella scogliera. Loth piegò il collo sforzandosi invano di scorgerne la fine.

Ci volle parecchio tempo per arrivare in cima con il vento sferzante e la pioggia che inzuppava gli stivali rendendo ogni gradino un pericolo mortale. Loth salì l’ultimo con la consapevolezza che le ginocchia stavano per abbandonarlo.

Seguirono il savio sull’erba sotto le fronde gocciolanti degli alberi fino a un sentiero illuminato da lanterne. Davanti ai loro occhi, in cima a una piattaforma, comparve una casa con i muri bianchi e il tetto ricoperto di tegole poggiato su pilastri di legno. Era diversa da qualsiasi abitazione Loth avesse mai visto. Un savio aprì le porte e prima di entrare si tolse le scarpe, imitato dai nuovi venuti. Loth seguì Harlowe nell’atrio fresco.

Le pareti erano spoglie. Per terra, al posto dei tappeti, erano stese stuoie profumate e in centro alla stanza era scavato un focolare circondato da cuscini quadrati. Il savio si rivolse nuovamente al capitano.

«Noi staremo qui. I magazzini sono poco distanti.» Harlowe osservò la stanza. «Appena il maltempo si placa, vedrò di convincere i savi a darci qualche sacco di miglio. Il minimo indispensabile per arrivare a Kawontay.»

«Ma non abbiamo nulla con cui ripagarli» fece notare Loth. «E il miglio potrebbe servire a loro.»

«Con questa mentalità non diventerete mai un marinaio, mio signore.»

«Non voglio diventare un marinaio.»

«Ovviamente.»

Ornamento di separazione

Era l’ora più buia della notte. Affacciata alla finestra del sanatorio, Tané osservava la nave inysh.

«Se ne andranno tra un paio di giorni.» Vara discuteva a mezza voce con gli altri Anziani. «Presto la burrasca finirà.»

«Ma, Vara, daranno fondo alle provviste» puntualizzò l’onorevole Sommo Anziano in tono stizzito. «Sono centinaia. I frutti dell’isola ci basteranno per un po’, ma se prendono il riso e il miglio…»

«Sono pirati» si intromise un altro Anziano. «Non faranno parte della Flotta dell’Occhio di Tigre, ma in queste acque non ci sono che pirati. Certo che prenderanno il nostro cibo… con la forza, se necessario.»

«Non sono pirati.» L’Anziano Vara cercava di farli ragionare. «Il capitano dice che servono la regina Sabran di Inys. Sono diretti all’Impero dei Dodici Laghi. Sono convinto che, in nome della pace, sia meglio aiutarli a raggiungere la meta.»

«Mettendo a repentaglio la vita dei nostri» sibilò il primo Anziano. «E se avessero il morbo rosso?»

Tané ascoltava distrattamente. Non staccava lo sguardo dal mare in tempesta.

La gemma azzurra giaceva al sicuro nella sua prigione: la portava appesa alla cintura, in una scatolina impermeabile che aveva sempre a portata di mano.

«Sei un povero idiota» strepitò il Sommo Anziano, riportando l’attenzione di Tané dentro la stanza. «Non avresti mai dovuto offrire riparo a quella gente. Siamo in terra sacra.»

«Dovremmo mostrare un minino di compassione, Anziano…»

«Vai a parlare di compassione a quelli che hanno perso la vita o la famiglia quando il morbo rosso ha raggiunto le coste dell’Est» sbottò l’altro. «A tuo rischio e pericolo!»

Quindi saettò fuori, salutando Tané con un brusco cenno del capo. Gli altri Anziani lo seguirono, mentre Vara rimase a massaggiarsi le tempie doloranti.

«Sull’isola non c’è nemmeno un’arma?» chiese Tané.

«C’è qualcosa sotto il pavimento della mensa, da usare in caso di invasione. In una simile circostanza, gli Anziani starebbero a guardia degli archivi e i giovani combatterebbero.»

«Teniamole sempre vicine. Quasi tutti i savi hanno ricevuto un addestramento militare» disse Tané. «Se i pirati provano a rapinarci, dobbiamo farci trovare pronti.»

«Non ho alcuna intenzione di scatenare il panico tra gli allievi, bambina. Gli stranieri rimarranno nel villaggio sulle scogliere. Non possono raggiungerci qui, siamo troppo in alto.» Le rivolse un sorriso. «Oggi mi sei stata di grande aiuto, ma ormai è notte inoltrata. Meriti di riposare.»

«Non sono stanca.»

«La tua faccia dice il contrario.»

Era vero: sudava freddo e aveva gli occhi cerchiati. Tané si inchinò e uscì dal sanatorio.

I corridoi erano deserti. La maggior parte dei savi non sapeva nulla dei pirati e dormiva sonni tranquilli. Tané camminava con una mano sulla cintura, proprio sopra la scatola.

Le era bastato poco per capire come funzionava la pietra. Ogni sera, dopo cena ma prima della meditazione, saliva sulla cima del vulcano dormiente, fermandosi accanto al cratere pieno d’acqua piovana per entrare in armonia con le vibrazioni della gemma. Un istinto sepolto dentro di lei le aveva suggerito come governare quelle vibrazioni, quasi l’avesse già fatto molto tempo prima e il suo corpo dovesse solo riacquisirne memoria.

Inizialmente aveva usato il gioiello per increspare la superficie dell’acqua. Poi aveva costruito una farfalla di carta ed era riuscita a farla scivolare via sulla corrente. A quel punto, col favore della notte, era sgattaiolata fino in spiaggia.

C’erano voluti giorni per attirare le onde: le maree seguivano i loro percorsi.

Una volta, a Capo Hisan, Tané aveva visto una ricamatrice al lavoro. L’ago entrava e usciva lasciandosi dietro scie di colori sulla seta. Ispirata da quel ricordo, aveva immaginato il potere della gemma come un ago, l’acqua come un filo, e se stessa come una ricamatrice del mare. Lentamente, le onde si erano inclinate verso di lei fino ad avvolgerle le gambe.

Alla fine, una notte in cui la gemma le splendeva tra le dita come un lampo, Tané era riuscita a trascinare il mare sulla spiaggia fino a far scomparire tutta la sabbia. Prima di svanire, l’alta marea aveva fatto in tempo a sconvolgere i savi.

Quello sforzo le aveva prosciugato le energie, ma almeno ora sapeva di cosa erano capaci lei e la gemma.

Appena notata la nave occidentale in balia dei flutti, era corsa alla scogliera. Il grande Kwiriki le aveva concesso un’opportunità che lei, finalmente, era pronta a cogliere.

Questa volta il mare aveva subito risposto al suo volere. Malgrado la resistenza del vascello, era riuscita a farlo passare incolume oltre la barriera corallina. E ora giaceva laggiù, nell’acqua bassa, quasi incustodito.

Era giunto il momento della fuga, aveva perso fin troppo tempo laggiù. Adesso sapeva esattamente dove andare: all’isola del gelso, dove faceva rotta la nave su cui la Dorata Imperatrice aveva imprigionato Nayimathun.

Tané si agganciò alla cintura una fiasca di acqua dolce, dopodiché attraversò la mensa deserta. Le armi erano nascoste sotto le assi del pavimento, proprio come aveva detto l’Anziano Vara. Si assicurò in vita i coltelli da lancio, quindi scelse un pugnale e una spada seiikinese.

«Immaginavo che ti avrei trovata qui.»

Si immobilizzò.

«Sapevo che avresti provato a scappare. L’ho letto nei tuoi occhi mentre ti raccontavo della Flotta dell’Occhio di Tigre.» L’Anziano Vara parlava a bassa voce. «Non puoi governare quella nave da sola, Tané. Serve un equipaggio di centinaia di uomini.»

«Oppure questa.»

Aprì la scatolina e gli mostrò la pietra, per il momento opaca. Vara la fissò. «La gemma crescente di Neporo» mormorò ammirato. «In tutti questi anni, non avrei mai creduto…»

Non riuscì a concludere la frase. «Era cucita dentro di me» disse piano Tané. «L’ho avuta dentro il mio corpo per tutta la vita.»

«Per la luce del grande Kwiriki. Da secoli l’Isola delle Piume custodisce la mappa celeste che porta a Komoridu, dimora della gemma crescente» mormorò Vara. «A quanto pare la pietra non è mai stata laggiù.»

«Tu sai dove si trova l’isola, Anziano Vara?» Tané scattò in piedi. «Ho intenzione di setacciare i mari alla ricerca della Dorata Imperatrice, ma conoscere la sua rotta renderebbe le cose molto più facili.»

«Tané» rispose Vara «non andare. Anche se riuscissi a trovare la Flotta dell’Occhio di Tigre non hai la certezza che la potente Nayimathun sia ancora viva. E anche se lo fosse, non potresti liberarla combattendo da sola contro l’esercito dei pirati. Moriresti.»

«Devo provare.» Tané fece un sorriso stanco. «Come la Bambina Ombra. Quella storia mi ha fatto riflettere, Anziano Vara.»

Tané si accorse che il vecchio era combattuto.

«Capisco» disse alla fine. «Miduchi Tané è morta il giorno in cui il suo drago è stato rapito. Da allora, non sei stata altro che il suo fantasma. Un fantasma assetato di vendetta… irrequieto, incapace di voltare pagina.»

Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime.

«Se fossi più giovane o più coraggioso, forse verrei con te.» Quindi aggiunse: «Anch’io per il mio drago avrei rischiato ogni cosa».

Tané lo fissò incredula.

«Eri un cavaliere?»

«Può darsi che tu abbia sentito il mio nome. Molti anni fa, mi chiamavano Principe della Risacca.»

Uno dei cavalieri più celebri di tutti i tempi. Nato dall’amore tra un cortigiano seiikinese e una corsara venuta da terre sconosciute, era stato abbandonato davanti alle porte della Casa di Mezzogiorno e addestrato per diventare Guardiano dei Mari. Una notte, durante un combattimento, era scivolato di sella, cadendo nelle mani della Flotta dell’Occhio di Tigre.

Quella stessa notte aveva perso la gamba, trasformata dai pirati in un trofeo. Quindi, secondo la leggenda, l’avevano gettato in pasto ai pescicani, ma lui era sopravvissuto fino all’alba ed era stato soccorso da una nave amica.

«Ora conosci la verità» disse l’Anziano Vara. «Altri cavalieri sarebbero tornati in sella dopo quanto accaduto, ma il ricordo mi terrorizza. Ogni volta che vedo una nave, sento il rumore delle mie ossa che si spezzano.» Un sorriso sincero gli rischiarò il volto. «A volte il mio drago passa da queste parti. Viene ancora a salutarmi.»

Tané si rese conto di non aver mai ammirato nessuno quanto l’uomo che aveva davanti in quel momento.

«Sono stata bene qui, è un’esistenza tranquilla,» disse «ma io nel sangue ho il mare, e il mare non può fermarsi.»

«No. Quest’isola non è mai stata il tuo destino.» Il sorriso dell’Anziano svanì. «Forse lo sarà quella di Komoridu.»

Estrasse dalla borsa un pezzo di carta, un pennello e un calamaio.

«Se il grande Kwiriki è dalla nostra parte, la Dorata Imperatrice non riuscirà a trovare Komoridu» disse. «In caso contrario… a quest’ora sarà quasi arrivata.» Parlando, scriveva le indicazioni. «Dirigiti a Oriente, verso la costellazione della Gazza. Alla nona ora di notte, fa’ in modo che la nave si trovi esattamente sotto la stella che ne rappresenta l’occhio, quindi vira a sudest. A questo punto naviga tra la Stella del Sud e l’Astro Dormiente.»

Tané ripose la gemma nella scatola. «Per quanto dovrò procedere?»

«La mappa non lo dice… ma a un certo punto troverai Komoridu. Segui queste due stelle, ovunque si trovino nel cielo. Con l’aiuto della gemma dovresti riuscire a raggiungere la Missione

«Dunque me la lascerai tenere.»

«È stata affidata a te.» Vara le passò le indicazioni. «Dove andrai, una volta trovata la potente Nayimathun?»

I pensieri di Tané non si erano ancora spinti così lontano. Se il drago era vivo, l’avrebbe liberato dai pirati e riportato all’Impero dei Dodici Laghi. Altrimenti si sarebbe assicurata di vendicarlo.

Non sapeva cosa avrebbe fatto dopo. Solo che sarebbe stata in pace.

L’Anziano Vara parve leggerle l’indecisione in faccia. «Ti lascerò partire con la mia benedizione, Tané, ma devi prima promettermi una cosa» mormorò. «Che un giorno riuscirai a perdonare te stessa. Questa è la primavera della tua esistenza, bambina, ci sono tante cose che devi ancora imparare. Non negarti il privilegio di vivere.»

Tané era sull’orlo del pianto.

«Grazie. Per tutto.» Fece un inchino profondo. «È stato un vero onore imparare dal Principe della Risacca.»

Vara restituì il saluto. «Ed è stato un vero onore averti come allieva, Tané.» Quindi la accompagnò alle porte. «Vai, ora. Prima che qualcuno ti scopra.»

Ornamento di separazione

Sull’isola infuriava ancora la tempesta, anche se il rombo dei tuoni si era fatto più distante. Fradicia di pioggia, Tané attraversò i ponti di corda e cominciò a scendere la scala segreta.

Il villaggio era immerso nel silenzio. Tané si acquattò dietro un albero caduto, le orecchie tese al minimo rumore. Una luce tremolante dietro le finestre di una vecchia casa. Il tintinnio di una campana a vento.

Le sentinelle erano due, entrambe troppo occupate a parlottare e fumare per accorgersi di lei. Tané scivolò lungo le pareti e attraversò di corsa il prato fino ai gradini di pietra che portavano in spiaggia.

Scese la scala volando e, giunta in fondo, si fermò di fronte al mare.

Alcune scialuppe erano state trascinate sulla sabbia. A bordo del vascello ci sarebbero state altre guardie, ma Tané era pronta a battersi, pronta a versare del sangue se necessario. Aveva già rinunciato al suo onore, al suo nome, al suo drago. Non le era rimasto più nulla da perdere.

Si voltò a guardare per l’ultima volta l’Isola delle Piume, il suo luogo d’esilio. Ennesima casa trovata e perduta. Sarebbe stata per sempre priva di radici, come un seme nel vento.

Corse verso l’acqua e si tuffò. La bufera agitava le onde, ma Tané sapeva come resistere alla sua furia.

Il suo cuore stava rinascendo. Per sopravvivere al confino aveva dovuto rivestirlo di una corazza tanto spessa che quasi si era dimenticata il significato delle emozioni. Ora assaporò il caldo abbraccio dell’acqua marina, il sapore salmastro sulla lingua, il brivido di sapere che una bracciata maldestra o un piede in fallo potevano costarle la vita.

Quando riemerse per prendere fiato, osservò la nave. Avevano ammainato le vele. A poppa sventolava una bandiera bianca con sopra spada e corona. Simboli di Inys, la più ricca nazione d’Occidente. Tané prese un bel respiro e tornò a immergersi tra i flutti.

Nuotò fino a sfiorare lo scafo, quindi attese che un’onda la sollevasse e agguantò una fune che pendeva dalla fiancata.

Conosceva bene le navi: con la gemma non aveva bisogno di alcun equipaggio per addomesticare quella bestia di legno.

In lontananza, la spiaggia era deserta. Vara non l’aveva tradita allertando gli Anziani, e il mattino seguente non ci sarebbe stata più alcuna traccia del fantasma che era divenuta.

Ornamento di separazione

Le campane a vento impedivano a Loth di addormentarsi; non avevano smesso di suonare neanche un minuto quella notte. In più faceva freddo, la pelle gli tirava per il sale, e il fetore della marmaglia russante di pirati era insopportabile. Prima di andare a cercare l’acqua dolce, Harlowe aveva ordinato a tutti di riposare.

Anche il capitano era sveglio, seduto accanto al fuoco. Loth osservò le fiamme danzargli sul viso. Scintillavano sul tatuaggio bianco che gli serpeggiava sul braccio e si riflettevano sul medaglione che l’uomo si rigirava tra le dita.

Loth si sedette e indossò la camicia. Harlowe lo guardò uscire senza dire niente.

Fuori pioveva ancora. Melaugo, che montava la guardia, lo squadrò dall’alto in basso.

«Passeggiatina di mezzanotte?»

«Il sonno mi rifugge, temo.» Loth si abbottonò la camicia. «Non starò via molto.»

«Avete avvertito i vostri uomini-ombra?»

«Non ancora. E vi sarei grato se li lasciaste riposare.»

«Be’, immagino sia stancante andare in giro con tutta quella ferraglia. Strano che non siano ancora arrugginiti. Dubito che i savi vi daranno fastidio,» disse poi Melaugo «ma tenete gli occhi aperti. E portatevi questo.» Gli lanciò il fischietto. «Non sappiamo quali siano davvero i loro sentimenti nei nostri confronti.»

Loth annuì e infilò i piedi doloranti negli stivali.

Si inoltrò sotto la tettoia di alberi seguendo le poche lanterne rimaste accese, quindi scese i gradini che portavano in spiaggia. Camminare non gli era mai sembrato tanto faticoso. Quando finalmente giunse in fondo alla scalinata, trovò un riparo naturale e si accasciò sulla sabbia rimpiangendo di non essersi portato il mantello.

Se il fortunale non si fosse placato, avrebbero rischiato di rimanere bloccati su quell’isola dimenticata dal Santo ancora per settimane, e il tempo stringeva. Non poteva deludere Sabran proprio adesso. Un lampo squarciò l’oscurità per l’ennesima volta mentre Loth immaginava la caduta di Inys… conseguenza certa del suo fallimento.

Fu allora che notò la donna.

Si trovava circa a metà spiaggia. Nella frazione di secondo in cui il fulmine la illuminò, Loth vide che portava una tunica di seta scura e una spada ricurva appesa al fianco. Si immerse in acqua con un tuffo agile.

Loth balzò in piedi scrutando le onde per avvistarla di nuovo, ma nessun altro lampo giunse in suo aiuto.

C’erano solo due ragioni, pensò, che avrebbero potuto spingere un savio ad affrontare i flutti, di notte, per raggiungere la Rosa Eterna. La prima era uccidere gli stranieri, magari per prevenire il contagio. La seconda era rubare la nave. Il buon senso gli suggerì di avvertire Harlowe, ma il fischietto non avrebbe mai sconfitto l’ululato del vento.

Qualunque cosa avesse in mente di fare quella donna, doveva fermarla.

Corse a fatica sulla sabbia fino a raggiungere la riva. Tuffarsi tra quei cavalloni era una follia, ma non c’era altra scelta.

Superò l’arco di roccia con qualche bracciata. Ogni tanto, da bambini, lui e Margret erano stati in canoa sul Lago Elsand, ma la verità è che i nobiluomini non avevano molte occasioni di nuotare. In qualunque altra notte, si sarebbe lasciato sopraffare dalla paura.

Un’onda gli si abbatté sul capo, spingendolo in basso. Scalciò come un forsennato e riuscì sputacchiando a tornare in superficie.

Dal ponte della Rosa Eterna si levarono delle grida. Il suono stridulo di un fischietto. Loth trovò una cima a cui aggrapparsi, e finalmente anche i pioli di legno di una scaletta.

Rannicchiato accanto all’albero maestro c’era Thim. La donna con la tunica di seta rossa aveva già raggiunto il cassero di poppa, dove si batteva con un carpentiere, il volto coperto a tratti da ciocche svolazzanti di capelli neri.

Loth esitò, stringendo l’aria con le mani vuote. Tre schivate, un affondo e il carpentiere crollò a terra, la tunica sporca di sangue. La ragazza gli diede un calcio che lo fece rotolare oltre la murata. Un secondo uomo tentò di sorprenderla alle spalle, ma lei riuscì ad afferrarlo e ribaltarlo in avanti. Un attimo dopo, lo spedì in mare insieme all’altro.

«Ferma!» gridò Loth.

Lo sguardo della ragazza si spostò su di lui. Rapida come un fulmine, scavalcò la balaustra e atterrò accovacciata sul ponte.

Non gli restava che correre. Con la spada se la cavava abbastanza, ma quella non era una timida savia. Chiunque fosse, combatteva come una tormenta: aveva la velocità del lampo, l’agilità dell’acqua.

Attraversando il ponte a passi maldestri, Loth raccolse un’arma abbandonata mentre dietro di lui la sua avversaria sguainava il pugnale. Una volta giunto a prua, si arrampicò sul parapetto con i denti stretti e le mani scivolose per la pioggia. Doveva assolutamente saltare prima che potesse raggiungerlo.

Qualcosa lo colpì alla base del cranio. Si accasciò sul ponte come un sacco di granaglie.

Si sentì afferrare e girare a forza. La ragazza gli premeva il pugnale contro la gola, ma Loth riuscì a scorgere anche l’oggetto che stringeva nell’altra mano.

Come forma era identica a quella di Ead, e aveva lo stesso innaturale bagliore. Il riflesso della luna sul mare.

«La seconda gemma» sussurrò allungando un dito per sfiorarla. «Come… come l’hai avuta?»

Gli occhi della ragazza si ridussero a due fessure, e dardeggiarono dalla gemma a lui. Quindi alzò lo sguardo, distratta dalle grida che provenivano dalla spiaggia, e sul volto le calò una maschera di determinazione.

Fu l’ultimo ricordo di Loth. Il viso della ragazza e quella cicatrice chiara così simile a un amo da pesca.