Il mattino seguente, l’onorevole Primo Segretario consegnò a Tané la lettera da portare a Inys. Non sarebbe stata inviata alcuna delegazione dall’altra parte dell’oceano, bando ai fasti e alle cerimonie. Un drago e una donna erano più che sufficienti a comunicare la notizia.
Le vennero restituite le armi, con l’aggiunta di una pistola seiikinese, una spada migliore e una coppia di lame rotanti lacustrine.
Le scorte di cibo sarebbero bastate per un viaggio di due settimane a dorso di drago. Nayimathun avrebbe pensato a cacciare pesci e uccelli.
Quando la notte calò sulla Città dei Mille Fiori, Tané e il drago si incontrarono nel cortile del palazzo. Sulla schiena di Nayimathun era stata assicurata una sella di cuoio nero, bordata di legno laccato d’oro, benché sella fosse davvero un eufemismo… assomigliava più che altro a un palanchino aperto, sul quale il cavaliere poteva dormire durante i voli particolarmente lunghi. La missione era talmente segreta che nessun cortigiano o funzionario lacustrino era andato ad assistere alla partenza. Solo Thim e Loth avevano avuto il permesso.
«Buonasera, Tané» la salutò Nayimathun.
«Nayimathun.» Tané le fece una carezza sul collo. «Sei sicura di avere abbastanza energie per il viaggio?»
«Sicura. E poi» aggiunse il drago dandole un colpetto con il muso «senza di me hai la brutta abitudine di cacciarti nei guai.»
Un sorriso le addolcì il volto. Che bella sensazione, sorridere.
Thim rimase fermo dov’era, Loth invece le si avvicinò. Tané finse di dover aggiustare le bisacce appese alla sella.
«Tané,» disse Loth «ti prego: di’ alla regina Sabran che sono sano e salvo.» Fece una pausa. «E se riesci a svegliare Ead… dille che mi manca, e che ci rivedremo presto.»
Tané si voltò a guardarlo. C’era della tensione sul suo viso. Proprio come lei, stava cercando di mascherare la paura.
«Glielo dirò» promise. «Forse al mio ritorno potrei portarla con me.»
«Dubito che riusciresti a convincerla a salire su un drago, persino in nome della pace» ridacchiò Loth. «D’altro canto, quest’anno sono successe molte cose sorprendenti.» Il suo sorriso era stanco ma sincero. «Addio, e buona fortuna. E…» esitò. «Addio anche a te, Nayimathun.»
«Arrivederci, uomo di Inys» rispose il drago.
Le ultime luci del crepuscolo si ritiravano dalla città. Tané si arrampicò sulla sella assicurandosi che il mantello le riparasse bene tutto il corpo. Mentre Nayimathun si librava in volo, la ragazza osservò la Città dei Mille Fiori allontanarsi finché il palazzo si ridusse a una lucina tremolante circondata dal bianco labirinto addormentato. Protette dal buio della luna nuova, si lasciarono alle spalle un’altra capitale.
Volarono sopra laghi di madreperla e pini spruzzati di neve, seguendo il corso del fiume Shim. Il freddo aiutava Tané a stare sveglia, pur facendole lacrimare gli occhi.
Durante il giorno Nayimathun si teneva al riparo delle nuvole e di notte evitava le aree abitate. A volte, quando in lontananza compariva una colonna di fumo, capivano che un insediamento era stato attaccato dagli sputafuoco. Più si spingevano a ovest, più aumentava il numero di colonne scure.
Il secondo giorno raggiunsero il Mare Insonne, dove Nayimathun atterrò su un’isoletta per riposare. Una volta sull’Abisso non avrebbero più incontrato terra, a meno di non deviare verso il Settentrione. I draghi potevano resistere a lungo senza dormire, ma Tané sapeva che il viaggio avrebbe messo Nayimathun a dura prova. I pirati l’avevano nutrita poco e male.
Dormirono in una grotta scavata dalle maree; al risveglio, Nayimathun andò a bagnarsi mentre Tané riempiva le bisacce con l’acqua di un torrente.
«Appena ti viene fame dimmelo e ti passo qualcosa da mangiare» disse al drago. «E se senti il bisogno di immergerti nell’Abisso, non preoccuparti per me. Ci penserà il sole ad asciugarmi i vestiti.»
Nayimathun si rigirò pigramente. Poi, senza preavviso, diede una sferzata con la coda sulla superficie dell’acqua, e Tané si ritrovò fradicia fino al midollo.
Per la prima volta dopo secoli, rise. Rise fino ad avere i crampi allo stomaco. Nayimathun si ritrasse giocosamente mentre Tané usava la gemma per farle volare l’acqua addosso, con il sole che disegnava arcobaleni tra gli spruzzi.
Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva riso così. Probabilmente era stato insieme a Susa.
Al tramonto si erano già rimesse in viaggio. Tané si teneva salda alla sella, inspirando l’aria pulita. Malgrado tutto ciò che le attendeva, non si era mai sentita tanto in pace con se stessa.
L’oscurità dell’Abisso penetrava come una macchia nel Mare Lucente. Quando Nayimathun si lasciò alle spalle le acque verdi, Tané rabbrividì. Una cripta scura si apriva ora sotto di loro… la stessa in cui Neporo di Komoridu aveva un tempo imprigionato il Senza Nome.
Passarono i giorni. Nayimathun per lo più volava nascosta tra le nuvole, mentre per tenersi sveglia Tané masticava radici di zenzero. Il mal di montagna era un disagio diffuso tra i cavalieri di draghi.
Aveva il cuore pesante. A volte Nayimathun scendeva a nuotare e allora Tané faceva i suoi bisogni e si sgranchiva le gambe nell’acqua, ma la verità era che tornava a sentirsi sicura soltanto in sella: questo oceano non voleva accoglierla.
«Che cosa sai di Inys?» domandò il drago.
«La regina Sabran discende dal guerriero Berethnet, colui che sconfisse il Senza Nome molto tempo fa» rispose Tané. «Ogni regina ha una sola figlia, e quella figlia è praticamente identica a lei. Vivono nella città di Ascalon.» Si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di capelli bagnati. «Accusano noi orientali di blasfemia, e vedono il nostro stile di vita come l’opposto del loro… ispirato dal peccato anziché dalla virtù.»
«Già» disse Nayimathun. «Eppure per chiederci aiuto la regina Sabran deve aver imparato a distinguere il fuoco dall’acqua. Ricordati di non essere troppo dura con lei, Tané. È una giovane donna, responsabile del benessere dei suoi sudditi.»
Le notti sull’Abisso erano le più fredde che Tané avesse mai vissuto. Un vento gelido le crepava le labbra e scorticava le guance. Una volta si svegliò con le nuvole nei polmoni, guardò giù e vide che le stelle erano anche nel mare, riflesse sulla superficie.
Al risveglio successivo, il sole splendeva alto e una foschia dorata colorava una striscia d’orizzonte.
«Dove ci troviamo?»
Aveva la voce roca. Prese una bisaccia e bevve giusto il necessario per inumidirsi la lingua.
«Nell’Ersyr, la Regione Dorata» rispose Nayimathun. «Tané, devo nuotare prima di addentrarmi nel deserto.»
La ragazza si aggrappò al pomello della sella, la testa leggera per la discesa.
Il mare la colpì in piena faccia. Era tiepido, lì, e limpido come cristallo. Scorse relitti e detriti incastrati tra il corallo. Un luccichio metallico le ammiccò dal fondale.
«Tutto ciò che resta della Serena Repubblica di Carmentum, dalla quale questo tratto di mare prende il nome» le spiegò Nayimathun appena riemersero in superficie. I raggi del sole facevano risplendere le sue scaglie come gemme. «Quando la maggior parte della regione venne distrutta dallo sputafuoco Fýredel, gli abitanti gettarono in mare molti dei loro tesori per proteggerli dalle fiamme. I pirati li recuperano e ci si arricchiscono.»
Nuotò finché la costa non fu vicina, quindi riprese a volare. Davanti a loro, nell’aria tremolante per il caldo, si dispiegava un vasto e arido deserto. Alla sola vista Tané sentì la gola secca.
Non c’erano più nuvole in cui nascondersi; per evitare occhi indiscreti avrebbero dovuto volare più in alto che mai.
«Questo è il deserto del Burlah» disse Nayimathun. «Bisogna attraversarlo per raggiungere Lasia.»
«Ma Nayimathun, tu non sei fatta per questo clima. Il sole ti prosciugherà le scaglie.»
«Non abbiamo alternativa. Se Lady Nurtha non guarisce, potremmo non trovare un’altra persona in grado di portare la gemma calante.»
Già mentre parlava le sue scaglie cominciavano a seccarsi. I draghi potevano generare l’acqua di cui avevano bisogno per un po’, ma alla fine quel sole battente avrebbe avuto la meglio. Nei giorni a venire, Nayimathun sarebbe stata debole come non mai.
Volarono e volarono e volarono. Tané si sfilò il mantello e lo usò per coprire la scaglia di metallo in modo che non si scaldasse troppo.
I giorni sembravano piccole eternità. Le faceva male la testa. Il sole le bruciava il viso, seccandole la pelle e l’attaccatura dei capelli. Non c’era modo di sfuggirgli. Quando finalmente tramontava, Tané tremava a tal punto da essere costretta ad avvolgersi di nuovo nel mantello, sebbene si sentisse ancora rovente.
«Tané, ti sei presa un’insolazione» la mise in guardia Nayimathun. «Copriti con il mantello anche di giorno.»
Tané si asciugò la fronte. «Non possiamo andare avanti così. Moriremo entrambe prima di arrivare a Lasia.»
«Non abbiamo scelta» ripeté Nayimathun. Quindi aggiunse: «Quella terra laggiù è attraversata dal fiume Minara. Ci riposeremo là».
Tané avrebbe voluto replicare, ma prima di riuscire ad aprir bocca sprofondò in un sonno disturbato.
Il giorno successivo si avvolse il mantello intorno al corpo e alla testa. Grondava sudore, ma almeno il sole non le batteva sulla pelle. Lo toglieva solo per darlo a Nayimathun mentre raffreddava la scaglia metallica rovesciandoci sopra dell’acqua che la faceva sfrigolare.
Il deserto non aveva fine. Le bisacce si svuotarono. Tané sprofondò nella sella e smise di pensare.
Quando riaprì gli occhi, stava precipitando.
Una sfilza di rami le si impigliò nel mantello e tra i capelli. Non fece neanche in tempo a urlare che l’acqua la avvolse.
Fu invasa dal terrore. Scalciò alla cieca fino a riemergere. Nel buio della notte distinse a malapena i contorni di un albero che sporgeva sull’acqua, appena fuori dalla sua portata. La corrente la spinse contro la pianta e Tané riuscì ad aggrapparsi a un ramo. Il fiume le strattonava le gambe. Abbracciò il tronco e rimase lì così, a tremare.
Per un bel po’ non si mosse, troppo ammaccata e scossa per fare qualunque cosa. Una pioggerellina tiepida le batteva sul cranio. Quando finalmente tornò in sé, si sollevò con le braccia e strinse l’albero tra le ginocchia. Il tronco tremò mentre guadagnava terreno, un millimetro alla volta.
Lottando per mantenere la calma, si ricordò del Monte Tego. Di come aveva sfidato il vento gelido, la neve alta fino al ginocchio, il dolore alle gambe. Di come aveva scalato la roccia liscia a mani nude, in carenza d’ossigeno, sempre a un passo dalla morte. Di come non si era concessa di voltarsi indietro. In fin dei conti, i cavalieri di draghi non potevano soffrire di vertigini, dovendo rimanere agili e forti anche a grandi altezze.
Era stata sulla vetta del mondo. Aveva sorvolato l’Abisso in groppa a un drago.
Poteva farcela anche stavolta.
La paura svanì, Tané si mosse più in fretta. Quando raggiunse le radici dell’albero, gli stivali affondarono nel fango.
«Nayimathun!» gridò.
In risposta giunse solo il rombo della corrente.
La scatola con dentro la gemma era ancora al suo posto. Tané si trovava sulla sponda di un fiume, nei pressi del punto in cui accelerava gettandosi in rapide spumose. Se non si fosse svegliata in tempo, sarebbe stata trascinata verso la fine. Appoggiò la schiena a un albero e si lasciò scivolare per terra.
Era stata disarcionata. E se Nayimathun non la stava cercando, voleva dire che era caduta anche lei. In quel caso, non poteva essere lontana.
Quello era di certo il fiume Minara, dunque erano giunte al Bacino di Lasia. Fece uno sforzo di memoria per rievocare le mappe studiate da bambina. La parte occidentale della regione, se ben ricordava, era coperta di foreste. In quella zona, secondo Loth, avrebbe trovato il Priorato.
Tané deglutì e si asciugò gli occhi. Per sopravvivere doveva mantenere la mente lucida. Da bagnata la pistola era inutilizzabile, e l’arco e la spada erano rimasti attaccati alla sella, ma poteva comunque contare sul pugnale e sulle lame rotanti.
Insieme a lei erano cadute parecchie cose. Tané gattonò fino alla borsa più vicina e la aprì con le dita indolenzite. Quando tastò la bussola, emise un sospiro di sollievo.
Radunò tutto quello che poteva portare. Usando un lembo del mantello, un ramo e un po’ di linfa preparò una torcia, che accese sfregando due pietre. Avrebbe attratto gli animali, ma meglio rischiare di essere scoperta che mettere il piede su un serpente oppure non vedere un predatore nascosto nel buio.
Gli alberi incombevano su di lei come cospiratori. Anche solo a guardarli il coraggio vacillava.
In te batte un cuore di drago.
Avanzò nella foresta allontanandosi dallo scroscio del Minara con gli stivali che affondavano nel fango. L’odore era lo stesso che c’era a Seiiki dopo la pioggia dei pruni. Ricco e terroso. Rassicurante.
Il suo corpo era teso come un coltello a scatto. Malgrado il profumo familiare, quei primi passi nel bosco furono i più difficili della sua vita. Cercava di muoversi leggera come una gru. Quando un rametto si spezzò al suo passaggio uccelli di mille colori si innalzarono dal fogliame. Non le ci volle troppo ad avvistare degli alberi danneggiati: qualcosa di molto grosso era caduto laggiù. Un altro passo e la luce della torcia mostrò una pozza di sangue argentato.
Sangue di drago.
La foresta sembrava decisa a ostacolarla. Radici nascoste le intrappolavano le caviglie. Una volta un ramo si ruppe sotto il suo peso e Tané si ritrovò immersa in una palude fino alla vita. Riuscì a non far cadere la torcia, ma le ci volle un’eternità per liberarsi dalle sabbie mobili.
Tremando arrancò dietro alla scia di sangue. A giudicare dalle pozze sul terreno, la ferita di Nayimathun doveva essere abbastanza lieve. Ma il sangue avrebbe attratto i predatori, e la prospettiva convinse Tané a mettersi a correre. In Oriente, le tigri talvolta erano abbastanza avventate da attaccare i draghi, ma l’odore di Nayimathun doveva giungere nuovo alle bestie di quella foresta. Pregò che bastasse quello a tenerle a bada.
Appena udì delle voci spense la torcia. Una lingua ignota, diversa dal lasiano. Si arrampicò su un albero con il coltello stretto tra i denti.
Nayimathun giaceva in mezzo alla radura. Aveva una freccia conficcata nella corona, l’organo che le consentiva di volare. Intorno a lei si aggiravano sei figure avvolte in mantelli scarlatti.
Tané si irrigidì. Una delle straniere impugnava l’arco e faceva scorrere le dita sul flettente. Non potevano che essere le Dame Rosse, le guerriere del Priorato… e ora sapevano di avere un cavaliere di draghi nelle vicinanze.
Avrebbero potuto uccidere Nayimathun da un momento all’altro. Era troppo debole per reagire.
Dopo quelle che parvero ore, le Dame Rosse scomparvero tra gli alberi, a parte due che rimasero di guardia. Erano cacciatrici, e Tané la loro preda. La magia costituiva certamente un vantaggio, ma non le rendeva onnipotenti.
Tané scivolò silenziosamente giù dal tronco. In quel momento la sua arma migliore era l’effetto sorpresa. Prima di tutto doveva liberare Nayimathun, quindi insieme a lei avrebbe seguito una delle Dame fino al Priorato.
Il drago aprì un occhio e Tané comprese che l’aveva vista. Attese che la ragazza le si avvicinasse prima di dare una sferzata di coda. Approfittando della distrazione delle Dame Rosse, Tané strisciò come un’ombra alle loro spalle. Ebbe giusto il tempo di scorgere un paio di occhi sotto un cappuccio, occhi neri quanto i suoi, quindi provò la stranissima sensazione che un raggio di sole le illuminasse il volto.
Man mano che si avvicinava, la sensazione diminuì. Attaccò con tutta la violenza di cui era capace. Sentì la carne scorticarsi sotto il primo colpo di lama, ma il pugnale che comparve a parare il secondo le scosse il braccio dal polso alla spalla. La forza dell’urto le fece battere i denti. Mentre le cacciatrici la stringevano in un girotondo di mantelli fluttuanti, si preparò a difendersi brandendo una lama lacustrina in ciascuna mano. Le guerriere erano agili come pesci, ma chiaramente non avevano mai avuto a che fare con quel genere di arma. Tané si batté anima e corpo.
Eppure quella calma effimera ben presto svanì. Mentre schivava i colpi di spada, la colse la consapevolezza di non essersi mai trovata in un vero e proprio combattimento mortale. I pirati occidentali erano avversari facili… violenti, ma indisciplinati. Da ragazzina aveva fatto a botte con altri apprendisti, gli stessi con i quali anni dopo si era allenata a colpi di spada, ma il poco che sapeva sui duelli derivava da un minimo di pratica e nessuna teoria. Quelle maghe, al contrario, avevano dedicato la loro intera esistenza alla guerra: si muovevano come danzatrici. Contro di loro una combattente alle prime armi, sola e ferita, non aveva scampo. Non avrebbe mai dovuto attaccare.
La sete e la stanchezza cominciavano a farsi sentire: mentre le spade delle avversarie si avvicinavano sempre più a ogni fendente, le sue lame sibilavano nel vuoto.
Tané iniziò a barcollare. Le facevano male le braccia. Gemette quando una spada le graffiò prima la spalla, poi la mascella. Altre due cicatrici per la sua collezione. Il colpo successivo parve accenderle un incendio lungo la vita. Il sangue le impregnava la tunica. Poi le Dame Rosse attaccarono contemporaneamente, e lei fece appena in tempo a sollevare le armi per parare.
Era perduta.
Una Dama Rossa fece una finta, lei ci cascò e un morso metallico le squarciò la coscia. Il ginocchio cedette. Le lame rotanti caddero a terra.
Fu in quel momento che Nayimathun alzò il muso con un ruggito. Afferrò una maga tra le zanne per poi scaraventarla dall’altra parte della radura.
La seconda guerriera si mosse così velocemente che Tané quasi non se ne accorse. Poi una sfera di fuoco si accese tra le sue mani.
La fiamma fece trasalire il drago, che indietreggiò di scatto davanti alla donna. Tané le volò sulla schiena e conficcò il pugnale nel broccato rosso, proprio in mezzo alle costole. Quando la guerriera fu a terra, la superò con un balzo e raggiunse Nayimathun.
Un tempo si sarebbe vergognata di uccidere davanti a un drago. Andava contro le regole… ma ora era questione di vita o di morte. Per entrambe. Aveva ucciso per Nayimathun, e Nayimathun aveva ucciso per lei; dopo tutto ciò che avevano passato, non provava alcun rimorso.
«Tané.» Il drago abbassò il muso. «La freccia.»
Le bastò vederla per essere colta dalla nausea. Con la massima delicatezza possibile, impugnò il dardo e lo sfilò dalla carne molle. Lo sforzo fu tale da farle tremare le braccia.
Quando finalmente riuscì a estrarlo, Nayimathun venne scossa da un fremito. Aveva tutto il muso sporco di sangue. Tané le mise una mano sulla mascella.
«Riesci a volare?»
«Deve prima rimarginarsi» ansimò il drago. «Venivano dal Priorato. Insegui le altre. Trova il frutto.»
«No» rispose immediatamente Tané, con una stretta al cuore. «No. Non ti lascerò un’altra volta.»
«Fa’ come ti dico.» Nayimathun scoprì le zanne, anch’esse grondanti sangue. «Tornerò a volare, ma in questo stato non posso raggiungere Inys. Devi trovare un altro modo. Salva Lady Nurtha. Porta il messaggio alla regina Sabran.»
«E dovrei lasciarti qui da sola?»
«Seguirò il fiume fino al mare, e lì guarirò. Appena riuscirò a volare verrò a cercarti.»
Si erano appena ritrovate e già dovevano separarsi. «Ma come faccio ad arrivare a Inys senza di te?» protestò in tono più flebile Tané.
«Troverai una strada» rispose Nayimathun. «L’acqua trova sempre un’altra strada.» Le strofinò il muso addosso. «Ci rivedremo presto.»
Tané rabbrividì. Rimase abbracciata al drago il più a lungo possibile, il volto premuto contro le sue scaglie.
«Vai, Nayimathun. Vai» sussurrò alla fine, prima di allontanarsi nel bosco.
Le altre Dame Rosse erano andate a nord. Tané seguì le loro impronte nascondendosi tra gli alberi. Non c’era tempo di costruire una torcia, ma gli occhi ormai si erano abituati all’oscurità.
Anche quando perse le tracce, intuì la direzione da seguire. Era l’istinto a guidarla: come se le donne si fossero lasciate dietro una scia calda in grado di attrarre qualcosa che le scorreva nelle vene.
Si ritrovò in un’altra radura, dove fece una sosta per riprendere fiato e asciugarsi il fianco sanguinante. Non c’era niente lì. Solo alberi a perdita d’occhio.
Sentiva le palpebre appesantirsi, i passi farsi incerti. E poi comparve una donna vestita di bianco, con un sole fiammeggiante tra le dita.
Quello fu il suo ultimo ricordo della foresta.