Questione di percezione

Uno degli eventi storici di fine anni ‘10 che ricorderemo come simbolo dell’avanzare dell’umanità nel nuovo secolo è la protesta a Hong Kong. Partita il 31 marzo 2019 con una manifestazione del Civil Human Rights Front di sole 12.000 persone contro il disegno di legge cinese sull’estradizione, presto si è scatenata in un vero sollevamento popolare, con 746 dimostrazioni negli otto mesi seguenti e quasi 13 milioni di persone coinvolte. Una protesta che si è rivelata resiliente di fronte alla repressione e che è stata in grado di raccontarsi con un simbolismo universale, ben compreso a qualunque latitudine: la maschera. Che durante una manifestazione di dissenso si indossi una maschera, un cappello o un casco, si tratta comunque di oggetti interposti tra il proprio spazio personale e l’occhio del governo.

Una volontà di aumentare la distanza fra sé e il potere, che a Hong Kong si è spinta fino alla distruzione dei lampioni intelligenti e di qualunque telecamera – soprattutto quelle poste fuori dagli edifici pubblici, sospettate di non servire al controllo della qualità dell’aria, ma al riconoscimento facciale: alla sorveglianza digitale di massa.

È questo che colpisce: l’identità è la posta in gioco sia per chi controlla, che vince o perde la partita a seconda che riconosca o meno ogni singolo manifestante, sia per coloro che protestano, i quali devono restare anonimi per la riuscita finale della lotta sociale. Molti osservatori internazionali ritengono che sia un momento cruciale: il riconoscimento facciale comincia a essere percepito da tutti come un pericolo reale.

Non solo in quella regione del mondo, sembra essersi affermata l’idea che insieme alla lotta politica sarà necessaria la lotta al pensiero dominante della Silicon Valley, secondo cui è possibile far accettare la sorveglianza digitale all’intera umanità, come un fatto inevitabile, senza doverne prima discutere democraticamente.

Ma ci siamo mai chiesti in che modo i software di riconoscimento facciale identifichino le persone di sesso, età e razza differenti? Dipende dall’algoritmo alla base del sistema, dall’applicazione che lo utilizza e dai dati con cui viene alimentato. La maggior parte dei programmi di riconoscimento facciale mostra dati demografici differenziali: ciò significa che la capacità di un algoritmo di abbinare due immagini della stessa persona varia da un gruppo demografico all’altro. Per essere più precisi, questi algoritmi sono molto meno accurati nell’identificare volti afroamericani e asiatici rispetto a quelli caucasici, creando così un evidente e certo non trascurabile rischio sociale.

Il National Institute of Standards and Technology ha testato 189 algoritmi di 99 diversi sviluppatori, cioè la maggior parte del mercato di tali software, con l’esclusione di Amazon che non si è prestata, pur vendendo il suo Rekognition alle forze di polizia americane. A quanto pare, quando si abbina una data foto a un’altra della stessa faccia, molti degli algoritmi testati suggeriscono identificazioni false di individui afroamericani e asiatici tra le 10 e le 100 volte in più rispetto ai risultati su persone caucasiche. Nel cosiddetto “abbinamento uno a molti”, che confronta una certa foto con altre contenute in un database, le cose non vanno meglio: qui sono le donne afroamericane a farne maggiormente le spese avendo tra tutte le maggiori probabilità di essere identificate erroneamente.

Uno dei pericoli più grandi nel nostro turbolento periodo storico è dunque quello di cercare di interpretare le straordinarie trasformazioni in atto con strumenti concettuali antichi, fallaci, che spesso finiscono per provocare dei danni enormi perché ignorano il fattore umano e tendono a vedere nell’innovazione tecnologica una traiettoria inesorabile, un progresso di per sé.

Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante. Le regole di economia, società, politica, lavoro; gli stili di vita, la tecnologia, il rapporto tra uomo e ambiente: tutto si trasforma e viene messo in discussione a un ritmo sempre più incalzante. E il futuro non è più quello di una volta.

Fino a qualche decennio fa i grandi cambiamenti preconizzati anni, se non secoli prima, arrivavano alle scadenze previste e poi venivano costantemente rimandati, come profezie di Nostradamus da spostare giusto un millennio più in là.

Oggi viviamo in un tempo così accelerato che i mutamenti avvengono quasi in tempo reale, in un qui e ora che non ci consente di rimandare più nemmeno le profezie.

Quello che sembrava soltanto probabile potesse accadere entro il 2045 è oggi praticamente sicuro già per il 2030, e le previsioni sul futuro si confondono quasi regolarmente con la realtà già in corso. Il Pianeta si sta modificando a ritmi mai visti e la tecnologia, dopo aver rotto un tabù dopo l’altro nell’arco di un solo trentennio, è ora al bivio cruciale: perdersi per sempre in una sorta di autodeterminazione incontrollata o tornare alla sua essenza originaria, che individua nell’essere umano la migliore delle tecnologie mai esistite su questo Pianeta.

La tecnologia potrà così, definitivamente, contraddire o addirittura anticipare la scienza; minare i dogmi delle fedi religiose; lasciarsi contaminare dalla filosofia per dotarsi di un senso e di un proposito che vadano al di là dei soli principi di utilità ed efficacia; lasciarsi contaminare dall’arte per cercare di generare anche bellezza e stupore oltre che efficienza; e infine imporre all’economia non solo di incarnarsi in redditività ma anche di impattare la collettività e il Pianeta in maniera orientata al perseguimento di un vantaggio comune per l’intera umanità oltre che per il Pianeta stesso.

Noi esseri umani restiamo pur sempre il motore delle trasformazioni in corso, ma se ci limitiamo a adattarci alla situazione, rinunciando a orientare le ondate rivoluzionarie del nostro tempo verso l’interesse generale, rischiamo di rimanerne travolti.

Siamo sempre connessi, è un dato di fatto inconfutabile che al mondo esistono più schede SIM che persone. Secondo l’ultimo report ISTAT, nel 2019, in Italia, 38 milioni 796.000 persone dai 6 anni in avanti, hanno navigato almeno una volta in Rete nell’arco di tre mesi, 812.000 in più rispetto all’anno precedente. In aumento soprattutto la quota di persone che si collegano a Internet quotidianamente (dal 51,3 al 53,5%). Anche se sono i giovani a confermarsi come i più assidui utilizzatori della Rete con oltre il 90% dei 15-24enni, la diffusione comincia a essere significativa anche tra i 65-74enni, tra i quali la quota raggiunge il 41,9%. Secondo We Are Social, noi italiani passiamo su Internet più di 6 ore al giorno, cioè più di un terzo del nostro tempo da svegli. Una media di 6 ore e mezza al giorno equivale a un totale di oltre 100 giorni ogni anno per ogni utente internet. Estendendo questa media su un totale di quasi 4,4 miliardi di utenti, scopriamo che nel 2019 l’umanità ha trascorso online un totale di oltre 1,2 miliardi di anni.

Di tutto questo tempo trascorso in Rete, circa un terzo è destinato ai social. GlobalWebIndex riferisce che l’utente medio dei social media trascorre 2 ore e 16 minuti al giorno. Se estendiamo questo tempo medio giornaliero a tutti i 3484 miliardi di persone che usano i social media oggi, otteniamo un totale di quasi 330 milioni di anni di tempo umano speso sulle piattaforme sociali nel corso del 2019. Per questa ragione controlliamo il nostro smartphone costantemente. Per questa ragione la neuropsichiatria registra già un quadro allarmante in termini di disturbi patologici. Infatti, in Cina da alcuni anni esistono veri e propri centri per la cura e la riabilitazione della dipendenza tecnologica.

Potenzialmente possiamo sapere tutto, dagli orari dell’autobus alle equazioni di Maxwell, in tempo reale. Nessuna generazione umana ha mai neanche lontanamente avuto a disposizione questo potenziale di conoscenze: oggi qualunque persona ha a portata di clic la stessa quantità di informazioni cui quarant’anni fa accedeva un presidente degli Stati Uniti. Eppure, la realtà e la nostra percezione di essa non sono mai state così distanti.

In Italia in particolare.

L’edizione 2019 della ricerca annuale dell’istituto IPSOS dal titolo The Perils of Perception, ha mostrato risultati anche questa volta stupefacenti: l’Italia è prima, tra i quindici paesi dell’Ocse, per distanza tra percezione e realtà. Alcuni esempi: nel 2014, a fronte di un tasso reale di disoccupazione del 12%, gli italiani credevano che il 49% dei loro connazionali fosse disoccupato, come se uno su due stesse cercando lavoro senza trovarlo. Gli italiani credono poi di avere un’economia simile per dimensioni alla Grecia, quando quest’ultima ha un PIL equivalente più o meno alla sola Lombardia. Sulla composizione demografica la chiarezza non aumenta: gli over 65 attualmente rappresentano il 22% della popolazione totale, ma per l’opinione pubblica italiana corrispondono al 48%. L’età media è di 45 anni, ma gli italiani pensano che sia di 59. Secondo un altro studio a cura dell’Istituto Cattaneo, l’Italia è anche il paese con la più forte distorsione della realtà per quanto riguarda l’immigrazione: gli immigrati extraeuropei rappresentano nel nostro paese il 7% della popolazione totale, ma per l’opinione pubblica sono il 25%, uno su quattro. Il 47% degli italiani crede che ci siano più clandestini che migranti regolari, mentre gli irregolari rappresentano circa il 10% del totale dei migranti. Sintesi: quotidianamente viviamo, agiamo, ci emozioniamo, pensiamo, consumiamo, decidiamo, scegliamo, e saltuariamente perfino votiamo, immaginando un mondo che non esiste se non nella fallace percezione della nostra testa.

Un vero dramma!

E tutta quella conoscenza a disposizione, quegli smartphone nelle tasche, tutte quelle ore a scrollare, a swipare, in cerca di quale realtà, di quale verità? E se anche oggi (in che anno mi stai leggendo?) individuassi una sola verità – caso rarissimo! – quale sarebbe poi la tua capacità di percepirla come effettivamente tale?

Dobbiamo rieducare i nostri occhi a vedere al di là di ciò che pensiamo.

Nella nostra società – globalizzata, liquida, complessa, sempre più incerta e ambigua, per usare alcuni degli aggettivi più in voga – la realtà è sempre più difficile da comprendere, e la percezione dell’opinione pubblica si è allontanata sempre di più dai dati reali. Si è scavato un vero e proprio abisso tra ciò che è vero e ciò che è ritenuto tale.

Abbiamo perso l’attitudine ad approfondire, la curiosità di comprendere a fondo ciò che accade intorno a noi e soprattutto la capacità di fare un’analisi critica degli accadimenti, quanto più prossima all’oggettività. Sempre più spesso siamo in preda a una dilagante forma di narcisismo e individualismo dell’opinione, una tendenza all’incomunicabilità, al ripiegamento unilaterale nelle proprie convinzioni che ha un’origine più sociale ed emotiva che biologica. C’è da chiedersi se non abbiamo già perso quella caratteristica che nell’epoca precedente ci rendeva capaci di ascoltare l’altro, di sintonizzarci con lui, aprendo noi stessi per lasciargli lo spazio che consente l’incontro. Si chiamava empatia.

Tutto il dibattito sulla cosiddetta post-verità si può riassumere così:

la perdita dell’empatia.

O, con le parole di Maurizio Ferraris:

«L’atomismo di milioni di persone convinte di aver ragione non insieme (come credevano, sbagliando, le chiese ideologiche del secolo scorso), ma da sole, o meglio con il solo riscontro del web»

C’è da domandarsi, allora, se non abbiamo perso la consapevolezza del nostro ruolo nel mondo, sottovalutando la nostra responsabilità individuale nei confronti del destino di tutta l’umanità. È preoccupante, e lo è ancora di più di fronte agli straordinari processi di cambiamento di quest’epoca, che coinvolgono l’ambiente in cui viviamo, il nostro rapporto con la tecnologia e, soprattutto, il rapporto con gli altri esseri umani con cui condividiamo il nostro cammino; il quale non è che la via verso un destino comune. Il mondo si trasforma a una velocità crescente, come se potesse accelerare in modo illimitato, e le nostre menti sembrano imprigionate in un eterno presente. Ma se quello che ci sfugge oggi potrebbe essere domani, nel migliore dei casi, una mancata opportunità di business, dopodomani potremmo invece ritrovarci sorpresi da una valanga che stravolgerà per sempre la nostra società.

Spostati per un istante dal luogo in cui ti trovi. Metti distanza fra te e ciò con cui sei ora identificato, che sia un pensiero avvitato su se stesso o un’emozione negativa o un’azione meccanica, e metti a fuoco il Tutto. Cerca uno spazio vuoto. Trova un attimo di silenzio. Accomodati in un posto nuovo per te, che sia anche un luogo interiore. Se lo desideri fallo ora. Fallo interiormente ed esteriormente, prova per un attimo a non pensare allo smartphone, dai un’occhiata fuori dalla finestra, prova a leggere qualche pagina di un libro, o magari ad ascoltare sul web la conferenza di un premio Nobel, e prova a farlo senza distrazioni.

Dobbiamo rieducare noi stessi a rallentare, a ricalibrare le nostre risorse di tempo e attenzione. Ascoltiamo il senso che c’è oltre il rumore delle breaking news, superando la gabbia del nostro eterno “presente” che per comodità ci induce a ignorare il passato che insegna e il futuro che richiede sforzo, per cercare il luogo della presenza. Smettiamo di pensare a cosa accadrà tra cinque, quindici, trenta minuti e proviamo a prefigurarci cosa accadrà tra anni.

Poiché tra cinque, quindici, trent’anni, qualcosa accadrà, ma su una scala globale che sarà una emanazione della nostra dimensione individuale. L’unica cosa che alla fine è reale del tuo viaggio è il passo che stai facendo in questo momento. Questo è tutto ciò che esiste.

Iniziamo a prendere atto che in pochissimo tempo la popolazione mondiale è cresciuta e sta tuttora crescendo in modo incalzante. In un battito di ciglia ci ritroveremo a essere otto miliardi di persone (di cui più di metà asiatici).

Nel frattempo, le zone abitabili del Pianeta si stanno restringendo. Gli oceani rischiano sempre più di travolgere le città costiere, mentre nei deserti milioni di persone sono costrette a scappare dalla siccità.

Immaginate cosa succederebbe se la densità di popolazione della vostra città aumentasse improvvisamente del 30%. Credete che le regole sociali rimarrebbero le stesse? Pensate che l’approvvigionamento e la distribuzione dell’energia, l’acquedotto, le fogne, la rete stradale e le infrastrutture si dimostrerebbero capaci di garantire il benessere di tutti? A parità di risorse e di distribuzione della ricchezza, un simile aumento di popolazione scatenerebbe una spietata competizione per la sopravvivenza. Se non interveniamo adeguatamente, il futuro ci riporterà probabilmente a una condizione di homo homini lupus.

La prima foto in assoluto della Terra a figura intera u scattata il 7 dicembre 1972 dall’equipaggio dell’Apollo 17, che stava per lasciare l’orbita terrestre per dirigersi verso la Luna. Con il Sole alle spalle, gli astronauti godevano di una vista perfetta del Pianeta, illuminato al meglio. La foto diventò famosa come The Blue Marble, la biglia blu. Era la prima volta che l’umanità poteva osservare nella sua interezza il Pianeta che da milioni di anni la ospita; un luogo che pre-esisteva alla nostra comparsa e che certamente post-esisterà alla nostra eventuale scomparsa. Un sistema che, nel suo costante orbitare intorno al Sole, dovette apparire perfetto nelle sue logiche meccaniche, di cui è impossibile prefigurare il disegno originario, come impossibile è immaginare la volontà che l’ha desiderato, concepito e infine realizzato.

Dall’osservazione del Blue Marble sorge spontanea nell’essere umano la riflessione sul rapporto tra il Pianeta e la specie più evoluta tra quelle che lo abitano: un rapporto di reciprocità che però ci vede inferiori, semplicemente perché dalla Terra dipendiamo.

Davanti a tanta maestosità e bellezza, ancor più se comparate alla nostra caducità e imperfezione, gli esseri umani hanno vissuto un momento di profonda consapevolezza, prendendo coscienza dell’infondatezza di tutte le architetture ideologiche che ci spingono a tentare di dar forma compiuta alle nostre esistenze tracciando linee che abbiamo chiamato “confini di Stato”, una convenzione priva di senso, divenuta poi ragione di molti mali, in tutti i tempi. Linee di confine prima fisiche e poi ideologiche. Sono secoli che l’uomo si ostina a mantenere separato ciò che per natura è unito, e ultimamente è tornato a farlo con lo strumento che peggio onora la sua superiorità di specie: il muro. È la resa della specie.

La consapevolezza maturata dai primi uomini nello spazio, rivissuta regolarmente da tutti quelli che da allora li hanno seguiti, è sempre la stessa: solo la distanza, la giusta distanza, consente di osservare la realtà per quella che è davvero. Una vita vissuta senza riuscire a mettere la giusta distanza fra osservatore e osservato è una vita illusoria, falsata. Se osservo da troppo vicino avrò una percezione parziale che però scambierò per totale; se invece sono troppo lontano avrò una percezione sfumata che però scambierò per ben definita. In entrambi i casi mi identificherò nella mia verità, e mi ritroverò costretto nella prigione delle mie credenze e dei miei dogmi, con il rischio di divenire violento ed essere pronto persino a uccidere per difendere quello in cui credo. Ma l’essenza dell’uomo non è quella di un essere violento. L’uomo al massimo esprime violenza, ma non è la stessa cosa.

Con una macchina fotografica tradizionale, un endoscopio e un microscopio a scansione elettronica, in più di 12 anni di lavoro il fotografo danese Lennart Nilsson è riuscito a mettere a punto una tecnica per fotografare le fasi di sviluppo dell’embrione. Osservandole si ha la conferma che l’essere umano è semplicemente la migliore tecnologia di questo Pianeta.

Ma non dobbiamo dimenticare che tornare a concepire il nostro ruolo in armonia con la Terra è tornare all’essenza della nostra specie; rispettare la Terra è la più alta forma di rispetto verso noi stessi.

Fra trent’anni potremo scattare foto del Pianeta dalla risoluzione infinitamente migliore, immagini tridimensionali che oggi fatichiamo anche solo a immaginare. Ma la biglia che ci ospita sarà ancora blu?

Sarà gialla, grigia, o magari rossa, come il nostro desertico fratello Marte, che qualcuno vede come una profezia, un monito sulla sorte che ci attende se non smettiamo di devastare il nostro Pianeta? E se diventerà una biglia rossa, ci sarà ancora qualche umano in grado di osservarla?

Il cambiamento climatico sta ridisegnando il nostro Pianeta. Le emissioni di CO2, l’inquinamento e il consumo di risorse che derivano dal nostro modello di sviluppo basato sui combustibili fossili lo stanno rendendo sempre più caldo, imprevedibile e pericoloso. Da più di trent’anni si parla di sviluppo sostenibile, e come vedremo sono state intraprese azioni serie in questa direzione, ma non basta.

Oltre 11.000 scienziati da tutto il mondo si sono uniti e hanno firmato un controverso rapporto intitolato Avvertimento degli scienziati riguardo all’emergenza climatica, e pubblicato sulla rivista “Bioscience”. Non basta più limitarsi a produrre dati per poi tornarsene in laboratorio, sostengono, occorre essere disposti ad aiutare chi deve prendere decisioni politiche per fare i passi necessari per assicurare un futuro alla nostra e alle prossime generazioni. Anche la nuova Commissione europea ha annunciato l’obiettivo di stanziare mille miliardi di investimenti in sostenibilità ambientale, tuttavia non ci stiamo riadattando alla velocità giusta e il Pianeta è pronto a presentarci il conto. Pensiamo a noi stessi trent’anni fa: sarebbe stato difficile, per esempio, immaginare un dispositivo potente e insieme diffuso e maneggevole come uno smartphone.

Tutto l’ecosistema digitale in cui siamo immersi, l’“Internet delle cose” che ha finito per inglobare le persone, l’evoluzione dell’intelligenza artificiale, sarebbero sembrati pura fantascienza. Ma – forse – sarebbe stato ancora più difficile immaginare società umane così incapaci di usare queste straordinarie innovazioni tecnologiche per salvare se stesse e il Pianeta.