Un bacio

Se ne stavano tutti e cinque dietro l’angolo e a turno sporgevan in fuori la testa per vedere; la nebbia era però così densa da impedir di scorger non che le figure, le ombre; allora in silenzio si rintanavan in se stessi e trattenendo il respiro cercavan di cogliere ogni rumore e ogni parola e su quelle ricostruir quanto di là stava per accadere; se poi parole e rumori denunciavano con chiarezza il loro significato, si guardavan in faccia con uno stupore in cui si perdeva ogni velleità di sorridere e ammiccare.

La Ghitta, com’era, l’avevan vista; al momento buono infatti s’eran sistemati da parer un gruppo che si trovasse lì per caso e che dunque non avesse niente in comune con la coppia che avanzava verso di loro; si trattava d’una ragazza alta poco più del Dario e che portava i capelli raccolti in due trecce penzolanti giù, una da una parte e una dall’altra; sotto i calzettoni di lana le gambe, sia pur nella scarsa luce del lampione, s’eran mostrate così gonfie da parer che fossero rovinate dai geloni; e così pure la faccia, benché se ne stesse tutta affondata dentro una sciarpa. Al posto del paletò aveva una giacca e sotto la giacca una sottana un po’ sporca e sbrindellata.

“Silenzio...” intimò il Carletto, cui in quel momento era toccato il turno della posizione più avanzata. “Silenzio...” ripeté.

Quel che adesso arrivava era una specie di continuo, ovattato alternarsi di fruscii, ora più, ora meno forti; di tanto in tanto poi su quei fruscii giungevan le voci del ragazzo e della ragazza:

“Linetto, Linetto...”.

Oppure:

“Ghitta, Ghittina...”.

“Son ancora in piedi?” mormorò allora quello dei cinque che occupava la posizione più arretrata.

“Sì, in piedi...” rispose il Carletto; e certo avrebbe desiderato aggiunger come, secondo lui, i due stessero proprio allora arrivando al momento supremo; invece preferì starsene in silenzio e seguir con tutti i sensi e con tutta l’anima quel che accadeva pochi metri più in là.

Ormai sembrava che un lieve lamento accompagnasse quei fruscii; finché si sentì il rumore d’un bacio, un bacio dato con più forza degli altri; allora la voce della Ghitta disse:

“Ancora, Lino, ancora...” e quella del Lino rispose:

“Sempre, Ghittina, sempre...”.

Poco dopo, mentre il Dario rammentava al Carletto che il suo turno era finito e che il posto avanzato toccava a lui e perciò lo tirava, irritato, per la giacca, venne da oltre l’angolo un tonfo, lieve sì, ma che sembrò subito causato da qualcuno o qualcosa che fosse caduto nell’erba; una giacca? la sottana? o forse l’intero corpo della Ghitta, ben più fragile allora di quel che vedendola non fosse loro sembrato?

“No, no che è tutto bagnato...” fece la ragazza.

“E cosa importa, se ci son io che ti scaldo e ti asciugo...” Quindi da alcuni rumori di foglie e rametti che si piegavano e da un più lungo, pesante scricchiolio, fu chiaro che il Lino era scivolato sulla ragazza e aveva preso ad abbracciarla in terra, tra il muro, il viottolo e l’erba.

Per un momento tutti e cinque si dimenticarono del turno e tornaron a guardarsi in faccia, gli occhi lucidi, le labbra mezz’aperte e le orecchie tese ad ascoltare.

Adesso la nebbia s’era fatta ancor più umida e densa e intorno non si sentiva più niente e nessuno, se non il ronzio di qualche bicicletta che transitava sulla strada vicina, il fischio o il passo di qualche ombra di là dalla cinta delle ortaglie, di là dalle case e di là dalle cascine.

In quel silenzio, quasi religioso, il gruppo aspettò attratto e sospeso fin quando le parole del Lino non li avvisarono che tutto, per quella sera, era finito.

“Cià, cià, un altro bacetto, Ghitta...” e dopo una nuova esitazione: “Allora, a domani...”

“A domani...” si sentì dir dalla ragazza che poi con passo furtivo accennò a perdersi sul lato opposto e a volar via.

A raggiunger gli amici, il Lino aspettò cinque o sei minuti, il tempo cioè che gli occorse per rimettersi un po’ in ordine, chiuder il giubbotto di pelle, darsi due o tre colpi di pettine e raddrizzarsi in qualche modo i calzoni. Ma anche quando apparve davanti a loro, non si fece nessuno scrupolo di nasconder il gesto che stava compiendo: il fazzoletto chiuso nelle mani, continuò infatti a strofinar imperterrito il davanti dei calzoni, anzi come li vide, accelerò il movimento e con aria un po’ stanca, ma strafottente e decisa, disse:

“Mi devo esser impiastrato tutto...”.