I delitti del Carisna

I

Il suo regno cominciava all’imbrunire, quando tra nebbia, umidità, fischi di sirene e stanchezza, le tenebre venivan giù da ogni parte e coprivan la città; allora, lasciato il posto d’aiuto-imbianchino che, quando c’era lavoro, l’induceva a spostarsi, dietro il capo, nelle zone più impensate e lontane della città, cominciava a sentirsi a suo agio.

Il delitto infatti coincideva per lui con la notte, tutt’al più con l’ombra d’una stanza. Ma quelli che assassinavano, come pur di tanto in tanto leggeva sui giornali o sul “Crimen”, in pieno giorno, sotto il sole che spaccava strade e cervelli, rendendo visibile ogni movimento, che gusto potevan provarci? Perché alla base del delitto non c’era tanto, come forse credevano gli inesperti, l’odio, la passione, il denaro e la vendetta, ma il bisogno d’immerger una lama nella carne e di vederne il sangue venir fuori, prima piano, poi a fiotti, e sporcar tutto un corpo, un corpo che doveva esser il più svestito possibile; quel biancore che, rantolando, s’agitava nell’angolo più oscuro e solitario d’una strada o sotto il silenzio sospetto d’un ponte, rappresentava per lui il massimo dell’emozione. Già, ma finita quell’emozione? Se per caso, diceva di tanto in tanto a se stesso, un giorno o l’altro l’avesse commesso lui, quel delitto? Se per caso fosse stato lui a doversi chiedere, davanti agli ultimi sbattiti di quella gola, di quel ventre o di quelle gambe: “e adesso cosa faccio?”.

Era a quel punto che, dimenticando la vittima, nella sua fantasia cominciava la seconda parte, parte che, se non era emozionante come la prima, non risultava poi meno drammatica e penosa; la parte cioè della fuga. Ragioni, torti, motivi occulti e motivi palesi non esistevan allora più, esisteva solo quel povero disperato che fuggiva, prima da una casa all’altra, poi da una città all’altra e, alla fine, da una all’altra frontiera, braccato dall’orda degli inseguitori come un agnello dai lupi, e che, se proprio voleva trovar un po’ di pace, “te, la tua fine, caro mio, è là, oltre il mare... Legione straniera... a poterci arrivare, naturalmente...”.

In quella seconda parte la compiacenza per l’orrore si trasformava in pietà; l’innocente diventava non più la poveretta o il poveretto che per soddisfare il bisogno dell’assassino s’eran lasciati uccidere con un colpo di revolver o con uno di trincetto, ma lui, chi cioè quel colpo, in un modo o nell’altro, aveva inferto.

“La scemenza,” diceva allora, “di far quelle cose lì con le pastiglie e col gas! Ma se devi uccidere, uccidi come si deve; salta addosso, stringi, colpisci, strozza.” Quella passione pei delitti era insomma il solo sfogo che la miseria cupa in cui era nato, in cui era cresciuto e in cui viveva pareva concedergli; due stanze, padre, madre e tre fratelli, quattro con lui; tre a letto assieme; l’altra, essendo una femmina, in una specie d’ottomana. Tante volte, quando se ne tornava a casa stanco, pieno di freddo e di miseria e, svestitosi e gettatosi in fretta e furia sul letto, si trovava già lì i due minori pacificamente presi dal sonno, il delitto se lo costruiva nella mezza luce di quella povera stanza; l’oggetto allora finiva per esser sempre uno dei due fratelli; soprattutto se il loro girarsi e rigirarsi li aveva ridotti ad esser, almeno in parte, scoperti, e a mostrar così l’alzarsi e abbassarsi di tutto il corpo al ritmo del respiro.

Senonché, quando la mano, che per fortuna era vuota, stava cadendo sulla gola o sulla coscia, una volta dell’Andrea, una volta dell’Egidio, trac una scorengia!

“Ma va’ un po’!” diceva allora lui e così il delitto finiva in una maledizione a quel gran mangiar patate, polenta, castagne e fagioli che tutti in famiglia facevano; perché poi non è che lui si comportasse diversamente, lui che magari durante il giorno aveva dovuto far sforzi su sforzi per trattenersi, almeno quando si trovava a mescolar tinte e a tener ferme le scale, in qualche appartamento di signori; salvo poi, in qualche movimento precipitoso, lasciarsele scappar lo stesso, secche e improvvise, come bottiglie stappate...

“Tromba di culo...” diceva allora il capo, con quel che seguiva; quel che seguiva era: “sanità di corpo”.

Sanità di corpo? Forse sì; ma tutti i foruncoli e le bungighe che gli riempivan la faccia? Se ne chiudeva uno di qua? Il giorno dopo se ne apriva un altro di là. E poi, gratta e gratta, certe volte facevan delle infezioni da pensar che stesse marcendogli la faccia.

Be’, dopo la scorengia o quel che si metteva di mezzo per fermargli il gesto sul più bello, finiva per riprender da sotto il cuscino il “Crimen” o qualche giallo, non però i soliti, ma quelli della “morte”, e allé, leggeva e leggeva fin quando, tra baci, seni, ventri, serrature che saltavano, bavagli, cassaforte, impronte digitali, linciaggi, cadaveri che galleggiavano a fior d’acqua, l’orefice di Genova che s’era fatto tagliar la gola da un marinaio e che sul comodino aveva lasciato vaselina, creme e profumi, “forse perché prima aveva voluto farsi far la fattura”, la donna di Mondovì che aveva rifiutato gli assalti del marito della figlia, finché questa, stanca di tutto e di tutti, una notte che in casa dormivano, s’era alzata, aveva girato la chiavetta del gas, e addio! Scema d’una scema, che era poi morta anche lei! Almeno scappa, cerca di sopravvivere, fuggi via, tra campi, strade, nebbia e avanti, massì, avanti! Fra tutto quello e i delitti della mafia, giù tra Caltagirone e Messina, delitti che a lui, francamente, interessavan meno, ma molto meno, il sonno veniva e col sonno un po’ di pace... Il tempo di risvegliarsi appena, maledir il naso dell’Egidio, quel naso così pieno che a respirar faceva più rumore d’un maiale, poi...

II

Carisna, perché era nero; neri i capelli; neri e spessi come boschetti i sopraccigli; nere e ispide le ciglia; viola scuro, quasi fossero perennemente bruciate, le labbra; e neri, per colmo, anche i puntini che si formavan in cima ai foruncoli e alle bungighe che gli riempivan la faccia; e, quantunque giovane, nera anche la peluria che cominciava a infoltirsi tra mento, occhi e tempie; nero appunto, quasi fosse coperto, sempre, di fuliggine; e magro; coi muscoli che scattavano sulle ossa come nodi di nervi e che di tanto in tanto si contraevano come sotto lo spasimo di un’agonia.

Per quell’oscura passione, che gli amici in parte sfottevano, in parte accettavano con una specie di stupefazione, il Carisna aveva dimenticato quel che aveva tra le gambe; forse, più che dimenticato, l’aveva passato in secondo piano; e mentre l’argomento formava il centro dei discorsi e dei desideri degli altri, per lui era soltanto un movente, come tanti, dei delitti; una preparazione, insomma; una scusa.

“Ma allora tu il coltello non lo pianterai mai nel ventre di nessuno...” gli aveva detto più di una volta il Pirata.

“Nessuna, non nessuno...” aveva specificato lui.

“E perché, nessuna? Se fosse per esempio il magnaccia o il ganzo di quella di cui tu diventi l’amante?”

L’amante? E cosa voleva dire? Naturalmente se lo chiedeva, non perché non lo sapesse, ma perché lui come lui in quei panni non sapeva vedersi in nessun modo.

Anche la sera in cui il Lino aveva permesso che la compagnia assistesse a uno dei suoi incontri d’amore, era rimasto là, freddo e indifferente a tutto quel frusciare di vestiti, scarpe, foglie e rametti, e a tutto quel gran sospirare: “Oh dio, Lino...”, “un momento, Ghitta, un momento che adesso arrivo anch’io...”. Se mai quel che l’aveva attratto era stata la possibilità che l’incontro si trasformasse in qualcosa di cupo e di losco; la mano del Lino che, per esempio, a furia di stringer la Ghitta, arrivava al collo e, una volta là... tanto che quando la Ghitta era caduta sull’erba, lui quel tonfo non l’aveva giustificato, come gli altri, con la felicità dell’amore, ma con il possibile inizio d’un assassinio; assassinio che, naturalmente, non era poi avvenuto; figurarsi se il Pirata, malgrado il nome, aveva quel coraggio! “Mi devo esser impiastrato tutto!”; e per quella volta, la cosa era finita lì.

Così, mentre gli altri della “compagnia dei matti”, la sera, preso il tram e arrivati fin agli archi di Porta Romana, si perdevan lungo i Bastioni per far la corte a una delle tante barbone che battevano i ruderi di viale Sabotino o i giardinetti del Montenero, magari le più vecchie e sgangherate, “quelle che, non fosse per voialtri, poveri pirletta, non ci andrebbero più insieme neanche i cani”, per spingersi certe volte fin nei dintorni del Ravizza o del Parco Solari, lui sgattaiolava e “allé, allé, Carisna”, anche lui, né più né meno di loro, sui Bastioni, tra i muri, i tronchi, i cespugli e le panchette, anche lui contro i ruderi e i mattoni del Sabotino, dove, dato l’odor che saliva, gli veniva da pensare che tutti andassero a farla, a turno, subito dopo aver finito quel che chiamavano amore; anche lui, come loro, dunque; ma per far cosa?

In punta di piedi, furtivo come un gattone che si fosse alzato sulle sole gambe posteriori, il Carisna avanzava allora nel buio, gli occhi puntati contro le ombre che andavano, venivano, si fermavano, si sfioravano, si voltavano, si mandavan qualche richiamo; e avanzando teneva la destra stretta dentro la tasca o, se la levava, era per brandirla nell’aria, spingerla un poco e poi subito fermarsi e allora aprir la bocca come per un grido d’orrore e di gioia, grido che invece non usciva mai; bene, quella mano stringeva un temperino e lo stringeva così forte che più d’una volta, in quel suo prospettarsi e fabbricar delitti, aveva finito col procurarsi sulle mani alcuni tagli lunghi, larghi e profondi, tagli che a casa aveva poi riferito al lavoro, quel lavoro della madonna che tante volte “te, mamma, ascolta, mi tocca tirar su pezzi di vetro, pezzi di lamiera, legni con dentro chiodi più lunghi d’un dito, eccetera, eccetera...”.

Le vittime contro cui, in quei momenti, si scagliava per uccidere (barbone o ruffiani che fossero) non eran mai a portata di mano; ma a portata d’occhi, sì, sempre; e il gesto veniva compiuto con tanta più eccitazione, quanto più la vittima era presa “nell’estasi dell’amore”, se era in coppia, o nel paziente inseguimento e nella paziente attesa, se era sola.

Il peggio, un peggio che coincideva però con un non trascurabile crescer dell’emozione, avveniva quando nei paraggi girava la camionetta della polizia; e il peggio del peggio, quando la camionetta si fermava, spegneva i fari e in silenzio cominciava la perlustrazione; allora, se i richiami dei pali appostati sugli estremi del viale, richiami che lui aveva imparato a interpretar nei vari significati, non l’avevan indotto a darsela a gambe, cominciava la fuga per i ruderi, le piante, le scalette, le ringhiere, gli angoli, fuga che protraeva oltre il necessario perché, subito dopo averla iniziata, gli si trasformava in quella d’un assassino vero e proprio: “son qui”, “no, son là”, “vengon da destra...”, “no, da sinistra”, “ecco, la sparatoria! Comincia la sparatoria!”.

Ma quella sera, una sera che per lui avrebbe dovuto essere memorabile e definitiva, il Carisna si aspettava tutto tranne che la vittima, scelta dopo una lunga e squallida battuta lungo i ruderi del Sabotino, che se ne stavan immersi come tutto nell’umidità, nella nebbia e nel gelo, gli si fermasse davanti per decine e decine di minuti, immobile come una statua, proprio come se avesse un appuntamento in quel punto e non, per esempio, mezzo metro più in là.

Si trattava d’una donna, d’una barbona vera e propria che, per quanto la nebbia gli aveva permesso di vedere, doveva esser già avanti con gli anni; grossa e grassa, gettava attorno a sé un’ondata di profumo forte e nauseante, e tenendo una borsetta sul ventre di tanto in tanto cantarellava qualcosa. L’aveva incrociata sei o sette volte, poi, visto che non c’era di meglio, aveva pensato d’aggirarla e portarlesi alle spalle; cosa che, come sempre, aveva fatto in punta di piedi e senza far rumore. Una volta presa quella posizione, s’era poi seduto sui talloni e così aveva atteso per rendersi conto se e chi la donna aspettava.

In quel modo era rimasto minuti dietro minuti, maledicendo ora il freddo ora le zaffate che la nebbia nel suo muoversi gli portava al naso; “la fan giù a secchi come cavalle!” diceva allora; poi aggiungeva: “meno male che si riempion di profumi...”; e aspettando aveva continuato a stringer il coltello nella mano e a stringerlo, aperto e affilato, con una tensione che non pareva conoscer riposo. Quella sera però la pazienza doveva esser proporzionata alla decisione cui s’era votato; perché se il passo avanti, cui da giorni e giorni pensava, non l’avesse fatto quella volta, non l’avrebbe fatto mai più; voleva avvicinar la vittima, parlarle, farla cadere nel laccio delle sue proposte e solo allora zam! Il pugno sarebbe calato finalmente deciso e furioso; e finalmente il gusto di ficcar una lama nella carne vera e propria e non nella fantasia, se lo sarebbe cavato.

Quando si fu convinto che, intorno, di disturbatori ormai non ne sarebbero più passati e che la donna aspettava sì, ma non una persona precisa, s’alzò e prese a tossire. Allora la barbona si voltò e sorridendo gli disse:

“Cercavi di me?”.

“Veramente...” fece il Carisna che si sentì prendere da un improvviso e, per lui, ingiustificato timore.

“Ma se non cerchi di me, cosa fai qui, intorno, a quest’ora e con questa nebbia?” aggiunse subito la barbona.

“Niente lavoro, eh, stasera?” ribatté a quel punto il Carisna, invece di rispondere; e fu quella una vera, insperata prova di prontezza che diede a se stesso.

“Se è per quello, posso sempre procurarmelo con te, il lavoro... Vogliamo divertirci un momento, allora, bel brunetto? Almeno se non sei biondo, perché stasera qui non si vede un’ostia...” fece la donna; e nel dir così allungò la mano sulla testa del ragazzo e prese a passargliela tra i capelli e da lì poi sulla faccia e sulla bocca.

Il Carisna si sentì prender da un moto d’ira e ribellione; allora serrò ancor più il temperino nel pugno e, agitandosi tutto e fin sudando, cominciò a prepararsi.

“Hai i capelli d’un torello... Magari sei un po’ magro...” La mano della donna era arrivata al giubbotto e adesso accennava a scender più in basso.

“Accidenti!” fece poco dopo. “Già così!”

“Così, come?” ribatté il Carisna, colto un’altra volta all’improvviso.

“E me lo domandi? Su, su che ci divertiamo...”

Il Carisna tentò un’altra volta di far forza su di sé e disse:

“Già, ma quant’è che vuoi?”.

“A te, siccome sei giovane, faccio lo sconto... I ragazzi van trattati bene... Fossi un uomo... E poi dipende da quello che vuoi fare...”

“Ma, dove andiamo?”

“Come, dove? Qui; stasera non c’è in giro un’anima...” fece la donna. “Allora su, su che poi ti mando a nanna e che a nanna ci vado anch’io... A parlare, adesso, tocca a te...”

Fu in quel preciso momento che il Carisna si sentì perduto e perduto per sempre; per reazione richiamò allora alla mente tutta la volontà di cui era capace; fingendo di cercar nelle tasche qualcosa, forse gli stessi soldi, s’avvicinò alla donna che aveva preso a spiar con gli occhi stanchi e affaticati i suoi gesti, afferrò con la mano libera la barbona per il collo e brandì il pugno.

Fu questione d’un momento; ma come se lui per primo avesse avuto terrore di vedersi nell’atto di calar il pugno e ferir veramente, sentì un bisogno improvviso e ingiustificato d’affondar la testa nelle spalle della donna; il caldo, l’impeto con cui la barbona gli restituì quel che credette un abbraccio, finiron di smarrirlo; allora, mentre portava il braccio sulla schiena per completar quel nodo che in verità non aveva voluto, il pugno gli si aprì di colpo; un tac metallico vibrò per un attimo nella nebbia; poi, quasi volesse ricuperar il senso di vuoto che scivolando a terra il temperino gli aveva lasciato, il Carisna cominciò a premer le dita sulla schiena della donna.

“Tira giù il paletò, tira giù il vestito, tira giù tutto...” disse allora con la furia precipitosa di chi vuol nascondere a se stesso il proprio fallimento e la propria vergogna; intanto, la testa dentro le spalle, cercava con alcuni colpi di far via il paletò per poter finalmente baciare, se non ferire, quella carne calda e viva.

“Prima dimmi cos’hai... E va’ piano, bambino, va’ piano perché se no mi rovini la faccia... Cos’è che hai allora?...”

“Cinquecento...” mormorò il Carisna che non aveva neppur il coraggio di sollevar la testa e parlare.

“Se arrivi a mille ti faccio divertire... Ti faccio tutto, se arrivi a mille...”

“Ho detto cinquecento. È anche troppo...” ribatté, senza convinzione, il Carisna.

“Troppo per una come me? Ma sai chi sono io? Sono la Serenella...” La barbona esitò un momento, poi fece: “E va bene, per questa volta, facciamo cinquecento... Ma prima, fuori ’ste cinquecento, se no, mani addosso, niente...”.

Il Carisna faticò molto a sollevar la testa; ormai si sentiva senza più nessuna forza e senza più nessun peso; proprio come se d’improvviso fosse diventato uno dei tanti che tutto il gusto lo provavan a sbattersi via con qualche barbona e a impiastrarsi di chissà che rogne.

Vista l’esitazione del ragazzo, la donna tornò ad allungargli addosso le mani.

“Proprio come un uomo...” disse; poi, mentre prendeva le cinquecento lire che il Carisna aveva levato dal giubbotto, aggiunse: “Su, su, andiamo là, dietro quel muretto... E se vuoi vedermi un’altra sera ricordati che nei giorni dispari io son sempre qui e che mi chiamo Serenella...”

Il Carisna avrebbe voluto rispondere con un insulto o una bestemmia; invece rimase in silenzio; disperato contro se stesso e contro la sua stupida vigliaccheria, seguì muto la barbona che, tenendolo per mano, nell’infittirsi delle zaffate umide, acri e maleodoranti, l’andava accompagnando in fretta e furia al luogo designato per l’amore.

Né disse niente anche quando, arrivata dove voleva, la donna gli spiegò chiaro e netto che agli uomini la cintura o quel che c’era al posto della cintura, a slacciarla voleva esser lei; “...e così anche a te, bel brunetto... Giusto, tu, com’è che ti chiami?”.

III

Glielo disse subito dopo e con altrettanta, sbrigativa chiarezza; siccome faceva freddo, era meglio far tutto in fretta; “non che non voglia farti divertire...”; e, prima d’inchinarsi sui ginocchi in modo d’arrivar con le labbra poco più giù della vita, aggiunse:

“Non avrai addosso alle volte qualche anticristo? Cià, cià che guardiamo...”.

“Baciarti qui?” fece poco dopo, rispondendo alla richiesta del Carisna: “Certamente, perché è la cosa che mi piace di più; a un verginello come te, poi...”; e quando s’era ormai convinto che ricuperar quell’occasione non gli sarebbe stato più possibile, anche perché il temperino se n’era andato a quel paese, il Carisna restituì la stretta con cui, non potendo con due, la barbona aveva preso a chiuderlo col solo braccio sinistro; la posizione in cui si trovava e il muro cui era appoggiato favoriron la forza con cui cominciò a stringer, prima la testa, poi gli zigomi, quindi pian piano il collo della donna; arrivato lì, premette anzi con tanta forza che la barbona, fermandosi di colpo, gli disse:

“Ma cosa vuoi fare, adesso? Strozzarmi?” E siccome lui, dopo un breve cedimento, riprese a stringer come prima:

“Basta, eh!” fece di nuovo. “Se no mi metto a gridare e ti faccio portare via dalla pola...”

“Sì, la pola!” commentò il Carisna. “La pola, cosa! Va’ avanti su, va’ avanti...”

E il mancato piacere di stringere lo sostituì con le parole che prese a mormorare; eran parole dove la rabbia si mescolava all’indignazione, il piacere alla vergogna, la gioia all’insulto: “su, su, troia d’una troia; su che ti mangio; su che ti schiaccio la testa; su che ti strozzo...”.

A un certo punto, pur nella nebbia in cui si trovava, al Carisna sembrò che tutto intorno gli girasse; allora chiuse gli occhi e così rimase, gemendo tra gioia e piacere, fin quando la barbona non si fu alzata e non gli ebbe detto:

“Ecco: servito anche tu. E adesso tirati su i calzoni e in fretta, se non vuoi prenderti un accidente... Se poi avrai piacere di rivedermi, ricordati che nei giorni dispari io son sempre qui...”.

“Rivederti? Sì, ciao! Un’altra volta se vuoi che ti venga insieme, devi esser tu a dar la paga a me...” borbottò il Carisna mentre, adoperando il fazzoletto, cominciava a mettersi in ordine.

“Un’altra volta faremo tutto con più calma e allora vedrai...” rispose la donna; quindi dopo avergli detto “buonanotte”, ciabattò via come una carcassa, e cantarellando si perse tra i tronchi, i ruderi, la nebbia e il buio.

Ecco; non solo era fallita l’impresa, ma forse era fallita ogni velleità di ritentarla. Si sentiva svuotato d’ogni energia, pieno di freddo e bagnato da tutto quel gran umido che s’era tirato addosso, prima facendo la battuta sui Bastioni, poi stando fermo insieme alla donna; vuoto, freddo, bagnato e deluso; deluso assai più di quando la sua squadra, dopo aver tenuto per tre quarti di partita lo striminzito vantaggio d’un goal, finiva a incassarne due negli ultimi minuti e a chiuder così con un fiasco la giornata; tranne che in quei casi aveva almeno la possibilità di scagliarsi subito contro qualcuno: “sei stato tu! Ti sei lasciato soffiar la palla come uno stronzo!”, “Terzino? Terzino, te? Ma va’ a fa’ un culo, va’”, “mettessero in porta mia sorella...”; come accadeva spesso quando, rientrati in quei gabbiotti che eran gli spogliatoi dei campi su cui giocavan la domenica mattina, tentavan di lavarsi e mettersi in ordine. Ma adesso chi o cosa poteva mai maledire?

Be’, lui lo sapeva; doveva maledir quel coso lì; perché lui aveva magari pensato d’esser diverso dagli altri, ma, al momento buono, gli era bastato sentir addosso il caldo d’una qualunque, anzi d’una barbona sgangherata come la Serenella ed ecco: niente; come tutti; anzi, peggio; peggio perché gli altri almeno, andandoci con quel deliberato proposito, potevan cercare, scegliere e finalmente trovar quella buona, quella con cui valeva la pena, oltretutto, di perder, come aveva perso lui, un biglietto da cinquecento... Per far poi cosa?

Meglio non pensarci; meglio salir, con tutta l’umidità, il freddo e la miseria che s’era tirato addosso, sul ventuno; traballare come un povero cristo; arrivar al capolinea; scendere; entrar nelle caserme della povera gente; salir le scale; aprir la porta, attraversar la cucina; passar nella stanza...

Sì, e poi, una volta a letto, con vicino quei due scorengioni della madonna, tirar fuori da sotto il cuscino il “Crimen”... Che “Crimen” d’Egitto!

Aveva i muscoli a pezzi, il ventre e la testa per aria, e il sacchetto vuoto come se gliele avesse asciugate... Un bicchiere, ecco; gliel’avesse messo sotto, avrebbe riempito un bicchiere... E quelli là che volevano far la gara... Ma che gara?

Stanco com’era, chissà se sarebbe riuscito a trovar la forza di sognarselo, il delitto che non aveva avuto il coraggio di commettere! Sognar che il corpo della barbona, proprio sul punto d’esser stretto dalle sue braccia, scivolava giù, colpito dalla lama... e poi sognar lui che correva, correva come un dannato; qua; là; Sant’Angelo; Melegnano; Lodi. “Ma per arrivar al confine?” Genova; il porto; le notti passate all’addiaccio su uno dei tanti merci che se ne stavan fermi, fuori dalle stazioni, nel mezzo dei prati; e alle prime luci, riprendere, con la sola speranza di poter passare incolume la frontiera. Al di là dalla frontiera, poi... Nizza; Lione; sul cui porto, vedendolo passeggiare, gli si sarebbe avvicinato un tale, uno che, prima con cautela, poi con chiarezza gli avrebbe fatto intender come, se lui voleva, ecco, sì, Algeri, la Legione...

E se invece, arrivato a casa, sul punto di levarsi i calzoni avesse avuto voglia di tornar indietro a cercar un’altra volta la Serenella o chi per lei? Mah! Ormai si sentiva talmente stanco che poteva proprio succeder di tutto! A quel punto, sentendosi un prurito violento nel mezzo della fronte, alzò la mano e cominciò a grattare; si trattava, certo, d’un foruncolo o d’una bungiga anche quella sera; gratta e gratta, la crosta prima si mosse, poi gli saltò via; allora dalla pustola venne fuori una specie d’acquetta attaccaticcia; meccanicamente si portò la mano nella tasca per prender il fazzoletto, ma, sentendolo umido e bagnato, preferì far tutto col dorso della mano, che schiacciò due o tre volte sul punto in questione. Infine, dicendosi che era marcio peggio che se avesse addosso chissà che rogna, fece gli ultimi metri e si portò sul salvagente di corso Lodi; adesso nella nebbia gli archi di Porta Romana s’intravedevan appena e appena s’intravedevano, come lievi luci che si sfaldassero, i fari delle macchine che passavano rade e senza far rumore, come se, invece d’andar in terra, volassero. Allora nell’aria si sentì lo scampanellio rabbioso del tram che di lì a poco gli si sarebbe fermato davanti, l’avrebbe caricato, per portarselo, con altri sei o sette infreddoliti passeggeri, fin al capolinea del Corvetto.