I
Che il Morini fosse seduto lì, appena oltre il ring, il Cornelio s’accorse nell’intervallo tra il terzo e il quarto round; più che vederlo, ne sentì gli occhi cadergli addosso con la stessa, cupa, ostinata violenza della sera ormai lontana in cui era entrato per la prima volta nella palestra della Boxe e Atletica Aurora; allora assieme a una vampata di rabbia, sentì subito un bisogno furioso d’esacerbar la vittoria verso cui era già avviato.
Malgrado, in obbedienza agli accordi prestabiliti, i secondi gli consigliassero di non incrudelir troppo sul rivale e di lasciarlo arrivar in piedi alla fine del combattimento, il Cornelio proprio in quel momento decise di cercar il colpo definitivo.
Fu così che combatté nelle riprese successive e con una ferocia di cui la sua classe, superiore di troppo a quella del rivale, gli permise di godere come d’una vendetta che andava via via infliggendo, non al pugile che gli stava di fronte, ma all’ex amico e protettore che gli stava di lato. Quando però il destro, portato da brevissima distanza, giunse a segno e lo sfidante crollò a terra e a terra, nell’urlo tra gioioso e orrendo della folla, rimase ben oltre il conteggio dell’arbitro, il Cornelio provò una sensazione improvvisa di spavento e di paura; spavento e paura che crebbero e si dilatarono quando, subito dopo, nel voltarsi per andar all’angolo, farsi levar i guanti e mettersi la vestaglia, i suoi occhi s’incontraron con quelli del Morini.
Di trasformar quello spavento in sdegno, il Binda fu incapace; l’obliqua dolcezza con cui il Morini gli restituì l’occhiata, accompagnandola con due o tre “bravo” gridati con la sua solita voce, proditoria e violenta, lo colpì di contropiede; e benché fosse quel che inconsciamente aveva desiderato per mesi e mesi, si sentì smarrito.
Né le acclamazioni né i saluti replicati da mezzo il quadrato né la gioia dei secondi e del direttore che, nonostante la violazione degli accordi, parevano non voler più finire d’abbracciarlo, né gli evviva, né gli urli riusciron a distruggergli quello smarrimento e a togliergli dalla testa la paura di quel che di lì a poco sarebbe accaduto.
Ma cos’è che poteva accadere? si chiese allora. Era inutile aver paura; il Duilio se ne sarebbe andato tal quale le altre sere in cui, pur non essendosi fatto vedere, era stato presente ai suoi incontri. E se invece m’aspetta? No, non l’avrebbe aspettato. Del resto che bisogno c’era di chiedersi tutto quello? Facesse, facesse pure quel che voleva.
La risposta a quella domanda l’ebbe però di lì a poco, quando il suo direttore entrò negli spogliatoi e gli disse:
“Non è necessario che t’aspetti io; stasera c’è fuori qualcuno che ha più piacere d’accompagnarti di me...”.
Sul momento il Cornelio, che se ne stava ancor lì ad asciugarsi, non seppe rispondere; ma subito dopo capì cosa le parole del direttore annunciassero; allora cercò di dirsi che il non aver risposto dimostrava la sicurezza che ormai nutriva in sé e di sé; una sicurezza alla quale s’era però subito opposto il battito veloce del cuore.
L’attesa sembrò così al Cornelio più lunga di quel che in realtà non fosse; e i pensieri che gli turbinaron in testa non fecero che rendergli più difficile preparar la reazione, una reazione che avrebbe voluto dura e violenta.
Ma che comandar agli impulsi fosse ben più difficile che tirar pugni, il Binda poté capirlo poco dopo.
Aveva appena finito di rimettersi gli slip quando, nello stanzone che la serie dei pugili nel loro prepararsi, svestirsi, ungersi, vestirsi per il match, svestirsi di nuovo, lavarsi e rivestirsi aveva riempito d’un’umidità acre e soffocante, contro cui poco poteva lo sfacciato odor di brillantina che vi campeggiava, s’aprì cigolando la porta.
Benché dal silenzio che tenne dietro avesse subito capito chi era entrato, il Cornelio non si voltò; in fretta prese dallo sgabello i calzoni e tentò d’infilarseli.
“Sempre più bravo...” disse allora il Morini, che s’era fermato appena oltre la porta, “...e sempre più bello...” aggiunse. “Vedere...” fece poco dopo, avvicinandosi.
Quando sentì il passo del suo ex protettore dietro la schiena, il Binda si chiuse i calzoni alla vita con un colpo e così li tenne anche quando il ras gli fu di fronte e vedendoselo lì, pallido, il pugno tenacemente chiuso, disse:
“Cos’hai? Paura?”. Poi, girandosi tutt’attorno e ritrovando nell’aria e nell’odor della stanza chissà che ricordi: “Ne ho così fatti cadere io, di sottane e di calzoni!”.
Il Cornelio lasciò che il Morini tornasse a voltarsi per andar verso il tavolo, quindi con un movimento congestionato s’allacciò i bottoni e si diresse anche lui verso quel punto per prender la canottiera.
“Sempre viola, eh?” fece il Morini facendosi scoprir nell’atto di stringere fra le mani le mutandine e manifestamente godere del loro umido fruscio. “Il colore dei campioni e delle primedonne...”
Come se non avesse sentito, senza tuttavia nasconder il tremito che l’aveva preso, il Cornelio s’infilò la canottiera e la sistemò poi sotto i calzoni e gli slip.
“Madonna, che schiena t’è venuta!” disse il Duilio. “Sembri una statua...”
Ma visto che neppure a quel complimento il Binda accennava a rispondere:
“E parla una buona volta! Dopotutto t’ho fatto io!”.
“Parla!” ripeté afferrandolo alle spalle.
Con un colpo dei fianchi, il Cornelio si liberò dalla stretta. Allora il Morini disse:
“Va bene, t’aspetto fuori. Ma non cercar di scappare; perderesti un’occasione d’oro; ho parlato di te col procuratore del...”. E lì fece seguir il nome d’un pugile di grido, nome che per la venerazione con cui il Binda ne seguiva la gloriosa carriera ebbe il potere d’irrigidir per un attimo il Cornelio e di farlo poi voltare verso di lui.
II
D’andarsene per una delle porte laterali che pure dovevan esserci, il Cornelio non pensò neppure; quella fuga, ove pur fosse riuscita, non avrebbe risolto infatti assolutamente niente; anzi avrebbe accentuato nel Morini la convinzione che doveva essersi già fatta circa la sua incapacità a ribellarsi e a reagire. Il meglio era dunque aspettare finché il custode stesso fosse venuto a mandarlo via; perché se l’attesa non fosse riuscita a indurre il Morini ad andarsene, l’avrebbe quantomeno irritato e deluso.
E così fece. Quando però si decise ad infilar il trench, a prender la valigetta e a uscir dalla stanza, non poté impedirsi di sentire una certa, sinistra curiosità per quel che immancabilmente sarebbe accaduto.
La macchina se ne stava infatti ferma a fil di marciapiede, una cinquantina di metri oltre l’uscita, e mostrava la portiera destra completamente spalancata come per un invito. Appena la vide, il Binda si girò da una parte e dall’altra e scrutò a lungo tutta la strada; non c’era assolutamente nessuno; l’aria che soffiava, fredda, come se venisse giù direttamente dalle montagne e l’ora tarda, avevan disperso i gruppi che di solito sostavan per decine e decine di minuti a commentar gli incontri nei dintorni immediati della palestra; la notte era limpida e tersa in modo eccezionale, e le stelle occhieggiavano e si spegnevano con intermittente rapidità. Fermo sui gradini dell’ingresso, mentre dall’interno il passo del custode risuonava per tutto il corridoio accompagnandosi al rumor delle chiavi che il vecchio teneva nelle mani, il Cornelio si sentì diventar leggero, come se il frizzo dell’aria l’andasse liberando di chissà che pesi; allora appoggiò la valigia, alzò tutt’attorno al collo il bavero del trench, si strinse con un colpo la cintura, guardò le lampade che oscillavan nel mezzo della strada e i cerchi delle loro luci che si muovevano come in una danza, e alla fine si decise a scendere e a camminare.
Quando fu a venti metri, vide i fari della macchina accendersi e spegnersi due o tre volte senza nessun senso e senza nessuna ragione. Si fermò interdetto, poi riprese a camminare; appena però fu a lato della fuoriserie, il Morini si sporse dal posto di guida e, bisbigliando, fece:
“Allora, sei deciso?”.
Il Cornelio non rispose. Nello stesso momento con uno strappo rabbioso il ras riavviò il motore, lasciò che il Cornelio facesse qualche decina di metri, poi fece partir la macchina e lo raggiunse:
“Vieni su, non far lo scemo. Ho detto che ho bisogno di parlarti...”.
“Parlar con me? E per cosa?”
“Siediti, siediti qui e ti racconto...”
“Sedermi sulla tua macchina? Neanche se mi strozzi!” rispose il Binda.
“Neanche, cosa?” gridò il Morini mentre piantava il piede sul freno e bloccava il motore; poi con la stessa furia aprì la portiera, scese giù, raggiunse il Cornelio e prendendolo per le spalle e per la gola gli gridò:
“Ho detto di venir su, e quando una cosa la dico io... Dopotutto la faccenda di tua sorella è a posto... Non sta sposandosi? E allora che scrupoli vuoi più avere?”
Il Cornelio tentò per altre due o tre volte di liberarsi dalle mani del Morini, ma l’inatteso riferimento alla sorella, riportandogli alla memoria tutto ciò che del passato e del presente vi si riferiva, e oltre al resto la faccia e fin il corpo dell’Achille, il macellaio che di lì a poco l’avrebbe sposata, gli fece perder ogni convinzione e ogni forza; tanto più che in quello stesso momento nella disperazione con cui il Duilio s’ostinava a stringerlo alle spalle e alla vita, sentì qualcosa di strano.
“Vieni, su, avanti... Non vorrai andar a piedi fin a casa tua, con l’aria che tira stasera...”
“Ma solo fin a casa...”
“E perché?” fece il Morini, guardandolo con l’aria di chi sta riprendendo nelle proprie mani il destino d’un incontro. “Dove vuoi che ti porti, se non a casa?”