Una notte agitata

I

Quando, dopo gli strappi delle frenate che l’avevan svegliato, avvertì il frastuono delle voci, dei richiami e dei saluti e, infine, il riprendersi rabbioso dei motori, il Marcello si voltò verso il comodino; allora, gli occhi intorpiditi, scorse nel buio le lancette fosforescenti dell’orologio: l’una e mezza era già passata.

“Ecco a che ora è tornato anche stasera!” si disse.

Nel giardino intanto i cani avevan preso a latrare, certo per il gusto che il Duilio aveva di spegnere e accender gli abbaglianti sul muso del Tot e del Fulmine. Neppure il tempo di dirsi questo e dal fondo dell’orto arrivaron i passi del custode; qualche richiamo lanciato all’indirizzo delle bestie; il cigolio del cancello; la ghiaia che gemeva sotto la macchina; la saracinesca del garage che s’alzava sferragliando; di nuovo il motore; di nuovo la saracinesca; di nuovo lo scricchiolio; una canzone cantarellata; “tutto a posto anche stasera, Antonio?” o qualcosa del genere; poi più niente; almeno fin quando non l’avrebbe sentito salir le scale, attraversar il corridoio e portarsi nella stanza.

“Quello lì anche il sonno degli altri rovina!” E a quelle parole il Marcello avrebbe voluto aggiungerne altre, ma lì per lì non gli vennero.

Subito dopo sentì i passi del fratello sulla scala; poi li sentì lungo tutto il corridoio; “speriamo che non vada in bagno...” si disse allora.

Invece il Duilio si diresse proprio là; il tempo d’entrar in camera, levar la giacca ed ecco lo scroscio dell’acqua dentro la vasca.

“Con tutto quel che combina, a lavarsi fa bene... Però, facesse un po’ meno rumore!” aggiunse a se stesso il Marcello, prima di girarsi nel letto e cercar la posizione che finalmente gli avrebbe permesso di riprender il sonno.

II

Levò prima una gamba, poi l’altra; nella vasca l’acqua, resa azzurra dalla soluzione ristoratrice, oscillò alcune volte lasciando sul bordo un rigo di schiuma grigiastra, finché pian piano si calmò; allora il Duilio s’abbassò e levò il tappo.

Subito dopo s’avvolse nell’accappatoio e prese ad asciugarsi pezzo per pezzo tutto il corpo; quando poi fu alle gambe, s’aiutò con un asciugamano che fece passar più volte dall’una all’altra parte.

Il bagno adesso era pieno d’un vapor caldo e d’un profumo così intenso che il Duilio pareva respirare con faticosa lentezza.

Come si fu asciugato, gettò accappatoio e asciugamano sul seggiolino e, nudo com’era, si specchiò nel cristallo che stava a destra della vasca: l’effige della sua bellezza e della sua prestanza, così come lo specchio gliela rimandava, era la conferma che ogni volta dava a se stesso di saper regger al ritmo frenetico cui, tra lavoro e divertimento, divertimento e lavoro, sottoponeva la sua vita, anzi di vincerlo.

“Potrei salir ancora sul ring...” si disse allora sollevando gli avambracci e facendo, senza molta convinzione, la prova dei muscoli. “Con tutto quel che ho fatto stasera poi...”

In quel momento, come del resto con più frequenza di quel che nel liquidar la faccenda avesse osato supporre, gli venne in mente la figura e la persona del Cornelio.

Seppur da lontano ne aveva seguito, tappa per tappa, la difficile ascesa; tanto più difficile in quanto il carattere scontroso l’aveva reso malvisto a tutti. Dalla sua società il Cornelio era passato alla Boxe-Porta Nuova e sotto quell’insegna aveva continuato a collezionar successi; successi sui quali era stato proprio lui col suo temperamento chiuso e superbo a spegner l’aura del trionfo; ma che gli intenditori avevan valutato nel loro effettivo valore.

Mai come quella sera tuttavia, mentre continuava a starsene davanti allo specchio e a soffiarsi sul corpo grosse nubi di borotalco, la cui eco giungeva fin sul cristallo formandovi delle chiazze grigiastre, si sentiva certo che lui e forse lui solo sarebbe riuscito a sgelar quella scontrosità e quella superbia; “anche la sera in cui è venuto qui per sistemar la faccenda della sorella, solo che avessi voluto...” si disse.

Sol che avesse voluto? Certo dimenticare il tremore che s’era nascosto sotto la decisione con cui quella sera il Cornelio aveva parlato, gli era stato impossibile; un tremore che, man mano lui s’era ostinato a fissarlo, l’aveva sbiancato e l’aveva poi fatto balbettare... Insomma l’affetto con cui il Cornelio gli s’era legato, almeno fin al giorno del match decisivo, gli pareva tuttora di ben altra natura di quel che solitamente lega un allievo a un maestro o un amico a un amico, che pur abbia aiutato a uscir dal buio alla gloria, anche se forse proprio da là era cominciato; neppur il Cornelio poteva dunque essersi scordato di lui; lui, del resto, gli aveva lasciato sulla faccia un tal segno che, ove pur avesse voluto, guardandosi nello specchio o anche solo passando la mano tra occhi e fronte, non avrebbe potuto non pensare a chi gliel’aveva inferto, quel colpo.

Come sempre, anche quella sera, le reazioni del Duilio davanti all’insistenza con cui il Cornelio gli tornava alla memoria furon doppie e contrastanti; da una parte sentiva una specie d’attrazione, dall’altra un bisogno di vederselo strisciar ai piedi come un verme, quasi dovesse ripagarlo di chissà che offesa. Ma quell’offesa poteva ridursi davvero al match per il titolo?

Adesso che gli avvenimenti s’eran allontanati di molti mesi, il Duilio sentiva di poter giudicare tutto assai meglio; no, non si trattava di quello; era come se, nel momento stesso d’aver da lui qualcosa, il Cornelio gli fosse sfuggito di mano e l’avesse lasciato lì, deluso, nel vuoto; un vuoto che non era certo il Cornelio, da parte sua, avesse veramente desiderato...

A quelle reazioni si sovrapponeva un senso d’invidia rabbiosa per i successi che la carriera sportiva del Cornelio aveva raggiunto, successi che, se fossero continuati ancora, pian piano l’avrebbero portato a una gloria non più di rione e neppur più di città.

Come se poi tutto quello non bastasse, a fomentargli il dubbio che la vittoria con cui s’era illuso di aver schiacciato il Binda s’era ridotta in verità a ben poco, s’aggiungeva quel che aveva sentito proprio in quei giorni circa la sorella: l’Angelica infatti aveva accettato la corte di un macellaio di piazza Prealpi e stava per sposarsi.

La difficoltà che il Duilio incontrava nel decifrar i propri sentimenti gli rese impossibile anche quella sera comprender fin a che punto l’Angelica l’avesse amata in sé e per sé, e fin a che punto invece per offender il Cornelio, per dimostrargli che se lui non aveva accettato, ecco, lei...

Adesso s’era rimesso addosso slip e canottiera e stava crogiolandosi al tepore che quegli indumenti, lasciati per tutto il tempo del bagno sul termosifone, gli comunicavan pel corpo.

Poi, sempre turbato da quei pensieri contrastanti, prese il dentifricio, levò dal bicchiere lo spazzolino e, prima di mettervi sopra un po’ di pasta, aprì la bocca, avendo però cura di tener ben strette, una sopra l’altra, le file dei denti; l’immagine intatta e splendente che lo specchio gli rimandò fu un’altra prova che la sua prestanza e la sua salute avevano e avrebbero vinto su tutti e su tutto.

“Certo; anche su lui,” si disse e si ripeté. “Anzi, soprattutto su lui.” Fu in quel momento che decise di riprender al più presto i contatti col Binda; tranne che, adesso, con l’esperienza di quegli ultimi mesi, non avrebbe usato mezze misure. Oltre che ai suoi piedi voleva esser certo e ben certo che sarebbe caduto finalmente e per sempre dal suo trono di campione.

Allora con una sorta d’oscuro piacere il Duilio cominciò a svitar dal tubetto il coperchio e a schiacciarne fuori, cedevole e rosa, la pasta.

III

Fu un momento; il latrato s’alzò dal giardino, improvviso e feroce.

Più che latrare, sembrò anzi che le due bestie urlassero contro qualcosa o qualcuno. Il Marcello, che aveva appena ripreso a dormire, si sollevò di colpo su d’un fianco, accese la luce e si mise in ascolto; adesso nel giardino i cani si gettavano e rigettavano di continuo sul cancello; tra un latrato e l’altro si sentivan i loro corpi spingersi, pesanti, contro le lastre di ferro, le zampe raspar furiose per poi tornar indietro e quindi di nuovo avanzare. Finché l’avvicinarsi d’alcuni passi non convinse il ragazzo che l’Antonio stava per arrivar da oltre il porticato della fabbrica; allora un colpo di fucile partì, secco, da sotto la sua finestra e si perse nell’aria; i cani smisero d’abbaiare; ma fu cosa d’un momento; poiché subito dopo ripresero con la stessa furia di prima.

Nello stesso momento il Duilio, che era rientrato di corsa nel bagno, finì di sollevar con una bracciata la tapparella.

Aperta che ebbe la finestra, si sporse in fuori e gridò:

“Cosa c’è, Antonio?”.

La risposta del custode, il Marcello non riuscì a sentirla; con un colpo saltò giù, veloce, dal letto; infilò le ciabatte; uscì; attraversò il corridoio ed entrò anche lui nel bagno.

“Cos’è successo?” chiese subito al fratello.

“Qualche scemo ha voluto divertirsi dando fastidio al Tot e al Fulmine,” rispose il Duilio.

“Mettiti qualcosa; a star lì, col freddo che fa, potresti prender un accidente...” fece il Marcello, vedendo che il fratello se ne stava a contatto dell’aria in slip e canottiera.

“Cosa vuoi che faccia il freddo a me...” ribatté il Duilio.

Poi, dal fondo del corridoio, arrivò la voce rauca del padre che domandava con insistenza cosa mai fosse accaduto.

“Va’ a dirgli che non è niente...” disse il Duilio al Marcello.

Il Marcello ubbidì e si diresse verso la stanza del padre.

Quando tornò, il Duilio stava per chiuder la finestra; l’Antonio infatti gli aveva ripetuto che doveva essersi trattato di qualche ragazzotto che, passando davanti al cancello, s’era divertito a disturbar i cani, chiamandoli e gettando poi loro addosso una manciata di sassi.

“Va’, va’ a dormire...” disse alla fine il Duilio. “Ormai tutto è a posto...”

Il Marcello disse: “Speriamo”; poi, mentre la tapparella s’abbassava fragorosamente, quasi la forza del Duilio ne avesse spezzata con un colpo la fettuccia, rientrò nella stanza, richiuse la porta e, levatesi le ciabatte, si rintanò come un bambino nel tepore del letto.