I
I primi sintomi d’impazienza, i primi segni che, tutto sommato, anche lei doveva pur decidersi a capire come, figli a parte, a parte cioè un bel peso, e non è che lui dicesse di no, il passo avanti a farlo era soprattutto lei, perché se lui trovava la sicurezza, i vantaggi e la pace d’una nuova sposa, lei trovava la possibilità di metter su casa e finalmente liberarsi dalla tirannia della famiglia (“almeno se è vero quel che lei, signora Annetta, mi ha detto e io non ho nessun motivo per dubitarne, tanto più che la signorina qualche accenno in proposito se l’è lasciato sfuggire”); ecco, quello e tutto ciò che di disagevole circonda il formarsi di simili situazioni, cominciò ad avvertirsi nell’aria dopo neppur un mese dal primo incontro.
Ma come aveva reagito nel frattempo la Giovanna di fronte alla presa di posizione della madre, del padre e della sorella?
Con rabbia e talvolta con violenza; ma più quella rabbia e quella violenza avevan determinato e guidato il suo contegno, più aveva sentito come il destino e la fatalità del timbro con cui una viene al mondo, e sotto cui si trova costretta a passar poi tutta la vita, fossero invincibili.
Non sarebbe mai riuscita a sposarlo; ecco quello che aveva sentito ogni giorno con più chiarezza.
Come? diceva allora a se stessa, ribellandosi. E perché? Quale argomento eran riusciti a trovar nelle loro requisitorie padre, madre e sorella che le dimostrasse come rinunciar a quel matrimonio fosse, oltre che suo dovere, sua convenienza?
“Aspetta. Non sei poi così vecchia da pensar che l’ultima occasione sia questa.” Fin a quel punto erano arrivate! Fino a negar la più elementare logica delle cose; che, se vi avessero pensato, avrebbero certo compreso come quell’occasione, oltre ad esser stata l’unica fin lì, unica sarebbe stata anche da lì in avanti.
“Non so, ci daremo da fare io e la Maria. Capisci cosa voglio dire? Qualcuno che sia più adatto, tanto per quel che riguarda il fisico, quanto per quel che riguarda lo spirito... Qualcuno più sensibile, ecco. Non si pretende molto, ma insomma...” E la disamina della madre quella volta era arrivata a tal minuzia e precisione di particolari da darle la certezza che si fosse presa la briga d’andar fino al Corvetto, parlar all’Enea a faccia a faccia e con quei suoi occhi crudeli e giustizieri carpirgli chissà che segreti.
Una disamina che più aveva cercato di parer obiettiva e disinteressata, più era riuscita ad abbattere quel “colosso di carne d’un uomo” creandogli intorno infinite ombre, infiniti sospetti e infinite crudeltà; quelle della madre eran state insomma parole cui pareva assegnato il compito di distrugger piano piano anche la possibilità che dentro quel colosso esistesse un’anima; “interessi, interessi e basta”, “e siccome dalle sue parti, dove lo conoscono per quel che è, non avrebbe trovato nessuna disposta a crederci, ha cercato di trovar la gonza dalla parte opposta, dove chi ne ha mai sentito parlare? Perché quattro figli son quattro...”; e poi, come un’ombra calante su quell’interminabile sequela d’osservazioni, la malattia della prima moglie, quel granino che, dài e dài, riproduciti e riproduciti, era diventato l’elemento intruso, l’elemento che ingorga lo stomaco come la canna d’un lavandino, quello che una bella sera (“sia ben inteso che a dir che è morta di sera sei stata tu; no, perché non vorrei che pensassi che io l’abbia chiesto e saputo da qualcun altro o da qualcun’altra”), dopo sofferenze “che han più della bestia che dell’uomo”, ti chiude il respiro e amen.
“Invece di fidarti di noi, di noi che dopotutto t’abbiamo messa al mondo e cresciuta, guarda un po’ a chi sei andata a credere! A una mezzo svanita come l’Annetta! A una che, tanto per dir tutto, la nostra famiglia non l’ha mai potuta vedere! E io da parte mia non mi sentirei di escludere che, facendo di tutto per farti sposar quel vedovo, cerchi di prepararsi lo spettacolo su cui poi ridere e godere...”
La cosa più strana, di cui non riusciva a rendersi in nessun modo ragione, era che la decisione e la rabbia con cui aveva risposto e s’era ribellata alle insinuazioni, alle calunnie e alle previsioni dei familiari, una volta a contatto con l’Enea si spegnessero completamente per lasciarla lì, sola e disarmata, una barchetta di carta in balìa di quell’onda di insinuazioni, calunnie e previsioni che, d’improvviso, sembravan diventar tutte giuste e tutte vere. Allora le tornava adesso il dubbio che mai e poi mai sarebbe riuscita a sposarsi, né con l’Enea né con nessuno; date le difficoltà in cui così facendo lei veniva a trovarsi, era naturale che l’interessato scambiasse il suo disagio per indifferenza o quantomeno per perplessità e indecisione.
“Non so,” le aveva detto la zia del Corvetto, quando le lamentele dell’ortolano avevan preso la chiarezza d’un vero e proprio ultimatum, “sembrerebbe quasi che tu non abbia più piacere... Questa almeno è la sua impressione. Io che ti conosco, io che so, posso capire e difatti capisco; senonché a sposarti non sono io, Giovanna, ma lui; e allora bisogna che tu torni alla sicurezza, alla gentilezza, alle maniere, insomma, di prima, altrimenti...”
“Altrimenti?”
“Be’, quattro figli non son pochi, è vero, ma resta pur sempre un partito che fa gola...”
“Fa gola? Zia, nei tuoi panni io non esagererei...”
Questa stupida frase, lasciata cader più per allontanare l’imminente cavalcata delle due nemiche, che per intima convinzione, ebbe in realtà la forza di dar una spinta gravissima verso il fallimento della relazione, e gravissima proprio perché inaspettata. La stessa zia, fin lì decisa a non abbandonar per nessuna ragione le due pedine del suo gioco di carità e di rivalsa, carità verso la Giovanna e rivalsa verso la famiglia, aveva avuto un contraccolpo; sulle prime s’era limitata a dire:
“Ma cosa dici adesso, Giovanna?”. Poi aveva cominciato a dubitar di riuscir veramente a sopraffare l’opposizione fredda, ferma e distruttiva dei familiari.
“E poi quando sei con lui,” aveva fatto riprendendo a parlare, ma con molta fatica, “cosa continui a parlar del Ninetto? Io capisco che lo fai per fargli intendere che ai bambini sei attaccata come una mamma e che dunque dei suoi, anche volendo, non riusciresti a stancarti mai; ma lui, l’Enea, con quei quattro terremoti che gli corron per casa, sentirsi vantare e vantar uno che non ha mai visto e per fortuna, intendiamoci, perché se poi lo dovesse vedere, pallido e striminzito com’è... Insomma, Giovanna, sai cosa vuol dire sposarsi? Vuol dire cambiar casa, lasciarne una e metterne in piedi un’altra che prenda il posto di quella in tutto e per tutto... Con il pericolo che questa possa esser l’ultima occasione che ti si offre, fossi in te, io...”
Fosse in lei? Ma insomma, cosa credevan che fosse, poi? Un mostro? Non era bella, d’accordo; non aveva niente, proprio niente che potesse interessar un uomo, salvo naturalmente la coscienza, il cuore, l’anima e la volontà di voltar indietro le maniche e sgobbar dalla mattina alla sera come una serva; ma anche l’altra, la prima, quella morta di cancro, cos’era stata? Una diva del cinema? Ollalà, quante storie!
Questo aveva pensato; ma di tutto questo non era poi riuscita a dir assolutamente niente.
“E anche i figli,” aveva aggiunto a se stessa. “Va be’, saran sani, saran forti, sani e forti che sembran torelli, ma anche il suo Ninetto... dopotutto al mondo non varrà solo la forza e la salute!”
Ma cosa le stava accadendo? Riusciva ad accorgersi che in quel modo ad aver ragione eran proprio i suoi tiranni? E riusciva a comprender che con quei pensieri rientrava e di sua volontà nella loro prigione? Il Ninetto e il Ninetto! Come se non fosse lei la prima a sapere che nel fondo dei suoi pensieri, più d’una volta, gli s’era scoperta affezionata, affezionata come una che al mondo non ha nient’altro, ma proprio nient’altro, e che se per caso le vien a mancar anche quello, addio...
Addio, cosa? Addio l’avrebbe detto lei e a ben altro, a tutto quello cui fin lì s’era sentita negata, sol che avesse continuato a scivolar per quella china! La zia, ecco chi aveva ragione; ragione nel dir quel che le aveva detto con tanta chiarezza, e magari anche un po’ di rabbia, ma sì, un po’ di santa rabbia contro i suoi, per motivi che lei non conosceva ma che certo dovevan esserci! Il Ninetto, sì, ciao, il Ninetto! I suoi quattro, suoi per modo di dire, be’ fa lo stesso; i suoi quattro, quelli sì eran ragazzi di cui inorgoglirsi anche al solo vederli!
Doveva resistere, come e più di quello che fin lì aveva fatto; e sforzarsi, quando si fosse trovata di fronte all’Enea; e all’occorrenza fingere; così da nasconder l’improvviso e ingiusto insorger delle requisitorie dei suoi; perché, prima o poi, essi si sarebbero stancati e allora, piuttosto che impazzire, l’avrebbero lasciata andar al suo destino. Ma fino a quel giorno, stringer i denti, trattener i nervi e resistere.
“Devi capire che difendendo il tuo matrimonio, è la tua vita che difendi”; e se poi quelle requisitorie l’avessero proprio assalita, combatterle di prepotenza e chieder aiuto a tutto, fin al sorriso, per sfrontato che potesse sembrare; “meglio quello, che l’incertezza e la freddezza”; così che in pochi giorni l’Enea tornasse a convincersi che la verità era proprio quella prospettatagli dalla zia, e cioè che lei in quegli ultimi giorni aveva fatto così perché non stava bene; “sa, signor Enea, con la lotta che deve sopportar in casa, col lavoro in stabilimento e fuori...”.
II
L’addio allo stabilimento, l’addio alle sirene e al suo gregge meccanico; ecco il motivo su cui s’era decisa a impostar la nuova fase della lotta, tanto più in quanto gli altri pretesti, davanti al fuoco di fila dei suoi, eran falliti quasi tutti. Quel motivo era stata la stessa zia a consigliarglielo, raccomandandole di non esser mai la prima ad attaccare, poiché così facendo avrebbe aggravato una situazione che invece era meglio risolver col tempo e con la calma, ma di limitarsi a rispondere quando veniva provocata e di risponder più che con rabbia, come aveva fatto fin lì, con logica e fermezza. “Fidati di me e vedrai che, malgrado non possa nasconderti che la faccenda s’è un po’ malmessa, arriverai in porto.”
Così, giorno per giorno, la Giovanna s’era messa a studiar le varie forme di quel nuovo piano di resistenza, pronta a metterle in pratica non appena i suoi le avessero offerto l’occasione. Ma proprio dal giorno di quel lungo colloquio con la zia, l’argomento del matrimonio in casa non era stato più ripreso.
Che pensare di quel silenzio? Era forse un modo concordato fra i tre per far naufragare, prima nel disinteresse, poi nel niente le sue intenzioni matrimoniali?
Come se avessero voluto farle capire che quelle eran follie di cui non valeva neppur la pena di discutere, tanto e tanto sarebbe stata lei la prima a capire e a retrocedere...
Quel che di vero in una simile ipotesi era contenuto venne però sbaragliato e ben presto dalla notizia che, una sera, tornando dal lavoro la madre s’era sentita in dovere di comunicarle; preoccupata, anzi affranta, quasi avesse scoperto imminente su loro tutti il pericolo d’una morte generale, la vecchia aveva detto:
“Hai sentito?”.
“Sentito, cosa?”
“Che la Maria ha ripreso a star male...”
La prova tangibile era che insieme al Ninetto, seduto a giocar in un angolo della cucina, si trovava lì, nella loro casa, seppur già a letto, la Giuseppina: la seconda figlia cioè della Maria.
“Non potevo certo lasciargliela là; con il vomito che la tormenta tutto il giorno...”
“Be’, ma non ci saremo solo noi! Sua suocera, per esempio, potrebbe decidersi a far qualcosa anche lei!”
“Fidati delle suocere, tu! Del resto, anche se volesse, non potrebbe. Lo sai anche tu che ha la sciatica... E poi, tanto per dir tutto, i figli di mia figlia...”
Naturalmente quella sera i discorsi eran tornati a rivolgersi tutti su quell’argomento, sul male della sorella e su quel che poteva essere, sul fatto che “oggi è stata un po’ meglio di ieri; insomma speriamo, ecco”, “dir cos’è non si può, però...”; poi che “stanotte è stata un bel po’ peggio di ieri, nausea e mal di testa che così non può più tirar avanti”; finché, non sapendo proprio più cosa fare, s’eran decisi a portarla da uno specialista. La risposta che avevan avuto?
Per carità sol che lei si fosse messa a pensare a chi eran sorella e cognato ed ecco, se la sarebbe trovata lì, bell’e pronta, davanti. E infatti nei segreti della sua coscienza a quella risposta lei s’era avvicinata più e più volte assai prima che padre, madre, sorella e cognato si fossero decisi per la visita allo specialista, ma ogni volta s’era ritratta, un po’ per paura, un po’ per scaramanzia. Figurarsi se il destino, il suo così lieto e favorevole destino, poteva lasciarsi scappar un’occasione come quella, un’occasione che gli avrebbe permesso di darle quel che si dice il colpo alla nuca! La sorella aveva ripreso a star male, ad aver la nausea e i mancamenti? E cosa ci voleva a capir la ragione?
“Allora, Giovanna, siamo andati,” fece la madre il giorno della visita, mostrando una certa pena nell’abbordar l’argomento, quando lei di ritorno dal lavoro, ebbe messo piede in casa. “Cosa vuoi, è alle solite...”
“Alle solite, come?” rispose la Giovanna, più per caricar l’espressione di noia, che per difficoltà a capire.
“Aspetta, ecco. Aspetta un’altra volta...”
Era la stoccata, il colpo di spada che la stendeva a terra per sempre; la Giovanna lo intuì subito; del resto in quegli ultimi giorni, facoltà di previsioni a parte, i suoi stessi pensieri ve l’avevan già indotta. Di tutta quella coscienza però, lì per lì, non riuscì ad esprimere che un gesto di stizza e qualche impreciso commento:
“Potevano star attenti una volta tanto! Come si fa, santo dio! Non son più bambini!”.
Bambini? Peggio! E peggio dei bambini quando giocano alla bambola! L’avessero potuto, uno al mese ne avrebbero fatto; perché, come diceva il cognato, “i figli son la benedizione di Dio!”. Benedizione di Dio anche quando ti metton la nausea dal momento in cui cominciano al momento in cui finiscono (sempre, naturalmente, che a finire riescano)?
E va be’, lei era disposta ad ammetterlo; ma allora benedizione anche quando son d’un vedovo e d’una povera crista morta di carcinoma al cieco!
Fu in quel momento; ferma di fronte alla madre stava ponendo a se stessa quelle domande, domande che contenevan già altrettante risposte, quando l’oggetto di quella parola, venutale finalmente in testa nella sua terminologia esatta e scientifica, quella con cui, parlandogliene, l’aveva sempre nominato l’Enea, s’identificò, di colpo, come per una simbiosi infernale, con la gravidanza, il feto, insomma quel che era, non tanto più comunque d’un robino così anche lui, della Maria.
La Giovanna ebbe un attimo d’orrore; gli occhi le si sbarrarono come se di colpo le si fosse aperta davanti la radice stessa della vita e come se quella radice, il meccanismo oscuro e schifoso che presiedeva alle nascite, tutte, anche di lei, sì, sì, anche di lei, e anche dell’Enea e dei suoi quattro terremoti, le si fosse rivelato non un ingranaggio splendente e vitale, ma un intrigo di vermi infetti e quanto più legati e abbracciati tra di loro, tanto più putridi e marci.
La madre che stava stirando s’accorse di quell’improvvisa esitazione della figlia; allora la guardò:
“Dico, non vorrai alle volte dispiacerti di questo... Perché i figli, tientelo ben in testa, Giovanna, i figli sono il più gran dono di Dio”.
“Il più gran dono di Dio?” fece la Giovanna a se stessa. “E cosa c’entra Dio con quel nodo di marciume, infezioni e malattie? Cosa c’entra con la gravidanza e il carcinoma? E se davvero c’entra, che razza di Dio è?”
Adesso capiva e capiva finalmente perché per lei la religione, la chiesa, le messe e la comunione due o tre volte l’anno, eran tutto e solo la Madonna; infatti se era vero quel che le avevan insegnato e che continuavano a dir giù dai pulpiti, lei, quell’intrigo...
“E che sia un dono di Dio,” fece la madre riprendendo a parlare, dopo un’esitazione, “è provato dal fatto che vien a proposito e a proposito due volte.” Aspettò un attimo una domanda o una ribellione della Giovanna; ma la Giovanna continuò a starsene lì, impietrita nel suo orrore. Allora con calma, mentre passava e ripassava il ferro sul davanti della camicia, aggiunse:
“A proposito due volte, perché, come puoi capire, adesso oltre al Ninetto dobbiamo tenerci qui, con noi, per qualche tempo anche la Giuseppina” (il “qualche tempo” avrebbe comportato, come minimo, la gravidanza, il parto, l’allattamento, i denti e i primi passi); un’altra esitazione in cui, fulminea come il taglio d’una falce, passò tra le due donne un’occhiata; quindi per concludere: “...e questo servirà a levarti dalla testa certe strane idee... Tu hai capito a cosa voglio alludere, è vero, Giovanna? Il Corvetto, la cosa, là, l’Annetta, quella povera rimbambita... Ammesso che, come dimostrerebbe il tuo silenzio di questi giorni, a levartelo dalla testa non abbia cominciato tu e con le tue stesse mani...”. Il ferro continuava a passare e ripassare sulla camicia minacciando di lasciar quelle lunghe scie gialle che facevan andar in bestia il marito; si trattava infatti della camicia della domenica; ma in quel momento la vecchia non aveva possibilità d’occuparsi di quello, come del resto di nessun’altra cosa, poiché era tutta intenta a godersi, nell’incapacità a reagir della figlia, la sua nuova, duplice vittoria.