I segreti delle montagne

La montagna è piena di segreti. Stanno nascosti per bene. Anche quando non c’è neve, restano al riparo. I boschi sono un mistero di parole: cantano ninne nanne, disegnano il vento, occultano le cose. Il vento fa cadere le foglie ma non svela i misteri. L’autunno è un vino che finisce, l’origine del vuoto. Vuoto a perdere per lunghi mesi. Vento e pioggia danno una mano, fanno pulizia, creano trasparenze.

Se non c’è l’autunno le foglie non si staccano. L’amore sta sul ramo e non si vede. Quando cade, si vede che è finito. Vento e pioggia non mettono d’accordo le foglie, eppure spesso danzano insieme per strapparle, fare il vuoto, svelare segreti. Le foglie stanno appese, fino all’autunno, vibrano, cantando ognuna la propria canzone. Sotto la sferza di vento e pioggia le foglie cantano e ballano. Nel frattempo nascondono spazi, creano orizzonti. Quando si posano coprono il sottobosco, occultando quella vita minima che striscia invisibile al terreno dove riposa il cielo estenuato delle stagioni.

È tutto un mistero, la montagna. Nei boschi, tra le rocce, nell’erba, dentro l’alba e i tramonti. Nelle notti senza sonno e sotto le foglie, dormono i segreti. Stanno negli occhi di uno scricciolo, nei deserti, in fondo al mare e nelle sconfinate pianure del mondo.

Dappertutto abitano i segreti perché nascono e vivono dentro di noi. L’uomo stesso è un mistero. Con un po’ di pazienza si possono scoprire e toccare i segreti delle montagne, mai quelli degli uomini. Gli uomini se li tengono ben stretti. Li proteggono con recite e bugie e atteggiamenti atti a depistare. Forse è paura. Chissà.

Occorre essere bambini e pensare ai segreti come qualcosa di necessario. Allora si andrà a cercarli. Da grandi, si frugherà nel luogo d’infanzia per trovarli. Il luogo d’infanzia può essere dovunque. Ci segue, si sposta con noi anche se andiamo in capo al mondo. Anche se finiamo alle Colonne d’Ercole, dove tutto sprofonda nel nulla. Il luogo dell’infanzia brilla nel ricordo, finché la sentinella della memoria non abbandona la postazione.

L’esistenza altro non è se non continua ricerca di segreti nel mondo. Essi riposano nella natura, dormono con un occhio aperto, vigilano, tendono l’orecchio. Appena sentono pericolo si celano più a fondo. Giocano a nascondino, e si fanno desiderare. Ognuno percepisce segreti nel posto dove vive, ma la voglia di cercarli ha origine nell’infanzia.

Erano in tre, tre bambini dei monti, e andavano a caccia di segreti lassù. Nati sul ripido di luoghi ostili, cresciuti tra le costole magre della miseria, avevano poche gioie da spartire. E nessun giocattolo. Per la verità uno esisteva. Un giocattolone immenso appeso sulle teste come i santi sopra le madie: la montagna. Giocavano razzolandovi come pulcini sulla chioccia. D’estate scalzi, d’inverno con galosce di legno. Calde ma dure, per niente comode. Però calde. A primavera, con gli scarpetti di tela confezionati dalle vecchie. D’autunno, scambiavano scarpetti e galosce coi piedi scalzi. Piedi nudi su tappeti di foglie appena cadute.

Veniva avanti il tempo a farli crescere. Piano, senza fretta. Senza nessuna fretta. O per lo meno così pareva. Gli anni invece passavano veloci. Furono anni duri, cattivi. Anni in cui molti segreti rimasero tali, sepolti nell’eterno abbraccio dei monti. E della morte. Tanti invece si svelarono. E ogni volta i fratelli rimanevano stupiti. Le scoperte cavate come tuberi dalla terra li esaltavano.

Molti uomini cercano di conoscere i segreti della montagna. Vogliono stanarli, renderli visibili. Vi riescono con maggior o minor successo in base ad alcuni fattori. Per esempio è importante dove uno è nato, come è cresciuto, quanto ha sofferto, chi gli è stato vicino. Chi ha avuto per maestri. Soprattutto quanto è sensibile la sua anima. Non a tutti interessano i segreti della natura. Forse non li sentono, o non hanno tempo di cercarli. Vedono le montagne come blocchi turriti, pilastri di roccia scabri e senza valore. Ammassi di pietre inutili, sorti qua e là per capriccio del tempo. Altri vedono il mare come una superficie piatta e monotona, utile a scivolarvi con le barche o le navi da crociera. O pigliare il sole sulla riva. Ma se alziamo lo sguardo, all’orizzonte del mare, si vede accennarsi la curva della terra. Proprio lì s’affacciano i misteri. Se frughiamo nel fondo, non bastano mille vite a contenere lo stupore. I pescatori lo sanno. I pescatori di un tempo, quelli che il mare amano e rispettano.

Il mare è una montagna che dorme, la montagna un oceano verticale. Non vi è differenza se non che uno è liquido e l’altra solida. Deserti, pianure, ghiacciai, paludi e monti sconosciuti sono pieni di segreti. Essi albergano anche in un granello di sabbia. Da dove sarà venuto? Chi l’avrà ridotto così? Com’era prima? Chi era? Queste sono le domande che innescano la caccia ai misteri.

Quei tre bambini se le ponevano, in maniera semplice. Senza aspettarsi nulla, si chiedevano le cose mossi dall’inguaribile curiosità di conoscere. Percepivano che i monti nascondevano qualcosa. Crescendo aumentava la voglia di penetrare nelle montagne. Sentivano odori, intuivano tracce, segnali, rumori. Giungevano suoni lontani che attiravano l’attenzione. Erano soli, forse per questo inseguivano i segreti: per avere compagnia, fare esperienza, imparare. Il vento spingeva i suoni in paese. Quei bambini ascoltavano e guardavano le cime dei monti fasciate di nebbie. Erano sempre avvolte da quelle che Hermann Hesse definiva “azzurre lontananze”. Bisognava salire in cima a quei picchi, trapassare le lontananze e vedere cosa si celava tra l’ultima scheggia di roccia e il cielo. La domanda sorgeva spontanea: “Che ci sarà lassù? Chi vi abita? Vi abita qualcuno? E, se esiste, com’è fatto?”.

Decisero allora di andare a cercare, perché sulle cime dimorano i misteri. Ancora non sapevano che cercavano se stessi, volevano conoscere l’origine dei loro spaventi, quel non poter dire mai nulla, l’assenza di risposte da parte degli adulti. Paure e drammi, fame, botte e miseria non erano sulle vette ma dentro di loro e li avrebbero accompagnati alla tomba. Lo capirono dopo. Molto tempo dopo, quando le cose avevano perso il primitivo splendore e la vita stava andando dall’alto verso il basso. Ma in quegli anni correvano sui monti a distrarsi. Lassù i segreti rimanevano intatti, sempre nuovi, affascinanti, rispondevano sempre ai loro desideri.

Passò il tempo. A diciotto anni uno di quei fratelli morì. Se ne andò presto. I due rimasti intrapresero un declino senza scampo. È il destino degli uomini. Ma oggi guardano ancora ai monti con l’occhio di chi cerca e aspetta qualcosa. Da lassù torna il vento dei ricordi, porta visioni del passato, belle e disperate. Porta il desiderio di salire ancora. Riconduce al tempo delle scoperte. Esiste un tempo che non tramonta, quello di porsi domande, trovare risposte. Il tempo delle curiosità non ha scadenza, spinge a cercare fino all’ultimo giorno. Come un cane cerca il padrone, l’uomo insegue i segreti per capire.

Ma la montagna ha un potere speciale: più si scoprono i versanti nascosti, i lati oscuri, più essa li cambia e li rinnova. Li rivela o li nasconde, stimolando gli uomini a impegnarsi di nuovo. In montagna non vi è nulla da mettere in banca, si inizia ogni volta da zero, ogni mattina da quello che resta. Alla sera si stringono vuoti d’aria, blu di cieli, un pugno di visioni scomparse. Per questo vi si torna. Per non avere nulla. La montagna è l’unica madre che gratifica i figli di niente. La montagna premia col nulla, ciò che offre non dura, non è cumulabile. Scompare presto.

Quei bambini partivano all’alba che ancora non si vedeva il sentiero. Andavano verso la vetta, quel puntino che brillava lassù, circondato di misteri. Tentavano di salire ma non era detto ci arrivassero. In montagna non si è mai sicuri di giungere in cima, a volte nemmeno di scendere. Poteva darsi che gli elementi posti a difesa dei segreti ricacciassero indietro quei ragazzini curiosi. O, una volta in cima, non li lasciassero più tornare in basso. In montagna l’avventura finisce quando si mette piede sui prati di fondovalle. Mai prima. E forse neanche allora.

Ma erano poco più che bambini, tutto diventava magia, tutto era un mistero che intrigava e incantava. Giocavano con la natura, cercando di rubarle i segreti. Di quelli si accontentavano, non serviva altro. La montagna era aula di scuola, insegnante. Bambola e maestra, stanza e spazio libero, prigionia e libertà. Era un bellissimo e complicato giocattolo. Gioia pura, la montagna, nella sua aria fina hanno imparato tutto. E imparano ancora. Vivono sulle sue spalle, non alle sue spalle. La guardano in faccia. Sopravvivono alle nevicate del tempo, frugano nelle valanghe della memoria con illusione di scoprire ancora qualche mozzicone di vita. Trovano ricordi, trucioli di un’età tornita, che non c’è più.

Intanto le stagioni avanzavano, sbiadivano anno dopo anno, sembravano più corte, il cuculo non aveva più quella voce, ma cantava ancora. Quei bambini partivano per salire alla vetta. Prima di toccarle i fianchi occorreva avvicinarli. Dovevano infilarsi nei boschi, trapassarli, sbalzare torrenti, saltare fossi, aggirare ostacoli, traversare radure. Di corsa come caprioli. Prima di avventurarsi da soli avevano avuto maestri, guide di provata esperienza, pieni di silenzio e modi spicci. Il nonno innanzitutto. Poi vecchi bracconieri, boscaioli, contrabbandieri, alpinisti e fannulloni. Vagabondi che frequentavano la montagna per il solo gusto di camminare. Di toccare, scrutare, vedere, stupirsi.

Era il tempo delle cose belle, ogni giornata diventava avventura. A iniziarli, come detto, fu il nonno. S’accorse che i bimbi guardavano le montagne. Le fissavano di continuo. Alzavano gli occhi puntando lassù. Il maggiore credeva che al di là di quei monti non ci fosse più nulla. Solo un grande vuoto che soffiava il suo alito di nebbie e foschie. E, in fondo, una sterminata pianura, come una striscia di calce bianca, che s’allungava ai remoti confini del mondo. Questo credeva.

Un giorno quel nonno taciturno, alto come un larice, la barba di licheni e sopracciglia di ragnatele, lo affrontò:

«Cosa guardi?»

«Le montagne» rispose il bimbo.

«Ti piacciono?»

«Sì.»

«Vuoi salire lassù?»

«Sì.»

«Domani andiamo» disse il vecchio.

E andarono. Fu memorabile. Una camminata lunga, una giornata lunga, su una montagna che non finiva mai. Il ragazzino voleva la cima. Per vedere di là, solo questo. Arrivare in punta e guardare oltre, scoprire cosa c’era dall’altra parte. Osservare finalmente la bianca pianura calcinata di sole. Mordeva il freno, era impaziente, ma il vecchio andava piano. Si fermava a fumare, aveva un po’ di vino in una borraccia d’alluminio, ogni tanto tirava un sorso. Tirava il fiato.

«Alla tua età correvo anch’io» diceva.

Fu un viaggio verso il cielo, dentro un mondo tentacolare che pinzava, mordeva, graffiava, spingeva, si opponeva. In calzoni corti e torso nudo, il vestito ruvido della terra si rivelò troppo aderente, il bimbo ne uscì scorticato. Alla fine sortirono dall’intrico dei boschi, salirono per prati e rocce e arrivarono in vetta. Il ragazzino mise il naso di là, ad annusare l’aria fina. Aveva sette anni, forse otto. Non ricorda. Ricorda invece quel giorno indelebile di delusione e gioia. Oltre il margine della vetta, c’era sì il vuoto, ma nessuna pianura bianca e sconfinata. Soltanto centinaia di cime, sparse qua e là dappertutto. Alcune a portata di mano, altre lontanissime, altre candide come fossero coperte di neve. Ed era neve, la neve eterna dei ghiacciai.

«Laggiù è l’Austria» disse il vecchio puntando un dito verso quei monti lontani. «Io ci sono stato, facevo il boscaiolo» disse come parlando all’aria, «mio fratello ci passò trent’anni, prima di tornare qui, a farsi ammazzare da un faggio. Si chiamava Santo Corona della Val Martín.»

Al bambino interessava poco l’Austria. Era rimasto annientato dalla realtà. Non trovò quella immaginata, ma una faccenda dura e triste. Le montagne non finivano, spuntavano ovunque a mo’ di schegge, sparpagliandosi per terra come cocci di bottiglia. E non c’era il fondo piatto. In basso niente pianure bianche sfinite di sole, ma inciampi di monti aguzzi sparsi dappertutto. Questa la delusione. La gioia, però, s’affacciò con altro volto: quello di sapere che esistevano ancora montagne da scalare, vette sulle quali posare i piedi. Su quella cima, il bambino capì che gli piaceva andare lassù. Allora decise che vi sarebbe tornato. In futuro doveva salire i giganti di pietra per il solo gusto di sedersi in punta. Tutto qui.

Era luglio. L’aria calda dell’estate accentuava il grande silenzio del mezzodì. Senza una parola il vecchio s’allontanò. Forse cercava i camosci o una lingua d’ombra per dormire. Chissà. D’improvviso il bimbo fu solo, ma per poco. Ancor prima di rendersene conto, si trovò in compagnia. Erano presenze, voci, sussurri. Misteriosi personaggi circondarono il bimbo che sentiva i loro passi sulle pietre arroventate della cima. Tutt’intorno la montagna sembrava agitarsi, affollata da esseri invisibili che parlottavano, ridevano, si spintonavano per avvicinare l’intruso e spiarlo. Accoccolato sulla cima, il bimbo non muoveva un dito. Ascoltava. Attorno a lui c’era il silenzio delle altezze appena mosso dal brusio apparso dopo l’assenza del nonno. Aveva netta la sensazione che sulla cima si fossero radunati gli spiriti dei boschi e i folletti delle rocce. Le storie udite dai vecchi accanto al fuoco si facevano reali. Solo dopo qualche minuto trovò coraggio di voltarsi. Gli pareva che dietro la schiena ci fosse qualcuno. Sentiva passi, soffi, rantoli. Resistette il più possibile ma l’inquietudine lo ghermì e dovette girarsi. Alle sue spalle si era palesato il nonno e l’incanto finì. Sparirono voci e sussurri. Le presenze s’allontanarono in silenzio, come in silenzio erano arrivate. L’impressione che ci fosse qualcuno svanì nell’aria tremolante dell’estate. E allora tutto tornò come prima, come se non fosse successo nulla.

Al bambino dispiacque aver perduto l’incanto, ma aveva capito che sulle cime vi sono presenze e soprattutto che per averne coscienza bisogna essere soli. L’isolamento creava mistero, originava al bimbo quella sottile angoscia che nasceva quando percepiva l’invisibile girargli intorno. Aveva la sensazione di essere spiato anche se non scorgeva nessuno. Gli spiriti c’erano e li sentiva.

Anche i fratelli volevano andare per i monti insieme. E ci andarono, e scoprirono che tra fratelli era come essere uno solo. Potevano ancora riconoscere le presenze. Ma bastava ci fosse un adulto, che soltanto si avvicinasse un adulto, e tutto finiva. Il bimbo aveva capito: gli adulti soffiano via gli incanti, rovinano le cose, sanno troppo e frantumano i sogni.