Un segreto che sempre affascinò i loro giorni fu il rimbalzo dell’eco, quel misterioso qualcuno che ribatteva, faceva il verso alle voci, rispondeva alle chiamate.
D’estate, i fratelli diventavano pastori alle malghe. In una di queste malghe, dal lato dove moriva il sole, stava nascosto l’eco. Bastava emettere un suono, uno qualsiasi, e dal muro occidentale partiva la risposta. Secca, perentoria, quasi arrogante giungeva come un colpo di fionda la voce arcana che li scuoteva dalla testa ai piedi. E loro si vendicavano. Per modo di dire. Lanciavano offese verso l’eco, che, a sua volta, le rispediva al mittente. Alla fine erano i bimbi a venire offesi. L’eco non mollava mai nei suoi rimandi, seguitava a rilanciare e aveva sempre l’ultima parola. Non c’era possibilità di vincere, l’ultima la voleva lui.
Ai bambini quella voce ricordava la nonna, una vecchia terrosa che non cedeva verbo finché l’interlocutore non ammutoliva. A quel punto concludeva acida: «Ecco, così». L’ultima voce era dell’eco e della nonna, che lo pronunciava con due “c”. Ma la prima voce rimaneva quella più misteriosa e inquietante. L’invisibile imitatore diventava sempre più astuto e introvabile, potente da mettere i brividi. Chi si celava dietro quelle risposte? Dov’era il folletto che imitava così bene le voci, tutte le voci del mondo? Non lo sapevano. L’eco seguitava a turbarli e avrebbe continuato a farlo per sempre. È uno dei grandi segreti della montagna, e tale rimarrà fino alla consunzione del mondo.
Negli assolati meriggi d’estate, le mucche spossate di calura riposavano sotto i larici del Pian di Tamaría. Regnava nell’aria il magico silenzio del mezzodì. Era un momento di pausa dentro la pace della montagna. I fratelli traversavano il ruscello del Cevíta per andare alla baita. Poco prima di arrivarci, incontravano l’eco. E lo provocavano. Giocavano ogni volta con quella voce di rimando che li affascinava. «Stupido!» e di là: «Stupido!». L’eco non perdona, non dimentica, non si distrae e ribatte colpo su colpo. Allora lanciavano complimenti sapendo che li avrebbero avuti indietro. «To su bel!» e di là: «To su bel!». E avanti così, anche con parolacce, frasi scurrili, saluti allegri e offese di vario tipo. L’eco ripeteva ogni sillaba, preciso, nitido, instancabile. Ma non era solo quello il fenomeno che incantava i ragazzi. La magia risiedeva nel personaggio che stava nascosto dietro il muro a imitare le voci. Invisibile, ghignante, stava lì, nei dintorni della baita, sempre pronto alla risposta.
Oggi che son passati gli anni, due di quei bimbi portano segni di vecchiaia. Uno invece morì giovane. L’eco di casera Bedin non risponde più ai suoi richiami. Dall’altra parte la voce è muta. Ma il personaggio è ancora là, intorno la baita, frequenta quei paraggi dal giorno della creazione. Vive ai piedi delle montagne, sotto le vette del Cevíta, la Palazza e le acuminate Porte di Ruditía.
Vi fu un tempo in cui i bambini sognavano, amavano fantasticare, s’accontentavano di poco.
Eravamo bambini dei monti con scarsi giochi e poche gioie.
Inizia così una struggente poesia di Renata Viganò dedicata ai bambini uccisi a Marzabotto. Pure quei tre erano bambini dei monti. E se non furono uccisi dalla brutalità di un padre padrone incapace del minimo affetto, la loro infanzia fu cospicuamente deturpata. Si rifugiarono sotto l’ombra protettiva di un nonno che pareva un larice. Era alto come un larice. Fu lui che li portò in alto, a conoscere i segreti della montagna. Quella montagna li salvò.
Una volta l’eco di casera Bedin li fece piangere. Era il mese di giugno, il padrone aveva appena caricato la malga. Caricare significa portare su bestiame e attrezzi. Il tempo era bello, il sole indugiava sulle vette di quei monti ossuti e aguzzi, che posavano i piedi su pascoli magri e ripidi. Veniva da chiedersi com’era possibile ci vivessero per tre mesi quaranta vacche. Eppure ci vivevano. Brucavano quelle erbe buone piene di colori e profumi. A settembre, quando terminava la stagione, più che vacche erano capre. Bestie magre e scaltre, contente di aver scorrazzato all’aria aperta.
Era gioco badare alla pastura
era gioia il frumento a mietitura
verdi nudi pascoli,
bagnati dalle nuvole d’autunno;
un primo piovere sulle foglie,
un odore amaro nella polvere.
Prosegue la poesia della Viganò.
I fratelli accompagnavano la mandria alla pastura, verso sera la conducevano a riparo. Poi mungevano una a una quelle vacche scapestrate. Ma non era un gioco, era fatica.
Quel giorno l’eco li spaventò. Stavano poco lontani dalla casera. Più in là, sul sentiero, pascolavano i capretti: il pelo bruno della schiena luceva sotto il sole, avevano musetti birbi e allegri, saltavano tra loro come a giocare. E giocavano. Fingendo di scornarsi facevano salti così. Non avevano ancora le corna ma le gambe erano buone. Zampillavano per aria come spinti da una molla.
Era sul mezzodì quando arrivò l’ombra. Uno dei pericoli per gli animali della montagna è l’ombra. L’ombra mobile e solenne dell’aquila. Quando ispeziona gira lenta, ma quando ha visto diventa stretta e fulminea. Si raccoglie come un fuso, poi va giù a piombo. Il segreto è che non fa rumore. I capretti non s’accorsero che scendeva la morte. La regina si fiondò a terra a stringerne uno con gli artigli. Gli altri schizzarono via, ma quello, serrato forte, si mise a urlare. Belava tutto il dolore del mondo. I cuori dei bambini belavano con lui. L’eco ascoltava il terrore del capretto. Ascoltava le sue grida e le ripeteva. Tutte, senza dimenticarne una. Indifferente ai lamenti strazianti, li rilanciava tal quali come gli arrivavano, senza aggiungere niente. L’eco non fa commenti, non ci mette del suo, registra e basta. Registra e rilancia in simultanea. Così erano due i capretti a belare di paura. L’aquila serrò gli artigli levandosi in volo. La schiena del capretto scricchiolò. Lui abbandonò la testa e non urlò più.
È difficile dimenticare i belati di un capretto ghermito dall’aquila. È come sentire un bimbo chiedere aiuto appeso a un ramo sullo strapiombo. I fratelli non scordarono mai la voce disperata dell’animale morente. La montagna è anche questo: morte in cambio di vita.
Pochi anni dopo, uno dei fratelli, quello di mezzo, sperimentò sulla propria pelle l’esser afferrato senza scampo. Per lui la morte arrivò dal basso, non dal cielo. Se lo prese l’acqua di una piscina, in terra straniera, a nemmeno diciotto anni. Prima di affogare ebbe il tempo di capire che stava passando dall’altra parte? Chissà. Chissà se gridò come il capretto di casera Bedin mentre andava a fondo. Qualcuno era lì, e sa, ma non ha mai detto nulla. La morte di quel giovane rimane un mistero, uno dei tanti misteri della montagna.
Prima che l’aquila della morte lo sollevasse dal pantano di una vita miserabile, quel ragazzo, assieme ai fratelli, fece in tempo a divertirsi col grande giocattolo della natura. Fu l’unica gioia che ebbe nella breve tribolata vita. Dissodare la montagna per cavarne i segreti era il loro divertimento. Se fosse vissuto più a lungo, forse avrebbe trovato altrove qualche felicità, ma ebbe durata corta: gli restarono un pugno di ricordi da portare all’altro mondo. Alcuni erano belli.
Una volta vollero fregare l’eco di casera Bedin. Il mezzano si appostò accanto al muro della baita. Gli altri due rimasero distanti, vicini al ruscello che cantava. Lanciavano urla e parolacce. Quello di guardia era delegato a scoprire il punto dove si staccava la voce per saltare dall’altra parte. Niente. Da lì non sentiva nulla, né partiva alcun suono. Era facile che l’eco non volesse nessuno intorno, nemmeno un bambino. Poteva essere così. Allora il ragazzino tornava mestamente verso i fratelli e subito la voce riprendeva a farsi sentire. Correva di nuovo là, a trovare il silenzio. Per tanti anni cercarono di dare un volto all’eco. Volevano incontrare un viso nel quale riconoscere l’invisibile. Niente, non ci riuscirono mai. L’eco si nascondeva senza rivelare il volto. Tale mistero rimane anche oggi nonostante molti sogni non s’affaccino più nella testa dei due superstiti, né la curiosità sia più tanto viva.
Eppure l’eco dei monti non smette di affascinare il viandante delle altezze. Nel grande silenzio degli assolati meriggi d’estate si possono sentire bisbigliare gli spiriti dei boschi. L’eco di casera Bedin oggi non risponde più. Forse è morto di vecchiaia, o lo ha spento la stanchezza. Oppure se n’è andato da un’altra parte. Dopo la tragedia del Vajont, non ci passò più nessuno per tanti anni e allora può darsi davvero che se ne sia andato. Sta di fatto che non canta più. E non c’è più nemmeno la casera. Della cara, antica baita non è rimasta traccia. Dai suoi muri calcinati di sole è stato ricavato un elegante osservatorio faunistico in dotazione al parco delle Dolomiti Friulane. Forse il nuovo edificio ha snaturato la magia. O l’acustica. Di preciso non si sa. Quel che si sa è che l’eco non risponde più ed è un dolore per chi lo ha sentito da bambino. Là, dove pascolavano mucche e manze, è cresciuta la vegetazione, il pino mugo è imperatore assoluto. I larici si torcono nel vento, strizzando quella resina che leniva le botte sulle ossa. Può essere causa l’intrico di ramaglie che l’eco non risponde più. Magari è impigliato là intorno tra il groviglio di fronde e pennacchi e aspetta qualcuno con la ronca che venga a liberarlo. Può darsi tante cose, sta di fatto che l’enigmatico personaggio si è ammutolito.
Tutto tace intorno a quella che fu l’antica casera Bedin. Perché il luogo è caduto nel silenzio? Anche questo è un segreto che la montagna non svelerà a nessuno. Eppure l’eco torna ancora a cercare quei bambini, veglia tra le pieghe del passato, nel ricordo s’annida il suo verso. Ogni parola un sussulto. Pan viene a cercarli, di nuovo, a spaventarli con le loro stesse voci. Parole di chi è rimasto, il sussurro dei vivi. Soltanto parole silenziose, ritorni di memoria come primavere. Stanche epifanie di nient’altro.