Le baite e i loro misteri

Sulla montagna un tempo esistevano le baite. O casere, come usava chiamarle i montanari. Casupole spartane, in muratura, tirate su a pietra e calce, raramente di legno. Spesso formate da soli tre vani. Un camerino più fondo, rispetto al piano, quasi sempre posto a nord per tenere fresco il latte. Un locale centrale, adibito a cucina e attrezzato per lavorare la mungitura del mattino e della sera. Infine una stanza di sopra, dove si ritiravano a dormire il malgaro e gli aiutanti dopo la giornata di sedici ore.

Da giugno a settembre, sui pascoli delle montagne brulicava la vita. Nei boschi e per le valli, giungevano col vento lontani muggiti di mandrie, e suoni di campanacci. E i richiami di mandriani e garzoni le cui grida rotolavano secche e prolungate, come se sputassero sassi. Il mondo della pastorizia, delle transumanze, delle fatiche all’aria aperta faceva sentire le sue voci. Un mondo arcaico e forte ormai scomparso e dimenticato. Ma l’aura di mistero, l’isolamento, la remota magia del tempo sono rimasti impigliati su quei monti, sulle creste affilate che vigilavano le baite, sui costoni traforati dal larice, dove pascolavano le vacche in precario equilibrio.

Il maggiore e il secondo dei fratelli regalarono estati di giovane esistenza lavorando nelle malghe. Esattamente sette. Il più piccolo rimase col nonno, tra le mura nere di caligine della vecchia casa, ma a sette anni fu ingaggiato anche lui. Solo vitto e alloggio, come gli altri. Fece in tempo a capire come funzionava una stagione, poi gli uomini tirarono giù il monte, e fu l’apocalisse e tutto finì, compresi i malgari e il loro mestiere.

Ma allora gli uomini vivevano della montagna. I ragazzi crescevano cibandosi a quel grembo, bevendone i segreti che, oltre a infondere forza ed esperienza, davano loro la formidabile curiosità di scoprire. Davanti alle baite assolate, avvolti dal grande silenzio del mezzodì, tre ragazzini si fermavano ad ascoltare i campanacci lontani delle mandrie disperse sui pascoli. Era come sentire la malinconia di chi s’allontana per sempre. Che non tornerà più.

In quei momenti di pace assoluta, intuivano la presenza di qualcuno. Forse era Pan, il dio dei boschi e delle selve, con lo zufolo incantato e la zampa di capra che batteva il terreno. Allora non sapevano si chiamasse così. Sapevano che c’era qualcuno e che poteva assumere mille sembianze. Dentro quei silenzi d’estate, calavano improvvisi momenti di profonda inquietudine. L’aria pareva fermarsi, diventare solida, gli arcani materializzarsi da poterli vedere, toccare, sentire. Estrarli dall’aria come da un cassetto.

Nel batticuore di attimi, Pan stava seduto a pochi metri, poteva palesarsi da un secondo all’altro, ma non apparì mai. Li spiava. Seguiva il loro timido pascolare come agnelli nell’erba fresca della vita. Può darsi che li proteggesse togliendoli dai pericoli o allontanando gli stessi senza se ne accorgessero. Di sicuro era così. Pan non faceva dispetti ai bambini operai, li teneva da conto, li guidava come il vecchio nonno. Ma loro non si fidavano, un poco lo temevano, un po’ volevano vederlo.

A volte, nel loro peregrinare di pastori, indugiavano davanti alle casere, costruzioni vecchie di secoli. Sulle porte stavano incisi a coltello centinaia di nomi. Personaggi ignoti, ormai fuori dal mondo. Cognomi e nomi sconosciuti, che nemmeno il malgaro rammentava. Una decina o poco più li aveva conosciuti, ma erano morti. Gli altri, buio. Accanto a molti c’era la data. Alcuni provenivano dal tempo dimenticato, cent’anni prima, anche più. Chi era quella gente? Chi furono quei nomi? Che vite avevano condotto? Che volti portavano? Si chiedevano questo i ragazzi. E poi domandavano al malgaro, che rispondeva alzando le spalle. «Gente» sibilava. Gente sì, ma dov’era finita? Quando si spensero quei nomi? E come? Dove stavano sepolti? Quei fantasmi intrigavano, s’erano portati i segreti nella tomba, e i fratelli ancora lì a chiedersi chi furono in vita. Nessuno sapeva niente o non voleva dire niente. Curiosità seppellite nella polvere del tempo, custodite gelosamente dalla montagna e dall’omertà. Segreti indicibili? Chissà. Ogni tanto qualcosa trapelava ma sempre poco nitido, e molto sfuggente. Come l’acqua di un fiume ghiacciato, che scorre sotto la superficie di ferro, distante che a malapena s’intravvede, a stento se ne ode il rumore.

Intanto, sulle porte delle baite, sulle finestre e sugli interni anneriti di fuliggine, centinaia di nomi attendevano che qualcuno scoprisse e rivelasse la loro storia. I ragazzi lo chiedevano, interrogando il malgaro. Volevano sapere.

Di sicuro per maggior parte furono vite tranquille, laboriose, serene. Ma non tutte. Chi era quel Firmin de Bono, che accanto al nome aveva inciso una bestemmia? E quella Maria detta Galvana, chi era? Dove e come erano morti? E sepolti? Nel cimitero? Forse no. I racconti della sera, uditi nelle stalle, tra il fiato umido dei bovini, dicevano che alcuni corpi stavano là intorno, infilati in qualche foiba. O nascosti sotto grandi mucchi di pietre, lapidati dopo morti. La montagna era anche questo, ricettacolo di vendette, forziere contenente lugubri segreti di morti ammazzati.

A volte il nonno accennava ai nipoti episodi da far accapponare la pelle. Come quello del pastore spinto in una foiba dal rivale. Il bastone del disgraziato, nome e cognome scolpiti nel manico, fu rinvenuto sul greto di un torrente in secca, a cento chilometri dal luogo del delitto. Il vecchio le accennava soltanto, fiabe uscite dalla fantasia, invenzioni sue. Forse non voleva che, una volta adulti, i nipoti affondassero le mani in quelle storie. Indagare poteva essere pericoloso. Allora le spacciava per finte, invece erano vere. I racconti di stalla lo confermavano. Bracconieri, cacciatori, pastori, boscaioli scomparsi nei secoli e mai ritornati. Né ritrovati. E poi donne sparite e più apparse ai paesi d’origine. Fuggite? Uccise? Ridotte a cenere nelle carbonaie? Può darsi. La montagna del remoto passato viveva di cose belle e brutte, come dappertutto: faide, vendette, odio, rancori mai sopiti covavano come braci, pronti a pigliare fiamma al subdolo alito dell’occasione. Sulla montagna qualcuno spariva così, senza lasciare traccia. Dov’era quella gente? Che fine aveva fatto? Nessuno lo sapeva. Chi lo sapeva di certo non andava a dirlo. Dodicesimo comandamento: non intrigarsi. L’undicesimo: arrangiarsi. E quelli si arrangiavano: a produrre il morto, fargli il funerale e seppellirlo. Tutto dentro il ventre chiuso della montagna.

Nel segreto cresceva l’impero del silenzio. Tombe sconosciute custodivano corpi in letargo perenne, collocati nelle più oscure tane dei monti che proteggevano accuratamente quei resti maledetti. Fardelli di morte che gli assassini non vedevano l’ora di occultare. Che mai venissero scoperti, né tornassero alla luce. Disfarsene per sempre, anche dalla memoria. I nomi sulle porte delle baite potevano restare. Quelli non facevano paura, né rappresentavano un pericolo. Al massimo evocavano il fatto, ma chi lo aveva compiuto non viveva di rimorsi.

Intanto gli anni passavano, il ricordo degli scomparsi s’affievoliva fino a disperdersi come un soffione al vento. Di loro non si parlava più. Finché il caso non ne portava alla luce qualcuno. Poteva essere una valanga a farlo, una valanga ciclopica che raspava il fondo del pendio, disseppellendo tutto. O una frana, un ghiaione che scivolava, una grotta screpolata che cedeva. Sta di fatto che d’improvviso, da qualche parte, saltavano fuori ossa umane sbiancate dalla calce del tempo. Femori e costole, tibie e teschi ghignavano al chiarore lunare svelando il nascondiglio. Ma non il segreto. Chi aveva nascosto quei corpi? Mistero.

«I morti non parlano» sentenziava il nonno. «Ma quassù i vivi parlano meno dei morti. Allora niente domande.»

I ragazzi non andavano oltre. Ritrovamenti e resti apparivano di rado, la montagna fasciava bene le sue mummie. Ai vivi non rimaneva che decifrare le povere ossa per dare loro un nome, prima di riporle di nuovo nella terra. Rare volte riuscivano. Però bastava una fibbia, il resto di un coltello, la canna di un fucile, per risalire al proprietario. Ma di solito rimaneva ignoto. Ai recuperanti non restava che dedurre chi fosse il morto e ipotizzare gli assassini. Ma nessuno apriva bocca.

Le baite sapevano e stavano a guardare. Le faide nascevano tra pastori, bracconieri, boscaioli, falciatori. S’incancrenivano nei cervelli scavando la via alle vendette. Le sparizioni avvenivano spesso vicino alle casere, dove era più facile incontrarsi e scontrarsi, ma anche altrove. La vendetta e l’odio non hanno zone di privilegio, soltanto luoghi a favore per esprimersi. Erano tempi, quelli, in cui tutto stava sospeso, il vago e l’incerto erano nebbia, il silenzio roccia. E nessuno andava a mettere il naso nelle faccende private degli uomini. Dentro i muri delle baite era successo di tutto. Se avessero potuto parlare, quei muri! I legni a volte lo facevano.

Raccontava il vecchio ai ragazzi che una volta fu rintracciato un morto solo perché aveva inciso il suo nome e un luogo preciso sulla porta della baita prima di recarsi in quel luogo e spararsi. Era un antro dove dormivano i bracconieri. Ma si era davvero sparato lui, con un vecchio fucile modello 91? Nella spelonca c’erano tanti nomi scritti sulle pareti con lapis di tizzoni. E uno nuovo, scritto in rosso. Un rosso scuro come sangue. Si leggeva “finamèi”, che vuol dire “finalmente”. Era stato lui, benché ferito, a trascinarsi e scrivere l’esclamazione della sua morte come una liberazione? O era stato quello che l’aveva ucciso a firmare col sangue della vittima la soddisfazione d’averlo accoppato? Può darsi lo avesse scritto per far trovare il corpo. Un gesto di pietà, l’ultimo dovuto ai morti. Questo poteva essere.

Questi erano segreti della montagna. Morti ammazzati che palpitavano nel cuore dei monti come fossero ancora vivi. Fino all’oblio. E i muri seguitavano a tacere, le porte cigolavano al vento ed era l’unica voce. Dei morti nessuno ha saputo nulla. Furono poche, infatti, le ossa degli scomparsi tornate alla luce del sole. Veramente poche. La montagna è come il mare, un oceano verticale di boschi, onde pietrificate e segreti. Il mare è una montagna distesa, che non ha pace né fine. Nel mare si possono individuare forme, oggetti, qualcosa da riportare a galla. Sulla montagna no. Foibe, cunicoli, spaccature, bosco, sottobosco, antri, caverne. Tutto, lassù, si presta a occultare. Ciò che naufraga nel mare verticale difficilmente verrà recuperato. La montagna non restituisce nulla, è gelosa di ciò che le cade in grembo. Risucchia, tira dentro, ingloba. Come quegli alberi che tengono sul cuore le schegge delle granate che li colpirono durante le guerre. È un fiore carnivoro, chiude i petali su tutto ciò che si posa. Solo il caso può far emergere un avanzo dal suo ventre misterioso.

Di quelle sparizioni, nei paesi, si diceva fossero disgrazie. Cose che colpivano chi viveva nelle terre a rischio. E tutto finiva lì.

Sono calati gli anni, ormai, su quelle remote estati alle baite. Di esse non vi è più traccia. Alcune sono crollate, altre trasformate in bivacchi alpini. I campanacci non suonano più. Tacciono appesi nelle taverne di eredi e pronipoti dei malgari, gente giovane, con lauree appese accanto ai campanacci e nessuna passione per la montagna.

I tarli hanno rosicchiato molte cose in mezzo secolo. Ma le stagioni si susseguono una dopo l’altra, come sempre. Ora sembrano più veloci. D’autunno vola il vento a muovere la ruggine dei faggi, l’oro degli aceri. Di quei bimbi dei monti s’è persa memoria. Il secondo dorme nella tomba. L’ultimo non vuol saperne di quei tempi, nemmeno sentir parlare. Il maggiore dei fratelli cerca il vecchio amico: ha la certezza che Pan vagabondi ancora per gli amati monti e nelle selve. Un giorno lo vedrà. E sarà l’ultimo. Il dio dei boschi appare a chi ha poco da vivere. Quando vedrà Pan, capirà. Il mistero della montagna comprende anche la percezione della morte.

A tal proposito gli viene a mente un fatto.

Il fratello di mezzo era uno che parlava poco, un tipo, come si dice, taciturno. Poche parole ogni tanto, come suo nonno.

S’annunciava timida la primavera del ’68, ricca di fermenti ribelli. Sulla montagna non c’era motivo di contestare, era vietato. I fratelli ormai cresciuti lavoravano al bosco. Quello di mezzo affermò di aver visto Pan. Era il mese di marzo, Pan correva sulla neve, come i tronchi che i ragazzi trascinavano a valle. Forse lo disse per elevarsi, attirare l’attenzione. Non si sa. Visto che non usava farsi notare con nulla, la cosa stupì. Lo rivelò nei boschi della Val da Diach, anche suo padre era presente.

«Ho visto il Mazzaruol sulla neve» disse.

Fu l’ultima emozione. L’epifania tragica di un ragazzo nella sua breve primavera. Emigrò per cercare riscatto. A fine giugno era morto. Da quel giorno il fratello maggiore maturò una convinzione: chi vede Pan muore entro l’anno. Come chi uccide il camoscio bianco. O vede volare il Pivason. Favole delle montagne? Credenze? Può darsi. Ma può darsi anche no. Intanto servono ad affilare fantasia, scaldare il mistero. Servono a tener viva la paura d’incontrare il ghigno di Pan, nelle valli alpine chiamato Mazzaruol.

Un vecchio signore dei boschi, uomo che vagava giorno e notte per le montagne, amico dei ragazzi e loro maestro, affermò di aver visto il Mazzaruol. Fu una sera d’estate, verso l’imbrunire, alle baite di Carmelía. Indagatore del buio, personaggio enigmatico e schivo, Fulgenzio Bico era un Cercatore di emozioni. Per trovarle camminava di notte. Di giorno ce n’era meno. A quel tempo i fratelli stavano uniti, la morte e il seguito della vita non li avevano ancora separati. Incuriosito, il maggiore domandò a Fulgenzio che aspetto avesse il Mazzaruol, visto che era stato il primo a trovarselo di fronte. Astutamente il vecchio nottambulo rispose che non poteva descrivere nemmeno un pelo, altrimenti il dio dei boschi si sarebbe vendicato. Era nei patti: se parlava gliel’avrebbe fatta pagare cara. Fulgenzio cercò di parare i colpi delle domande alla meno peggio. Aveva di fronte ragazzi curiosi, che lo incalzavano. Ma è più probabile che quell’uomo dall’intelligenza acuta avesse di proposito omesso il ritratto di Pan. Molte figure magiche dei boschi devono restare nel segreto, vivere nell’incanto del mistero. Dar loro una forma, una qualsiasi parvenza equivale a spazzarli via. Fotografarli, seppur con la fantasia, ed esporli al pubblico, è ucciderli. Meglio che ogni persona immagini a modo suo la figura di Pan, il dio dei boschi, e di tutti gli altri spiriti silvani.

La verità è che nessuno al mondo ha mai visto il Mazzaruol e mai potrà vederlo, se non per morire in breve tempo. Questa convinzione il maggiore la maturò dopo la tragica scomparsa del fratello, che un remoto pomeriggio di marzo confessò di aver visto il Mazzaruol.

C’è uno scultore che vive sui monti, luoghi aspri, ignorati dalla moda, dove la neve non cade firmata. Sono quarant’anni che quel testardo sbozzatore di tronchi cerca di cavare dagli alberi l’astuto Mazzaruol, ma lui sta dentro e si cela guardingo. Ogni volta per lo scultore è un fiasco. Saltano fuori sembianze di gnomi, figuri bizzarri, pelosi, zampe di capra, barbe fluenti, occhi furbi. Personaggi certamente efficaci, pittoreschi, inquietanti all’occhio, ma che nulla hanno a che vedere con il fantomatico dio dei boschi. Nemmeno l’arte suprema di Michelangelo poteva fermare la corsa dell’Úan Salvárech o Mazzaruol, come dicono i montanari. O Pan l’eterno, secondo la mitologia. Nessuno può stanarlo, e dargli corpo. Inventargli un aspetto è ucciderlo. E poi non è lui. Di questo lo scultore dei monti è sicuro. Ciononostante seguita ancora a provarci.