Le ombre dei monti s’allungano sulle remote pianure. Il vento a volte svela i segreti, volando porta le voci, fa udire presenze lontane...
I ragazzi, ormai giovanotti, annusavano l’aria. Annaspando nei misteri della montagna, provando a svelarli, erano diventati scaltri. La ricerca li aveva temprati, addestrati come cani da ferma che fiutano la preda. Selvaggina ben nascosta, trovarla era difficile. Le vette tengono al riparo i loro tesori. E le loro mummie. Da qualche parte c’erano scheletri, oro, utensili. Ma loro cercavano fucili. Armi di ogni calibro, nascoste dai bracconieri del tempo che fu. O armi da guerra dei partigiani. Sulla montagna c’era di tutto, ma ci furono periodi particolari in cui cercarono fucili. Trovare i depositi di armi dei bracconieri diventò priorità assoluta. Aveva un fascino senza pari.
Il più vecchio era diventato cacciatore, soprattutto lui voleva i fucili. Ma anche gli altri. Per tenerli in mano, giocare alla guerra. I bracconieri erano morti, non sarebbero tornati a prenderli. Furono poveri uomini, fuggitivi che vivevano nei nascondigli come le martore, uomini braccati e senza pace, sepolti dal tempo nei cimiteri o in qualche foiba assieme ai loro segreti.
I ragazzi interrogavano i vecchi. Si facevano raccontare storie mediante le quali risalire ai luoghi delle armi, ma nessuno voleva scucire informazioni precise. Allora partivano alla cieca. Perlustravano buchi, anfratti, foibe. Ispezionavano casolari abbandonati, baracche e fienili. Entravano col fiato corto in ogni grotta. Niente. Si calavano in fori di tarli sospesi a pareti verticali da mettere i brividi. Se non era possibile in corda, le risalivano arrampicando. Erano rocciatori provetti ed erano ancora in tre. Qualche volta i fucili saltavano fuori. Sotto un lastrone, dentro una spelonca, otto d’un colpo. Fu un raggio di sole a svelarli. Il sole di luglio e una certa ora dettero luce a un chiodo ficcato nella roccia. Puntato il binocolo, furono certi: un chiodo con anello!
«Sono passati là» disse il maggiore.
«Su e giù» disse il mezzano.
Scalarono venti metri di roccia come gatti. Il più piccolo aspettava alla base. Se c’era un chiodo, qualcuno era salito all’antro. Lo perlustrarono. In un angolo stava un lastrone piatto come una pietra tombale. Nemmeno pensare di rimuoverlo. Allora cominciarono a scavarci sotto. C’era l’ombra di un muretto. Lo demolirono e apparvero i sacchi. Prima di iuta, dentro nylon e poi coperte. E poi fucili. Otto. Quattro doppiette coi cani, il resto fucili a palla, visto che avevano una sola canna. E una carriola di cartucce dentro una cassa posta sul fondo. Volevano far tutto da soli, calare i sacchi e poi calarsi loro. Ma presero paura, il bottino scottava. Avvertirono gli adulti e addio fucili.
Allora seguitarono a cercare sogni sulle balze del terreno preferito. A ogni passo, la montagna poteva sorprenderli con qualche colpo di coda, regalare un segreto. Ma bisognava frugare, soprattutto saper vedere e ascoltare. E avere pazienza. Tanta pazienza usata bene. “Fuochino, fuochino” suggeriva ogni tanto la montagna. Di notte si faceva misteriosa, inafferrabile, ermetica. Diventava lontana, eppur così vicina che la sentivano addosso, come appoggiasse a loro tutto il suo peso di stanchezza. Le montagne oggi sono stanche e impaurite, incise dal filo del tempo, hanno paura dei malvagi. Conficcate sulla terra, che gira e le stordisce, s’aggrappano al buon senso degli uomini migliori, affinché le proteggano e le salvino dalla rovina. Una rovina di sfruttamento e sporcizia.
I fratelli vantavano amicizie particolari nella montagna notturna. La quale, per attirarli, liberava le sue voci. Versi incandescenti, senza partenza né traguardo, trapassavano la selva e si spegnevano come stelle cadenti. Rauchi belati di rapaci notturni balzavano improvvisi dal ventre buio della notte. Dopo un breve salto cadevano sui ragazzi in forma di minaccia: “Che ci fate qui? Andate via, comandiamo noi, il bosco è nostro” così dicevano. Soffi, rantoli, sussurri esplodevano di colpo, arrivando in faccia ai ragazzi come schiaffi. E lamenti di barbagianni rompevano il silenzio come sternuti malati, creando atmosfere di mistero e paura. Tensione e inquietudine crescevano, il batticuore aumentava ma la caccia ai segreti non contemplava fughe. Cercavano il gufo reale, che spargeva il suo canto disperato a pochi passi da loro. Strisciavano fin lì, carponi, come i rospi, ma il gufo era un metro più in là. Andavano là ed era ancora un metro più avanti. Tutta la notte così. Lo avevano a una spanna ed era irraggiungibile, come certi traguardi della vita. Allora si fermavano esausti ascoltando piovere i suoni. A quel punto il gufo faceva dietrofront e si recava dai ragazzi a farsi toccare. La vita invece non torna. Nemmeno la gioventù. Se uno si ferma ad aspettare, niente torna indietro a cercarlo. Tutto procede e fa la sua corsa.
Molti anni dopo, ripensando a quelle notti perdute nel tempo, il maggiore capì una cosa: il successo che cercava e non trovava era quel gufo, più lo rincorreva più scappava. Quando si fermò, stanco e sfiduciato, seduto sul ceppo dei fallimenti, senza speranza né più voglia di correre, ecco la sorpresa: il gufo si mosse, tornò indietro e lo abbracciò. L’abbraccio fa parte dei ritrovamenti.
Ogni tanto la montagna concede di trovare. Soprattutto la propria strada, mediante precise indicazioni. Pazienza, costanza, fatica, curiosità, entusiasmo. E poi tenacia, volontà, coraggio. Non si finirebbe mai di fare l’elenco.
Nei paesi delle valli alpine, balzavano da un campanile all’altro notizie di rinvenimenti, a volte d’incredibile suggestione. E valore. Molti di quei ritrovamenti rimanevano segreti per ovvie ragioni. Solo dopo anni, quando non rappresentavano più un rischio, alcuni sono diventati di dominio pubblico, suscitando spesso invidie e rancori. Sentimenti non ancora sopiti.
Una volta, dopo l’ultima guerra, in una grotta appesa al monte, due boscaioli trovarono una cassa piena d’oro. Lingotti, fedi nuziali, orecchini, collane. E altro materiale prezioso. E una pistola Luger di provenienza tedesca. Un tesoro senza prezzo. Non aprirono bocca con nessuno. Lasciarono il paese, uno dei tanti delle valli al nord, e filarono in Svizzera. A investire e fare i signori. Dissero che andavano a cercar fortuna ma, nella patria del tempo scandito, entrarono già ricchi.
La faccenda saltò fuori molti anni dopo, quando dei due non rimaneva memoria se non in qualche erede. Quella cassa era l’oro donato alla patria dalle genti dei paesi durante la guerra. Sottratta, nascosta e poi recuperata, aveva deciso la fortuna dei boscaioli. Non è dato sapere se furono loro stessi a rubarla e nasconderla. O vi si imbatterono per caso. Questo potrebbe essere importante ma resta un mistero. Quel che si sa, invece, emerse da una lettera consegnata da uno dei due alla persona più fidata. La cassa zeppa d’oro fu un fatto che lasciò l’amaro in bocca a parecchia gente. Ancora oggi, qualcuno sibila a fil di voce: «Bastardi».
Queste storie le raccontava il nonno ai ragazzi ed erano vere. Quando morì sotto a una macchina, ascoltarono storie da altri vecchi. Dopo la scomparsa del fratello, i superstiti ne vissero parecchie per conto loro. Ma bisogna andare adagio a dire queste cose.
Di notte la montagna parlava un’altra lingua. E la parla ancora. Fa udire voci diverse, vedere ombre mobili, profili sonori. I ragazzi cercavano di acchiapparli con l’udito. Quando credevano di averli presi e tenerli stretti, uscivano dall’altro orecchio e svanivano nel buio. Era il tempo dei suoni!
La montagna cambia tutto. Modifica, rinnova, distorce. È una forza misteriosa che resuscita i segreti, li ravviva, li sposta qua e là, come il giocatore sposta i pezzi sulla scacchiera. I pezzi sono gli uomini, che cercano le cose e ascoltano le voci. E poi le perdono, le dimenticano per strada, lungo la vita. La montagna obbliga a mosse mai fatte, convince a scelte drastiche. Possiede un dono raro, insolito tra gli uomini: fa sembrare nuovo il già noto, sconosciuto quello che si è visto per anni, ogni mattina. Questo mistero salva chi non s’arrende. Della montagna non si scoprirà mai tutto il mistero, solo particolari, o dettagli. Perché il segreto sono gli uomini e gli uomini non si svelano mai del tutto. Chi davvero ama la montagna l’affronta con umiltà e pazienza. Sa che verrà ricompensato con doni di albe nuove, sempre diverse, eppure ogni mattina le stesse. Se ha una certa età, camminerà col passo di un uomo che ha i pesi addosso ma è ancora forte. L’andare lento di chi ha visto oltre, e i pensieri che tirano il freno.
Su quelle terre misteriose e sole, circondate da costoni arcigni, scarnificati dal vento, di notte camminavano i gufi. Come il vecchio gufo dell’infanzia, che scappava dal paese tribolato. Gli esperti dicono che non è possibile, se lo fanno non riescono più a levarsi. Invece camminano. Gli esseri del bosco sono capaci di cose che gli studiosi non sanno. Lo fanno senza grazia, ma camminano. Gli uccelli notturni a volte vanno a piedi come gli uomini. Vagano qua e là, senza meta, belando nel buio come a cercare qualcuno. Forse una compagna, un fratello, un amico. Nessuno può sapere. Quel che si sa è che pur avendo le ali qualche volta vanno a piedi nel cuore delle notti. E si lamentano con versi disperati, come a dire: “Sono qui”. Forse chiedono qualcosa. Magari hanno bisogno d’aiuto, lo invocano. Sono molto timidi e se chiamano a quel modo vuol dire che non ne possono più.
Di notte la montagna è più bella che di giorno. Un’antica fola dice: “La Befana vien di notte...”. Ci sarà un motivo. Quando i ragazzi chiesero perché la Befana marcia di notte, una vecchia rispose: «Perché la nasconde». Ecco. Viaggiare di notte, come il maestro Fulgenzio Bico. Per nascondersi, guidati dalle indicazioni delle voci, che segnano dove andare, che direzione prendere, dove frugare a trovare qualcosa. Il buio fa intuire.
Chi andava a nascondere le robe viaggiava nelle tenebre. Bastava, quindi, immedesimarsi per capire pressappoco che luogo avesse scelto. Molto pressappoco, ma poteva essere un metodo. Qualche volta funzionava. Poi occorreva il giorno per trovare la via.
Una notte, cinque uomini percorrevano un sentiero tra i boschi. Andavano a bracconare. Lo facevano spesso. Erano convinti che la caccia, se non è di frodo, caccia non è. Bisognava aver paura, rischiare, osare. Allora la bestia uccisa in qualche modo veniva risarcita. Non è così, ma per loro era così.
Fecero sosta sull’erba di una corta radura. La luna, sbucata dagli alberi, tagliò loro la faccia. La notte fu oro.
Uno disse: «Sento qualcosa».
«Cosa?» disse un altro.
«Come un segno di voce, una voce che viene da sotto.»
«Non sentiamo niente» dissero gli altri.
Finita lì.
Ma il primo seguitò a dire: «Eppure!».
Proseguirono. L’indomani, quello che aveva sentito tornò con pala e piccone. Scavò. Dopo un metro trovò un cucchiaio. E un altro, e delle forchette. Andò giù e s’imbatté in un muro. Lo pulì. Trovò delle pentole di rame smangiate dalla terra, lame arrugginite di coltelli. Scavò per qualche giorno. Emersero i ruderi di una casupola. Trovò un’altra pentola di rame, il coperchio legato a fil di ferro. Dentro, sigillato nell’argilla, c’era un bambino piccolo piccolo. Stava ancora in posizione fetale come fosse nel corpo della mamma. Chi fu quel bambino? Perché era lì? La casa mancava da un secolo, sparita, sprofondata. Era entrata nella terra come certi insetti s’infilano nella melma. Forse per nascondere l’orrore che teneva in serbo. Un bambino morto. Uscito dal grembo materno e ficcato in un altro. La pancia fredda di una pentola colma d’argilla.
Venne alla memoria una donna, sbucata da chissà dove. Andò a stabilirsi sui monti. Faceva quel mestiere. Il mestiere di chi non ha più nulla da perdere. L’ultima spiaggia quando la vita frana. O perché piace, chissà. Lassù c’erano boscaioli, pastori, contadini, malgari. Mangiavano polenta e solitudine. Pagavano quel che potevano. Però pagavano. A volte con roba. C’erano mariti, più numerosi di tutti. Pagavano anche quelli. E qualche prete. Sì, qualche prete. Nessuno conosceva quella donna, né sapeva la sua provenienza. Era un mistero. Neanche un nome, per loro era la Fenta, la forestiera. Rimase nella casupola quindici anni. Quando per lei iniziò l’inverno del declino e cominciò a sfiorire, i montanari non ci badarono. Brutali di voglia, si sfogavano spicci, in silenzio. Bastava un pezzo di corpo, dal collo alle ginocchia. Nient’altro.
La trovarono morta, viola in faccia. Forse l’avevano soffocata. Non si sa.
Il bracconiere scavò ancora. Trovò un’altra pentola chiusa. Più grande. Dentro, impastati nell’argilla, ancora due corpicini. Adesso erano tre. La voce di quella notte era lei? La madre? Si palesò al boscaiolo affinché scavasse per ritrovare i bimbi fatti sparire dopo il parto? Dare loro degna sepoltura? Erano morti per cause naturali o furono soppressi? Non si sa.
La montagna non rivela fino in fondo. Tiene sospese le verità come il cielo le nuvole. Gli uomini lo stesso. Il silenzio pietrificato dei monti dà il meglio di sé in eterno. Ogni cosa si perde nel buio, cade nel vuoto. Tracce emergono, escono, arrivano a un punto e scompaiono. L’omertà della terra vince su tutto. Ogni ricerca si perde di fronte al mistero. Niente di ciò che conosciamo si salva, niente esce intero dal silenzio dei monti. Nessuno la passa liscia. Il mistero inghiotte, rumina e sputa residui. Dobbiamo accontentarci di quelli. Pretendere di ricomporre il mosaico è inutile. Le tessere migliori son state digerite. Di sicuro è bene così. Meglio che in questo mondo alcuni segreti non vengano svelati. Se pretendessimo di conoscere tutto, cosa rimarrebbe?
Il maggiore dei fratelli, sulla montagna, ha sempre cercato qualcosa. Forse quel se stesso che ancora nega. Di preciso non lo sa. Nemmeno ora. Eppure continua a cercare. Spera in un tesoro, come i boscaioli? Potrebbe essere. Armi? Già trovate. Scheletri? Anche. Allora cosa? Ha scoperto di tutto, ma non ancora tutto. Cosa vuole trovare? Lo sapesse! Nessun uomo può sapere ciò che cerca. I segreti vivono dentro di lui, sono le sue speranze, i suoi crucci. Si può indagare l’atomo, studiarlo, scinderlo, capirlo. I segreti no. Quelli rimangono interi. Ognuno li porterà con sé, nel silenzio dei cimiteri o tra le ceneri della cremazione.
Sulla montagna dimenticata, dove la moda non miete soldi, al margine dei pascoli si possono vedere misteriosi mucchi di pietre alti diversi metri. Sembrano dolmen. Suscitano un vago senso d’inquietudine. E curiosità. Cosa sono? A che servono? Si tratta forse di monumenti antichi, eretti secoli prima per rabbonire un dio malvagio? Thor, il dio dei tuoni? O Tarvos, dio delle nevi? Niente di tutto questo. In tempi remoti, i contadini dei pascoli alti pulivano i prati dai sassi metro dopo metro, altrimenti le falci sbrecciavano il filo. Partivano dall’alto verso il basso, con le gerle. Ogni sasso un inchino. Quelli che trovavano venivano raccolti e portati giù. In fondo, rovesciavano la gerla sul mucchio. Il mucchio cresceva e non finiva mai.
La montagna tutto l’anno scaricava proiettili. Neve, disgelo, valanghe, fulmini. Elementi vari sgretolavano le rocce facendole cadere. Pure il passo di cervi e camosci muoveva pietre. Le marmotte scavavano e lanciavano detriti. Così, ogni primavera, i falciatori si trascinavano in ginocchio a pulire. Anno dopo anno, spostavano in fondo le cime sgretolate, erigendo minuscole vette alla base dei monti. Ma davvero c’erano soltanto pietre dentro le piramidi erette? Si è mai preso la briga qualcuno a disfare un paio di quei mucchi? Ci provi! Potrebbero uscirne belle sorprese. Ma occorre faticare, spostare, togliere. La montagna non è paziente da radiografie. La montagna vuole il bisturi.
Un contadino decise di farsi una casupola ai confini del pascolo, per falciare, senza tornare giù ogni sera. E ripararsi dai temporali. Per costruirla usò le pietre che gli avi avevano accatastato lì vicino. Un gran cumulo. Sasso dopo sasso, toglieva di là per mettere di qua. Mentalmente ringraziava gli antenati per quella manna di pietre buone e intanto alzava muri a secco. Quando arrivò al centro del cumulo, saltò fuori qualcosa. Nella pancia più fonda del mucchio c’era uno scheletro umano. Attorno alle tibie un fil di ferro, un altro ai polsi. Accanto, la lama arrugginita di una falce. Un falciatore ucciso ai tempi antichi rivedeva il chiaro del giorno. Allora non andavano per il sottile. Un colpo e via. Non era occhio per occhio, ma occhio per due occhi. Il contadino lo portò giù in un sacco per sotterrarlo al camposanto. La montagna vedeva e taceva. E nascondeva i segreti.
Un’altra volta, due uomini decisero di mettere a posto una baita. Roba vecchia duecento anni. C’era da rifare l’interno tutto daccapo. I muri erano buoni, dentro no. I due lavorarono nel tempo libero. Uno era il padrone, l’altro un amico. Sventrarono il muro a ridosso della stalla. S’affacciò una breve nicchia a forma di botte. Legno rosso cupo, larice antico. Rotolò fuori un fagotto di stracci che si sfasciò sul terreno. Dentro c’era un corpo mummificato. Appena toccò l’aria, prese a disfarsi come se un soffio maligno di tarli lo rosicchiasse. In meno di mezz’ora la pelle se n’era andata come se la mummia si fosse tolta la maglia. Qua e là spuntavano le ossa una volta che il processo di sfarinamento si era arrestato. Sembrava il corpo di un vecchio. I resti di una lunga barba di cenere tremolavano assieme ai capelli di stoppa, spinti da un leggero vento. Brutta roba da vedere. Pareva che prima di morire avesse provato un gran dolore.
Uno dei due disse: «Chiamiamo i carabinieri». L’altro rispose: «Carabinieri mai». Aveva una faccia torva.
Scavarono una fossa, vi buttarono il vecchio e lo ricoprirono. Un’ora e mezza dopo l’altro tornò a dire: «E mettitelo bene in testa: carabinieri mai». Lassù la legge non doveva impicciarsi.
Continuarono il lavoro. Probabilmente il vecchio era morto nella baita, forse d’inverno, e l’avevano murato. Però nessuno aveva mai detto niente.
Era successo un’altra volta un fatto analogo, ma ancor più inquietante. Un tizio assai complicato, che a tempo perso scriveva libri, perciò aveva perso un sacco di tempo, trovò anch’egli una sorpresa mentre sistemava la sua baita. Sfasciata un’intercapedine a picconate, di mummie ne uscirono tre. Tre donne nude, piatte, rattrappite dal tempo, secche e dure come il corame. Ma il peggio era altro. Ognuna aveva i seni trapassati per traverso da un ferro sottile come quelli da maglia. E i corpi martoriati da un’infinita serie di geroglifici e tagli senza dubbio prodotti dall’affilata punta di un coltello. Chi erano quelle povere anime? Perché infilata nell’alluce del piede sinistro portavano una fibbia? E quella scrittura sconosciuta incisa sui corpi? Era un mistero.
Quel povero diavolo di scrittore accennò al ritrovamento in un libro, dove pure lasciava intendere di aver decifrato gli orrendi ricami sui corpi. Prima o dopo avrebbe scritto l’intera verità appena scoperta. Ma si stufò del mondo e, magro come un osso, si nascose da qualche parte sui monti. Nessuno sa dov’è. C’è chi giura che il libro delle mummie lo abbia finito e consegnato a qualcuno. Forse è una donna. Gli stessi non disperano che un giorno quelle pagine vedranno la luce. Ma niente può darsi per scontato sopra una certa quota: dove la parola più sicura è “forse”, quella è la montagna.
Un tempo, gli artigiani delle valli alpine si recavano in luoghi remoti dei boschi a effettuare sul posto la prima sbozzatura dei manufatti. Era un buon metodo per non portare a valle il peso inutile del legno in sovrappiù. Arredavano alla bell’e meglio antri e caverne e vi si stabilivano per intere estati. Spelonche da orsi diventavano case. La loro casa. Impiantavano il tornio, il ceppo e la panca da lavoro e un letto di tronchi. Iniziavano a vivere lì, girando intorno ai gesti giornalieri dell’esistenza come i pezzi di acero giravano sul tornio. Vite grame, fatte di sacrifici e solitudine, silenzio e fatica. Vite ridotte all’osso. Ogni venti giorni salivano le donne, mogli, fidanzate, sorelle, coi viveri. E sacchi di iuta da portar giù i lavori sgrossati. Il marito spingeva la consorte contro un albero. Subito, senza preamboli, per liberarsi in fretta della voglia. Dopodiché organizzava i carichi. Consumavano insieme un pranzo frugale e le donne ripartivano. I tornitori delle selve rimanevano di nuovo soli, nel silenzio delle montagne e dei loro pensieri. Raramente si mettevano in due. Il tornitore dell’alpe agiva da solo. Ma, sparsi qua e là sulle montagne, erano tanti. C’era anche il nonno dei ragazzi. Le notti d’estate cadevano brevi sul sonno di quegli eremiti cullati dal lamento monotono degli uccelli notturni. La luna appariva sul monte improvvisa e solenne, e andava giù, a infilarsi negli antri dei tornitori per coprirli di luce dorata. Non era gente normale, quella. Volevano stare soli.
Cosa avrà pensato il nonno di quei ragazzi nelle pause di lavoro? O alla sera, quando il sole aggirava il monte per togliere il disturbo? E quando pioveva? Cosa pensava durante i temporali che fracassavano le ossa alla montagna e le saette fendevano i larici sui costoni? Nei momenti d’insonnia forse intuiva le stelle sopra la grotta. La luce fredda delle stelle tremolava come una farfalla che sta per morire. Quel pensiero gli faceva chiudere gli occhi. Forse piangeva. I nipoti non lo avevano mai visto piangere. Lassù chissà. In un angolo il fuoco agonizzava. I ceppi consumati crollavano nella cenere con sbuffi soffocati. Un ramo pieno di linfa pigolava come un pulcino torturato. Anche il fuoco andava a dormire. L’ultimo fumo faceva le giravolte sul fondo della grotta e poi usciva discreto per non disturbare la quiete del tornitore. Notti solitarie che lasciavano il segno.
Andavano su in aprile e tornavano a ottobre. Per rifinire il prodotto sbozzato nei segreti ritiri di alta montagna. Barbe lunghe, occhi infossati, magri, i muscoli tirati, una volta a casa lavoravano in silenzio a testa china. Pensavano forse ai lunghi mesi trascorsi negli antri, compagni di aspre solitudini. Pensavano alla vita all’aria aperta, alle voci delle notti d’estate. Forse per questo lavoravano a testa china. Spesso in famiglia parlavano da soli, come facevano sui monti. Con lo spirito erano ancora lassù fra i tronchi dai quali cavavano mestoli, cucchiai, piatti e scodelle, forchette, e altro ancora.
Uno di quei tornitori diventò matto e non aprì più bocca. Fino alla morte. Prima di chiudere la voce nel cassetto, raccontò di aver squartato un larice su, nell’antro di lavoro. Un larice di quattrocento anni. Appena spaccato, dagli anelli dell’età partirono voci di ogni sorta. Raccontarono quel che avevano visto e lui impazzì. Troppe cose brutte che prima di ammutolire confessò a qualcuno e, presto o tardi, diventeranno pubbliche.
Gli artigiani tagliavano i legni in luna calante, scegliendo i pezzi migliori, quelli senza vena storta. Li mettevano da parte, che asciugassero un poco. Di pronto uso ne avevano tagliati una scorta mesi prima. Unica compagnia erano i tronchi. Maneggiavano quelli. Fino a ridurli a oggetti da vendere. Qualcuno si portava il cane. Tutti tenevano doppietta e fucile a palla. Lassù c’era selvaggina, cacciavano per mangiare.
Ma perché tutto questo preambolo? Per non dimenticare. Gli antri dei tornitori sono scomparsi, inghiottiti dalla vegetazione. I boschi son cresciuti davanti all’entrate, selvaggi e violenti fino a occultarle. I vecchi sono morti, nessuno sa dove si trovano gli improvvisati laboratori. Ed è difficile imbattersi per caso. I camminatori oggi vanno dietro ai segni, non ai sogni. Marciano su sentieri ben tracciati e puliti. Ma non spostano una frasca per guardarci dietro.
Il nonno vagamente aveva indicato ai nipoti dove si trovavano alcuni antri di lavoro. Voleva portarli su, a vederli, ma quell’estate gli arrivò l’automobile addosso e morì. Allora non se ne fece più niente. Ma qualcuno di quei laboratori d’alta quota è stato individuato comunque. La voce sepolta del vecchio aveva lasciato tracce nell’aria come scie di rondoni. I suoni, quelli suggestivi, disegnano il vento, incidono l’aria, scrivono senza luce, come inchiostro simpatico. Se poi si mette la candela dei ricordi sotto quel foglio di memorie, allora appare il messaggio. “Vai lì, andate così e colà, forse troverete.” Quello che cerca segreti a quel punto va. Prima avvicina la zona, poi si accuccia nel dettaglio. A casaccio, ma con occhio attento. Monconi di pino mugo, tagliati cento anni prima, spuntano dal sottobosco come lance spezzate. Segnalano che lì, all’epoca dei tornitori volanti, stava un sentiero. Qua e là appare un muro di sostegno coperto di muschi. Vecchi ceppi, mutilati del tronco, grigi come il tempo inutile, occhieggiano attraverso barbe di licheni. Spiano il viandante, lo invitano a sedere. Dicono che in quel punto transitarono fatiche, gli uomini tagliarono alberi per vivere. Per immaginare bisogna fermarsi, poi s’avanza indagando, cogliendo l’eco dei passi lontani nei minimi segni.
Annusando il terreno, un giorno di aprile, il maggiore dei fratelli trovò uno di quei covi dove in passato i legni giravano sul filo della sgorbia. Si chinò su tracce labili di passaggi antichi, alberi tagliati, qualche ciocco monco dalla faccia larga, un piolo infisso nella roccia. E poi un altro, perché lì, un secolo prima, il sentiero marciava rasente un vuoto di mille metri. Rimase allibito nel constatare dove passavano cento anni prima le portatrici. Rondini con la gerla, e sacchi pieni di oggetti. Qualcuna volava via, verso il basso. Alcune croci di ferro, corrose dalla ruggine, stanno ancora ficcate nella roccia, a dire che quella o quell’altra finirono laggiù. Ma i nomi non si leggono, sono svaniti, alla stregua dei volti. Non è possibile dar loro una seppur vaga parvenza umana. Il tempo le ha divorate come la ruggine ha smangiato le loro croci. Le raccoglievano sul greto del torrente, deturpate dai colpi, fracassate assieme alle gerle. Qualche straccio s’impigliava nei carpini sporgenti dalle rocce e lì sventolava per mesi, finché le tormente non lo strappavano, facendolo sparire. Le trovavano quasi nude, la caduta spogliava i corpi come l’esistenza le aveva spogliate di ogni gioia.
Col vuoto sotto i piedi e il vento maligno che saliva dallo strapiombo, il fratello maggiore avanzava sul sentiero scomparso come un acrobata sul filo. A ogni passo ancora si chiedeva come facevano quelle donne a camminare coi carichi. Aggirò uno spigolo di pietra sporgente sul vuoto come un naso che fiuta l’aria. Dietro una quinta di roccia affilata, apparve improvvisa la mano accogliente di un praticello. Soffocato da una vegetazione intricata e ostile, pareva invocare aria e spazio per sgranchirsi. Il giovane stava tirando dritto quando, dalla parete tappezzata di mughi, schizzò un camoscio. Zampillò in avanti come un getto d’acqua. Non poteva essere esploso dalla roccia. Voleva dire che dietro la barriera di carpini e pini mugo s’apriva un vuoto.
Forzando il passaggio a colpi di roncola, il giovane avanzò fino alla base. Dietro si celava un’apertura di pietra rossa, come una bocca spalancata. Dava accesso a un grande antro, semibuio, che sul fondo pareva avesse gli occhi. Occhi che aspettavano da oltre un secolo. Lavorò di roncola quasi un’ora per far entrare la luce. Quando filtrò un po’ di chiaro, come per incanto gli occhi si chiusero, feriti dalla luce. Sul fondo della grotta non c’era più niente. Eppure quegli occhi rimanevano dentro, li sentiva, si erano nascosti ma stavano attenti.
Alla fine, il sole di settembre, per far posto alla sera, rasentò le labbra di quella bocca aperta. Allora la caverna s’illuminò come se dentro qualcuno avesse acceso una candela. Il giovane scoprì le tracce perdute del tornitore solitario che abitò quel luogo. In centro vide il tornio, o almeno quel che restava. C’erano le due travi portanti, che in origine reggevano i blocchi tra i quali girava il pezzo; l’asse del pedale, fatta a elle per spingere di gamba destra o sinistra, era sollevata come se l’artigiano non avesse avuto più forza di premere l’ultimo colpo. La lunga pertica di frassino, mediante la quale si imprimeva rotazione al perno, era spezzata alla base, caduta in terra. Come un’asta di bandiera ormai priva di scopo, stava a punta in giù in una resa senza speranza. Il giovane la prese tra pollice e indice. Lei fece crack, e si troncò, come se fosse di gesso o non sopportasse alcun contatto. Regina di elasticità e morbidezza da inchinarsi fino a terra sotto la spinta del pedale, ora era diventata statica e dura. Tanti anni di abbandono e silenzio l’avevano irrigidita e allo stesso tempo resa fragile.
I tarli dei secoli, invisibili e lenti, vivono nell’aria come pulviscolo, bevono l’umidità della terra, dormono ai brevi soli, rosicchiano senza polvere. I tarli del tempo mandano all’occhio illusioni d’integro. Invece dove mordono lasciano costruzioni d’aria, forme solide solo in apparenza. Basta si posi una farfalla e tutto va in briciole e svanisce.
Sul fondo della caverna, coperto di polvere, c’era un sacco di tela con una fibbia nella tracolla. Il giovane tentò di aprirlo per curiosarvi. Appena lo toccò, cominciò a disfarsi. Più lo maneggiava più diventava cenere. Dentro non c’era niente se non il lungo tempo contenuto, che l’aveva logorato lasciandogli forma priva di sostanza.
Sotto il tornio, piccole nuvole di trucioli vibravano al ritrovato spiffero della grotta. Poi cadevano una in braccio all’altra come muffe estenuate. Sparse qua e là, alcune spine da botti fissavano l’intruso con occhi spenti. Ce n’era una conficcata in un buco della roccia, come se da quel muro d’ombre il remoto artigiano sperasse ricevere del vino. Il giovane scoprì l’origine di quel rubinetto assurdo. Subito dietro, la roccia era cava, formava una vasca dove il tornitore volante raccoglieva l’acqua per farne deposito. La prendeva a una fonte vicina e riempiva la spaccatura così d’averla comoda e fresca. Il giovane non osò toccare la spina per timore si disintegrasse.
Osservando meglio notò alcune pile di ciotole appoggiate alla parete in fondo. E poi qualche cucchiaio, dei mestoli, forchette. In un angolo, il rudimentale fornello di pietre per scaldare l’antro e cuocere il cibo. Tutto velato dalla poca luce che filtrava, tutto coperto dalla polvere del tempo. Tutto ciò che toccava si sbriciolava, ma il tornio ancora resisteva. Nato tra due cosce di larice venti per venti di spessore, portava addosso tracce di segreti. Su di un lato, incisa a sgorbia, si leggeva una scritta: “Eliseo F. fu Benigno. Cugn stè ochí par sampè, par sampè cugn stè cetín”. Che voleva dire: devo stare qui per scappare, per scappare devo stare fermo. Aleggiava ovunque il mistero. Chi era quel nome? Apparteneva all’artigiano o a qualcuno che si nascose? Perché scappava? E da chi? Forse non le aveva incise il tornitore, quelle parole. Forse non sapeva scrivere. Chissà.
C’erano anche date scalfite sulla roccia: 1878 F.C. 1821 S.B. e ancora: 9 agosto 1850 M.C. Altre cose, scritte con tizzoni spenti, non si leggevano più. Il tempo cancella ciò che non è inciso a fondo. Per rimanere bisogna accumulare o togliere, durano erosioni e piramidi. Il giovane raccolse un po’ di legna e accese il fuoco nel fornello che pareva un mucchio di sassi. La grotta si scaldò come se fosse tornato l’artigiano a illuminare la sua casa. Gli pareva di vederlo seduto in un angolo, la pipa in bocca, barba lunga e baffi spioventi. Il fumo all’inizio ristagnò riempiendo la caverna. Poi cominciò a fare le giravolte e uscire rotolando in fretta per non dar fastidio. Le ossa della spelonca si scaldarono, cominciarono a scricchiolare. Forse era il tornio a stiracchiarsi, l’unico rimasto integro. Il resto era polvere in forma di oggetti. Polvere di cose che un tempo furono solide come le vite scomparse degli uomini. Come quella del tornitore volante, senza nome e senza volto.
Il giovane rimase a dormire nell’antro. Da lontano arrivava la notte come una nuvola sporca di terra. Ormai veniva buio, meglio stare lì. Ma non chiuse occhio. Alimentò il fuoco con la legna tagliata davanti alla grotta. Coricato su un giaciglio di frasche accumulate in fretta, ascoltava le voci dell’aria e il mistero della spelonca. Sperava che qualche soffio arrivasse dall’aldilà a svelargli chi visse nell’antro. Il giovane si chiedeva perché l’artigiano misterioso aveva lasciato alcune cose nella grotta. Quattro legni anneriti, inchiodati in un angolo, rivelarono un giaciglio. Il pagliericcio composto da rami di mugo era diventato polvere. Rimaneva solo il telaio. Ora ci dormiva il tempo. Più in là, il ciocco da spaccare legna e sbozzare i manufatti era rovesciato. Potevano esser stati animali, v’erano tracce d’escrementi. E il pedale del tornio? Era rimasto sollevato. Possibile se ne fosse andato senza avere il tempo di premerlo a fondo? Mistero.
La notte non portò nulla se non il rantolo dei gufi, il lamento degli uccelli notturni, la voce del torrente mille metri più in basso. E quel vento che saliva dallo strapiombo urlando come lo addentassero i lupi. Ci fu un momento durante la notte che gli parve udire una voce cadere dalla volta dell’antro come una goccia di fuoco.
“Cerca il libro” diceva, “cerca il libro.”
Poi più niente. Pensò d’aver sognato. All’alba cantarono i forcelli, più in alto c’era la neve. L’urogallo aveva cantato al buio, i cuculi cominciarono che il giovane già scendeva.
Prima di lasciare la spelonca afferrò un tizzone spento e sulla parete scrisse la data della scoperta: 12 aprile 1974. Tornò spesso all’antro del tornitore. Andava lassù per riposarsi, stare in pace, riflettere.
Molti anni dopo, ricordando le parole “cerca il libro”, consultò i registri di morte della canonica. Partivano dal 1605. Quelli antecedenti non esistevano. Furon ridotti cenere da un incendio che sollevò il villaggio di legno e paglia in una bolla di fuoco. Nei registri di morte, Eliseo F. fu Benigno non risultava. E nessuno si ricorda di lui. La montagna è come il mare: contiene di tutto e nasconde bene tutto. Ma ogni tanto alza il mantello, butta fuori qualcosa, magari con una pedata, uno sternuto, un sussulto.
Molti anni fa, ad esempio, due bracconieri, di cui uno giovane, stavano battendo una zona impervia per recuperare un camoscio. L’animale, ferito, aveva scelto di morire in un anfratto a piombo sul torrente. Non era facile raggiungerlo. Fu come avesse voluto prendersi l’ultima boccata d’aria prima di accucciarsi stanco e sfinito su quell’ala di roccia e guardare la valle.
Si calavano con la corda a perlustrare la zona, cauti e guardinghi come quando cacciavano. A un certo punto, apparve una spaccatura fatta a botte. Dentro quella nicchia, raccolto su se stesso come a non prender freddo, c’era un soldato. Un tedesco. Dell’ultima guerra. Le ossa bianche come calce, il teschio, l’elmetto, il fucile e altre cose stavano lì dentro. Il giovane rimase attonito davanti a quello scheletro. Aveva tutti i denti, doveva essere un ragazzo. Com’era riuscito a calarsi fin laggiù? Forse inseguito dai partigiani? Forse era un rocciatore. Chissà. Arrivati in paese nel ’44, i tedeschi lo incendiarono, furono spietati. Deportarono, razziarono e uccisero. Fecero azioni aberranti spalleggiati da complici e delatori. Poi furono cacciati e quello era finito a morire laggiù. La montagna lo aveva protetto per quarant’anni. Lo trovarono nell’84. Un caso fortuito lo restituiva alla memoria ma non ai familiari.
Il vecchio bracconiere era sbiancato. Non parlava. Stava al bordo della nicchia con la corda in mano. Forse quella scena aveva fatto riaffiorare qualcosa di intimo. I tedeschi non furono teneri con la sua famiglia. Lo diceva spesso quando raccontava quelle remote vicende durante le soste nelle baite e il suo volto s’induriva.
«Resta qui, vado in Comune ad avvertire» disse il giovane.
«Avvertire chi?» disse cupo il bracconiere. Intanto fissava lo scheletro che riposava da quarant’anni nella tomba in faccia al cielo.
Il giovane non se l’aspettava perciò non intervenne, forse anche volendo sarebbe rimasto immobile. Il vecchio bracconiere aveva un aspetto truce. Il suo volto non ammetteva impicci. Scattò come un felino. Con calci e bracciate furiose fece precipitare lo scheletro e tutto ciò che gli stava intorno. Un salto di quattrocento metri. Si udì l’elmetto tintinnare. Il soldato era caduto un’altra volta. Laggiù, il torrente lo portò via.
«Bastardi!» sibilò il bracconiere. Aveva settantun anni.
«Potevi lasciarmi prendere qualcosa a ricordo» disse il giovane.
«Ricordo di chi?» disse il vecchio. «Di chi ha ucciso la mia gente? Un’altra parola e finisci laggiù anche tu.» Poi non aprì più bocca. Neanche il giovane.
Un giorno il fratello maggiore, nel suo andare per montagne, visitò una grotta enorme, che dopo un’entrata comoda andava giù a balzi e storture. Più volte aveva perlustrato la caverna, mai fino al termine. Chissà se aveva un termine, veniva su aria, era segno d’infinito. Armato di pila frontale e un pezzo di corda, stavolta decise di calarsi. E si calò. Sul piano di fondo sentì la voce dell’acqua. Da qualche parte cantava una goccia. Pareva cadesse in un bacile. Plic. Plic. Per un po’ faceva silenzio e poi ancora plic. La cercò con la pila ma stava lontana. Era come una persona, una presenza misteriosa si rivelava con parole a gocce. Spense la torcia e si sentì circondato, attanagliato. Nel buio solido come pietra, in quel silenzio di piombo che non dava scampo, la goccia scandiva i suoi plic, ma ora sembravano cannonate. La volta rimbombava. L’intervallo tra una goccia e l’altra si faceva eterno, e allora tornava il silenzio a sferzare il cuore con le ortiche della paura. Dovette accendere in fretta la pila, gli sembrava esser ghermito da un momento all’altro. Per scacciare l’inquietudine, si mise a esplorare il fondo. C’erano ossa di animali finiti là sotto da chissà quanto. Riconobbe qualche teschio di capriolo, alcune pecore, una capra. Erano morti laggiù, nel silenzio della terra, senza aiuto né speranza. Più avanti la camera risaliva e fu lì, su un ripiano a forma d’altare, che assieme a un mucchio di ossa trovò un grosso teschio. Era lungo, con denti pronunciati e una forma che non ricordava aver mai visto. Lo portò in paese.
Un geologo di città disse che si trattava dell’orso primitivo e parve interessato a quel cranio giallastro. Allora il giovane glielo donò senza rimpianti. L’intenditore rimase soddisfatto e la cosa finì. Ancora una volta la montagna rivelava uno dei suoi segreti. Ma quante spelonche e antri e caverne tengono nel mistero il contenuto dei loro ventri sepolti?
Il più grande seguitò a cercare. Diventò Cercatore. Testardo e curioso frugava nelle pieghe dei monti per tirar fuori qualcosa, scoprire misteri, svelare segreti. Di preciso non sapeva cosa avrebbe trovato. Lo capì a sessantaquattro anni, quando ancora s’affannava. La sorpresa fu malinconica, ciò che scoprì lo aveva sottomano da sempre e non si era accorto.
Le caverne di montagna, quelle che sbadigliano sul vuoto, o s’aprono in luoghi impervi, difficili da raggiungere con mezzi normali, spesso sono casseforti prive di serrature e piene di sorprese. Al fratello maggiore, un partigiano raccontava sempre la stessa storia. Diceva che in una cavità di un certo monte aveva nascosto una cassetta di ferro chiusa con due lucchetti. Conteneva documenti importanti riguardanti i rapporti tra Hitler e Mussolini.
Quei documenti erano parte di una serie consegnati da Galeazzo Ciano all’allora prete del villaggio don Giusto Pancino, ed erano contenuti in tre cassette. Due finirono da qualche parte, qualcuno dice in Svizzera. Ma una, sosteneva Gildo, classe 1916, si trovava in quella cavità. E voleva, prima di morire, che il giovane amico la recuperasse.
«Se trovi quella cassetta c’è da fare soldi.» Diceva così: da fare soldi. Però non ricordava il buco dove l’aveva nascosta. Erano passati tanti anni. Sapeva solo che il prete aveva le chiavi della cassetta. E basta. La montagna in questione è immensa, verticale, ostile, scovare il tesoro era un’impresa. E lo è ancora. Il giovane ha cercato per anni, trovando di tutto tranne la cassetta.
Gildo morì nel 2000, a ottantaquattro anni, senza soddisfazione. La cassetta è ancora prigioniera del monte. Diceva che era lunga circa 70 centimetri per 30 di larghezza, altrettanti in altezza. Il giovane adesso non è più giovane ma spera sempre di trovarla. Gildo affermava che, oltre ai documenti di Ciano, conteneva alcune armi corte e un po’ di oro in monili e bracciali. In questo caso il valore non è l’oro bensì la carta. Stavolta la montagna tiene stretto il suo tesoro. Gildo, eccellente rocciatore, l’aveva forse nascosto in alto? Chissà in che punto, però. Forse dove nessuno se lo aspetta, magari in una scafa cui tutti passano davanti.
Ecco uno dei tanti segreti che ancora mancano all’appello: la cassetta di Galeazzo Ciano. Ma il Cercatore sente che la troverà. Durante l’ennesima uscita di ricerca, perlustrò un antro fuori mano, alla base di quel monte ostile sul quale erano morti tre uomini. Tre boscaioli caduti sul lavoro. La grotta era nascosta dalla vegetazione ma la si intuiva. Era convinto di trovare l’agognata cassetta ma invece dentro trovò attrezzi da boscaiolo incrostati di tempo e umidità. Erano asce, zappini, segoni, pulegge e roncole. Sul fondo, impilata in cerchio, una grande matassa di cavo per teleferiche, formata da tredici carichi uno sopra l’altro. L’uomo ricordò la storia che aveva raccontato il nonno riguardante un furto avvenuto prima della guerra. Diceva che a una squadra di boscaioli friulani, che falsavano il mercato con prezzi troppo bassi, era stato rubato tutto il materiale. Non trapelò mai chi furono i ladri, eppure il paese lo sapeva. L’omertà è una qualità della montagna. Forse del mondo. Meglio dire degli uomini.
Venne la guerra e il materiale restò dimenticato fino al giorno in cui il Cercatore lo scoprì. Ogni oggetto era diventato un pezzo di ruggine rossastra, che squamava al tocco delle dita. Non c’era verso di afferrare i manici di quegli utensili perduti. Il legno, in origine tenace e flessibile, si sfaldava come sabbia. Ma quel che impressionò il Cercatore fu il cavo da teleferica. Un serpente arrugginito, morto da mezzo secolo. Fu emblema di resistenza e unità assolute, ma dopo cinquant’anni non era più unito né intero. Gli anni lo avevano corroso, smangiato, separato dai cerchi fratelli come tagliato dal tronchese. Niente dura alla lima del tempo e, se cede l’acciaio, che ne sarà dei sentimenti?
Il fratello superstite, rimasto unico Cercatore di famiglia, sollevava gli anelli del cavo uno per volta. A ogni alzata cadeva in terra una pioggia di cimici fruscianti, scorie di ruggine e consunzione con odore di morte. A quel punto il cerchio stava già in pezzi. Tutto nella grotta era ruggine. Le stesse pareti, rossigne e ammuffite, screziate di ombre gialle, parevano le foglie dei boschi autunnali. Fuori infatti era l’autunno, il silenzio dei monti prendeva posizione, presto la neve avrebbe coperto ogni cosa, cercare sarebbe diventato difficile. Ma d’inverno la montagna proponeva altre cose, nuove sfide, bastava aspettare. Il Cercatore raccolse una grossa scure e la portò a casa come ricordo. Cercò di levarle il vestito di ruggine che la copriva e trovare qualche sigla, un nome, un segno. Ma non apparve niente. Non è più tornato nella grotta della teleferica.
Gli attrezzi dei boscaioli stanno sempre là dentro. Forse un giorno qualche giovane con voglia di esplorare si imbatterà nei resti di quegli oggetti antichi. Si domanderà: “Che roba è?”. Ma ci saranno ancora giovani con voglia di scoprire i segreti delle montagne? Chissà.
Le montagne ogni tanto cambiano trama e fanno regali inaspettati. Un’estate del tempo remoto, un uomo tornava dal prato dove aveva falciato l’erba. L’ultima, appena caduta, ancora tremava di verde, mentre quella tagliata al mattino profumava di fieno. Era tardo pomeriggio. Si fermò alla frescura di un larice per una fumata. Tante volte aveva riposato all’ombra di quell’albero. Stava sulla via del ritorno, invitava a sostare. E lui sostava. Non aveva mai udito nulla quando, seduto sulla curva del tronco, quel giorno sentì qualcosa, prima ancora vide. Uno sciame di api sprizzava dalla terra per filare verso il tramonto. Dal sottosuolo proveniva un suono, il ronzio di una cosa viva che si faceva gorgoglio. Le api uscirono fino all’ultima e fuggirono zigzagando di paura. Il rumore si fece nitido, l’uomo percepì la voce inconfondibile dell’acqua. Quella zona ingialliva di siccità, i pascoli aprivano la bocca assetati, i fili d’erba erano duri come spine, e piccoli fiori sdentati dai colori fiacchi faticavano a ridere alla vita. Non poteva credere che proprio lì, sotto i piedi, una falda fosse esplosa improvvisa, e l’acqua viaggiasse nella terra. Invece era così. Andò a prendere un piccone, tornò sul posto e iniziò a scavare. Ma ormai avanzava la sera, dovette rimandare al giorno dopo. L’indomani scavò più a fondo e trovò l’acqua che correva e si era aperta la strada come in un tubo. La chiamò Fonte del miracolo perché fu davvero un miracolo. Da quel momento i prati intorno si fecero più belli, ricchi di erba tenera e rigogliosa, i fiori alzarono la statura e rinforzarono i colori e i petali, che non cadevano più facendoli sembrare sdentati. Nessuno capì perché l’acqua fosse comparsa di colpo in quella terra aspra e secca come labbra screpolate. E nemmeno s’interrogò più di tanto. Era un segreto della montagna, uno dei tanti che non avrebbe avuto spiegazione.
Una volta il maggiore dei fratelli, diventato il Cercatore di segreti, si ficcò in testa di esplorare un monte solitario posto alla sinistra orografica di un torrente e alla destra di un altro. Aveva sentito una storia cupa che ancora si narra: un artigiano non volle rispettare il Natale e salì alla sua tana per scolpire oggetti e, soprattutto, per rimanere solo. Era un dicembre d’inizio Novecento, esattamente il 1902. Non c’era un filo di neve, forse per questo l’uomo approfittò a salire in montagna. La notte di Natale nevicò da far spavento ma l’artigiano si spaventò per altro. A una cert’ora gli si parò davanti il diavolo coperto di pelli che voleva portarlo all’inferno. E un bambino, apparso d’improvviso subito dopo, lo salvò scacciando il demonio, che nella fuga lasciò una pelle nella grotta. Era il Bambino Gesù.
All’indomani, ancora stordito, l’uomo uscì dalla tana per tornare a casa. S’accorse con sgomento che non c’era un filo di neve. Pensò d’aver sognato ma in terra c’era una pelle di capra puzzolente e lurida.
Il Cercatore, dunque, si era messo in testa di scoprire il rifugio segreto di quel remoto artigiano. E cominciò a battere la montagna palmo a palmo.
Niente di niente risultò facile. La natura si era ripresa il terreno un tempo curato e disboscato. Dopo cento e passa anni, un bosco selvaggio e disordinato faceva il padrone, cancellando i sentieri, invadendo e soffocando ogni spazio. Ma l’uomo seguitava a provarci.
Nel tempo libero andava sul monte dei torrenti, a cercare un segno dell’artigiano che vide il diavolo. L’impresa era difficile, richiedeva costanza e pazienza, doti che, a pensarci bene, sono proprio quelle che esige la montagna.
Un giorno, risalendo la valle fino alla roccia dalla quale sbuca la faccia del torrente maggiore, s’accorse che pioveva. Cercò un anfratto per riparo. Era estate, non faceva freddo, ma stava avanzando la sera, doveva sbrigarsi. La natura cominciava a vestirsi d’ombre, gli uccelli ormai tacevano, le punte delle montagne infilzavano nebbie e il torrente pareva lavarsi sotto la pioggia. Quando il Cercatore trovò finalmente un pertugio, aveva ormai perso le speranze. Stava celato dietro un sipario di roccia, poco discosto dalla forcella. Il bosco lassù era impenetrabile. Dopo anni di abbandono non lasciava passare nessuno. Ormai imbruniva. Quando entrò nella spaccatura, capì che là dentro in tempo remoto aveva abitato qualcuno. Nella penombra che invadeva lo spazio, notò una specie di cavalletto al centro del piano. E poi dei ceppi qua e là, tagliati dal segone, che non lasciavano dubbi: senza volerlo era entrato nell’antro che cercava, la tana di colui che guardò in faccia il demonio. Ma non vedeva bene, fuori avanzava il buio ed era senza pila. Decise di accendere il fuoco per scaldarsi, illuminare la grotta e asciugarsi. Raccolse rami secchi sotto un abete e accese.
La spelonca prese luce e cominciò a rivelare il contenuto centenario del suo ventre. Al centro, come nell’altro laboratorio d’alta quota, stava il telaio del tornio, privo dei ceppi ferma-blocco. In un angolo, una piccola catasta di legna spaccata pareva d’argento, tanto gli anni l’avevano pennellata. C’erano due pentole sfinite di corrosione. E due sgorbie dal manico lungo, classiche dei tornitori. L’uomo si mise a tastare la consistenza dei manici. Pensava si sfaldassero come quelli nella grotta del monte ostile. Invece no. Il legno, stavolta, era in buone condizioni seppur non più solido. Si guardò intorno e capì.
La spelonca prendeva fiato da un buco grande come un secchio posto in alto, a destra dell’entrata. Si poteva vedere il cielo. Passando dal foro, la mano del vento carezzava le cose, le manteneva asciutte, disseccandole come mummie. Così la tana dell’artigiano si mantenne praticamente intatta. Nell’angolo opposto alla legna stava una caldiera capovolta. Era piuttosto grande per le solitarie minestre del tornitore. Nera per fuliggine di antichi fuochi, pareva una polenta di carbone infernale. A fissarla comunicava l’idea di covare un segreto nel suo vuoto, una chioccia di tenebra accucciata sulle uova del demonio. L’uomo la sollevò. All’interno stavano dormendo da oltre un secolo i ceppi ferma-blocco del tornio. L’artigiano, in attesa di tempi migliori, li aveva messi al sicuro dentro il buio della caldiera. Invece non tornò mai più nella sua tana, restò in paese fino alla morte. L’aver visto il diavolo gli storpiò il cervello e la vita. A fatica usciva di casa.
Il Cercatore scrutò il pavimento alla ricerca della pelle di capra, quella caduta al demonio in fuga da Gesù Bambino. Niente. Nemmeno un pelo. Forse Belzebù era tornato a riprendersela. Lì non esisteva. Era trascorso tanto tempo, poteva esser scomparsa, portata via dalla mano del vento o forse divorata dagli animali, braccati dalla fame.
Il Cercatore raccolse i ceppi ferma-blocco e le sgorbie, per tenerli a ricordo. E ricordi sono diventati. Quegli oggetti si trovano ora a casa sua, sotto un banco da falegname. Ogni tanto li guarda e gli vengono i brividi.
L’artigiano del diavolo si chiamava Agostino detto Gostín. Così raccontavano i vecchi del paese. Lassù, nella tana, si compì il suo destino. L’uomo non sapeva leggere né scrivere, tranne il suo nome dimezzato. In un angolo dell’antro, sopra la caldiera capovolta, aveva scritto con la fuliggine: “Gostín”.
Di lui non si seppe più niente. Lo vedevano al mattino che andava a messa e basta. Non apriva bocca con nessuno. Finché sparì. Aveva fatto i capelli bianchi di colpo.
Il Cercatore qualche volta fa ritorno in quel luogo. Specie in certe primavere, quando tutto ancora dorme. Passa la notte accanto allo scheletro del tornio. Avvolto dall’inquietudine, trascorre le ore col fuoco acceso. Teme ogni volta che da un momento all’altro appaia Satanasso. Ma forse ci va proprio per quello...
Si potrebbero riempire cataste di pagine elencando ritrovamenti casuali, o cercati, sulla montagna. E non sarebbero che minima parte di ciò che lei nasconde. E nasconderà sempre. E qui occorre fermarsi. I misteri delle montagne sono molti altri, tutti in attesa di essere svelati, chiariti, e raccontati. In questo modo la montagna narra la sua vita, fa conoscere le storie. Ma non consegna un libro bell’e fatto. Quello lo devono scrivere gli uomini, col paziente lavoro di ricerca. E mai finiranno di cercare.
21 marzo 2014, ore 15.44
Termino questo quaderno il primo giorno di primavera e questo mi fa piacere, oltre sperare che porti bene.