Spostamenti

Le montagne sono curiose, girano la testa, di notte si spostano. I vecchi dicevano che molto tempo fa gli alberi parlavano e le cime si muovevano. Ora gli alberi stanno zitti ma le montagne vanno ancora. Camminano di notte, per qualche attimo, ma non devono esserci umani nei paraggi. Se c’è qualcuno stanno ferme.

A segnalare pericolo d’intrusi vigilano maestosi corvi imperiali, che girano i corridoi del cielo come maggiordomi in livrea scura. Volteggiano giorno e notte. Dormono poco perché devono montare la guardia. Si danno il cambio e, ogni tanto, i più stanchi s’appisolano dove capita con la testa sotto l’ala. I corvi imperiali, neri e lucidi come velluto, hanno questo compito: scovare i camminatori notturni quando le montagne si sgranchiscono.

Così pensavano i vecchi. E lo raccontavano a bambini dagli occhi sgranati, seduti sulle panche delle stalle, nelle sere d’autunno e d’inverno.

Il maggiore dei fratelli usciva col fanale, a cercare il profilo del monte nel buio inchiostro della notte. La montagna era ancora là. Rientrava deluso.

«Non si è mossa» miagolava.

I vecchi gli spiegavano che le montagne stanno ferme se di notte qualcuno le spia. E rincaravano la dose.

«Magari adesso si sta muovendo, mentre tu sei qui. Ma se vai fuori, corre al suo posto e rimane immobile.»

Il bambino cercava allora di farsi furbo. Si accucciava dietro la porta e... l’apriva di colpo per vedere se si fosse spostata. Stava sempre lì.

I vecchi ridevano, e lo burlavano. «Sei troppo lento! E lei è più veloce di te, prova un’altra volta, magari domani sera.»

Le montagne, come le nuvole, sono animali, uomini, donne, bambini, vecchi con le barbe, delfini, balene. Uno scultore senza idee che vuol realizzare cose belle è sufficiente che guardi le montagne. Vi può trovare tutto, l’ispirazione non serve. L’ispirazione è dei dilettanti. Certe notti si muovono in gruppo, come per una fiera. Una mamma col bambino in braccio cambia posizione, è stanca, vuol girarsi dall’altra parte. Lo fa, e mentre si sposta non può sapere se c’è qualche viandante notturno. I corvi imperiali stanno all’erta. Se scorgono qualcuno cavano dal becco i loro cra e le montagne si bloccano all’istante. Restano immobili, come ai tempi della creazione. Qualche ritardataria torna di fretta al suo posto.

Un vecchio alpinista, barba candida e occhi da gufo, raccontava ai ragazzi che una volta, sul far dell’alba, non vide più la montagna che gli stava di fronte. Sparita, come se fosse andata via d’improvviso. Nel vuoto che s’era venuto a creare, vedeva le pianure, laggiù, lontanissime, e le luci delle città. Ebbe timore di sentirsi male e per non stramazzare si coricò sul terreno. Rannicchiato su se stesso, fissando quei bagliori, s’addormentò. Fu un sonno crudo, circondato di paura. Quando si svegliò, il sole scaldava e la montagna era di nuovo al suo posto. Ebbe l’impressione che fosse appena tornata da quelle pianure lontane, dove s’era recata a fare la spesa. L’alpinista concludeva ogni volta ammonendo i ragazzi: «State attenti che il mondo si muove. Non credete a quello che dicono. Gli alberi camminano, parlano e ridono. I sassi fanno le giravolte, le valanghe possono andare in salita e le montagne scappare».

Una volta adulto, il Cercatore ricordava quelle parole. Per questo metteva attenzione in tutto ciò che faceva. Osservava molto. Puntuali come il giorno e la notte, infatti, ogni tanto s’affacciavano le profezie del vecchio alpinista e le montagne s’allontanavano. Il Cercatore fece esperienza sulle proprie gambe. Camminava per ore verso una cima ed essa andava sempre più lontano. Scappava, come diceva il vecchio, il quale aggiungeva: «È solo perché si fermano che riusciamo a montare in cima. A un certo punto, quando son stufe di prenderci in giro, provano pietà e allora si arrestano e noi arriviamo su. Solo per questo arriviamo su». Così diceva il vecchio.

Il Cercatore sentiva, e continua a sentire dalle bocche degli alpinisti, le parole “conquista”, “vittoria”, “lotta con l’alpe”. Insomma, voci di combattimento. Ma gli alpinisti non si accorgono che non conquistano un bel niente. È la montagna che si ferma e li lascia salire. Altrimenti sarebbero ancora lì, a sgambettare per vincere quello che il Cercatore definisce “miraggio metrico”.

Il miraggio metrico nasce con le sue false distanze. Sorge di continuo: sembra di essere a una spanna dalla cima e non si arriva mai. Qualche volta le montagne si divertono, giocando scherzi beffardi a coloro che ambiscono la vetta. Come, ci si chiede. Semplice, la spostano più in là. Portano la cima più avanti, come un tizio che si toglie il cappello e lo posa su un tavolo distante. È uno dei segreti delle montagne, un trucco per non farsi raggiungere o, quantomeno, vender cara la pelle.

Se ne accorse il Cercatore, in molte occasioni, quando dava per scontata la meta. Vedeva la punta a portata di mano, quasi poteva toccarla. Accelerava i passi, e zac... d’improvviso s’apriva la voragine che separava la testa dal corpo. La vetta era andata più in là. Quante volte è dovuto tornare munito di corda e chiodi a superare l’inciampo.

Mai pensare di essere in cima finché il passo non calpesta aria! Quasi ogni volta le sconosciute negano la cima all’alpinista spostandola più avanti. Tra lui e loro c’è il vuoto, e sono rogne.

Un esempio famoso di questi scherzacci fu quello giocato dal Petit Dru al grande Walter Bonatti. La montagna lo lasciò trafficare cinque giorni e cinque notti, su difficoltà estreme. Era solo. Alla fine, stremato, le mani distrutte, giunse a quella che reputava la cima. S’affacciò per esultare, ma la cima non stava lì. Era scappata più in là e tra lui e lei s’apriva il vuoto. Che fare? Walter risolse a modo suo, attuando una soluzione folle che chi vuole potrà scoprire nei suoi libri.

Ma esistono amici che, in alcuni casi, aiutano il rocciatore a cavarsi da situazioni difficili quando delle cime non si conosce la via di ritorno. Sono i camosci. Quelli trovano sempre il percorso facile per scendere. Dappertutto. Basta seguirne le orme e ci si trova fuori dalle rogne. Ma se camminano su roccia nuda, come si fa a vedere le orme? Facile. I camosci, nei loro andirivieni, lasciano una pellicola di unto che aderisce alla pietra. Sono gli zoccoli a produrla. Passa e ripassa, questo unto forma una scia scura che si può notare e quindi seguire benissimo.

Una volta, il Cercatore scalò una parete vergine in una valle che, se esistesse il paradiso terrestre, si troverebbe proprio lì. Ci andò con un amico, gran rocciatore, ma a digiuno di quel che serve per tornare dalle vette. Arrampicata dura, ma il difficile non fu quello. Il difficile fu recuperare il basso. Nessuno dei due conosceva il monte, di conseguenza nemmeno la discesa. La leggerezza fu del Cercatore che non studiò prima la via di ritorno. Gli mancò tempo, minacciava neve, novembre era dietro l’angolo. Ma niente scuse. In questi casi non ci sono e non devono sussistere giustificazioni. La strada per tornare va studiata prima. Soprattutto se dalla parete non ci si può calare, per via degli strapiombi superati.

In vetta, dopo la stretta di mano, provarono a tornare, ma non ci fu verso. Ovunque si sporgessero, alitava il vuoto. Che fare? Il Cercatore aveva qualche esperienza più dell’amico e tentò di scoprire in silenzio tracce di unto. Che non vedeva. Eppure apparivano segni sul ghiaino di vetta. Guarda di qua, guarda di là, niente. Finché dietro una quinta un po’ nascosta apparve l’inconfondibile untume marron chiaro.

«Andiamo» disse l’uomo «ora so la strada.»

E scesero, quasi a mani in tasca, sulla via dei camosci, fino a una forcella, dove transitavano i sentieri segnati.

«Se il camoscio non è spaventato vagli dietro, ti porterà a casa» così diceva il padre al Cercatore. Una volta glielo disse anche il nonno, quel vecchio alto come un larice che pronunciava tre parole all’anno. Lo disse solo una volta.

In quanto a muoversi, le montagne sono imitate dagli alberi. Anche quelli ogni tanto scorrazzano qua e là. Sono le nebbie a mettergli gambe e spingerli. Vengono giù dai monti, le calíghe, o vi salgono, coprendo di vapori valli, costoni e vette di bambagia. Se vanno adagio, è più difficile notare che spostano alberi. Però ci si accorge. I fusti si muovono in senso contrario alla fuga delle nebbie, e vanno in giro. Certe volte, quando le dame bianche calano veloci verso il fondo, interi boschi partono di corsa e vanno in alto, fin dove cominciano le rocce. Se non c’è un punto di riferimento, sembra davvero che gli alberi camminino. Ma quando il muro bianco si squarcia e appare un masso, uno spigolo o altro, ecco che il bosco si arresta di colpo come se avesse sbattuto il muso. Allora si scopre che viaggiano soltanto le nebbie, misteriose regine del vuoto, nell’eterno vagare tra i picchi.

Vi sono certi larici solitari, piantati nei costoni come spine nel fianco dei monti, che trasmettono abbandono e solitudine. S’inchinano al passar delle nebbie ed è l’unico spostamento che fanno. Non camminano come gli altri perché son vecchi e stanchi. Si limitano a fare inchini. Su e giù con la testa, di qua e di là, come a riempire il foglio del cielo sulla carta carbone delle nebbie. Le cime dei larici sono quanto di più sottile e flessibile si possa trovare. Per questo scrivono molto. Piegano la punta a ogni alito di vento. Al passaggio solenne delle calíghe, pennellano la volta adagio adagio, come a preparare il fondo. Gli alberi sono uomini con pregi e difetti, virtù e vizi. A volte sono capricciosi, a volte dispettosi. E quando un albero fa dispetti, l’uomo deve stare molto attento.

Una volta il Cercatore intraprese un lungo giro tra i monti. S’inoltrò in zone remote e inospitali, dove perdersi costa poco. Aveva preventivato due giorni, invece ne impiegò tre. La prima notte la passò nell’antro dei bracconieri, al centro della Val Bosco Nero. È detta così perché la selva è tanto fitta che non vi passa il sole. La pioggia fatica a penetrare, e quando riesce vi rimane, spossata dallo sforzo. In quel posto dimenticato da Dio, l’umidità è regina, i sentieri scomparsi, nessun segnavia, percorsi impervi e isolamento completo. Il tutto sotto l’ala protettiva di un gigante di roccia dal nome ostile che sfiora i tremila, e rovescia l’ombra della sua parete settentrionale fino all’antro. Il Cercatore dormì poco e male. S’era levate le nebbie, i boschi camminavano nella notte. Tutto si agitava mentre sulle foglie morte ticchettava la pioggia d’autunno.

Il giorno dopo uguale: calíghe e pioviscola. Ciononostante partì. Calò verso i piedi del monte, risalì un canalone ostile, con tratti difficili su roccia malsana. Discese ancora un lungo tratto di ghiaione fino alla famosa Cengia delle Intorte. Si trattava di percorrerla verso destra per un paio di chilometri. All’inizio c’è pericolo, una scivolata e addio, poi diventa meno acida. Traversò, avvolto dalle nebbie, tutta la cintura di roccia attorno alle cime Laste e Gea. Mai tristezza e desolazione furono così presenti come in quei giorni. Solitudine e silenzio imperversavano dentro la natura chiusa in se stessa, ostile, umida e per nulla favorevole. Il Cercatore si domandò più volte: “Che ci faccio qui?”, benché lo sapesse. Uno dei segreti delle montagne è il loro fascino, che trascina l’esploratore nei posti più inquietanti e pericolosi. Lo infila in situazioni drammatiche, gli fa superare punti di non ritorno da maledire aspramente il giorno che è nato. Questo è il volto della montagna, uno sguardo che ammalia l’appassionato per spingerlo in trappole a volte mortali. Il Cercatore traversò la cengia tra foschie disperate vaganti qua e là, come fantasmi in fuga, accompagnato da un pulviscolo di pioggia che alla lunga bagnava. Sperava che lo spesso drappo bianco diradasse un poco, in modo da trovare il difficile passaggio alle porte di Gea. Confidava nel grande larice secolare che, come un faro, dava la rotta ai naviganti per non perdersi. Nelle giornate buone, esso appariva lontano, all’orizzonte di un costone pelato dal vento. Si deve passare accanto a lui o da quel posto non si esce più.

«Cerca il larice» gli diceva il padre «quando verrai da queste parti senza di me.»

Col vecchio ci era stato spesso, ma sapeva che un giorno avrebbe dovuto cavarsela senza di lui. Quel giorno era arrivato. Tentò più volte d’individuare il larice ma era fuggito via. Le nebbie lo avevano spinto lontano, forse verso l’alto. Provò per ore a incontrare il passaggio, o meglio, il larice che doveva rivelarlo. Non ci fu verso. L’albero aveva messo le gambe ed era sparito. Intanto passava il tempo, le nebbie diventarono scure, la sera arrivò con le spalle bagnate di pioggia. Poi giunse la notte. Il Cercatore trovò una grotta e, avvolto nel sacco a pelo, cercò un sonno che non veniva. La sua mente era popolata di foschi presagi. L’albero era scomparso. Ricordò il Vangelo di Marco e il cieco guarito da Gesù, che spalmò sulle orbite vuote sputo e polvere. Una volta riacquistata la vista gli fu chiesto: “Cosa vedi?”. “Vedo alberi che camminano.” Quegli alberi erano uomini. E gli uomini sono alberi.

Il suo larice, quel giorno, aveva preso a camminare. S’era dileguato, facendogli perdere l’orientamento. Fu costretto a passare la notte nell’antro in attesa del giorno. Che arrivò, ma non era finita: la pioggia seguitava a percuotere quel mondo senza luce, costringendo il Cercatore a un altro bivacco. Dopo due notti nella grotta, avvolto da ansie di naufrago fitte come le nebbie, arrivò un breve dono di schiarita. Uscì per scrutare verso l’intaglio. Il grande larice tornava. Lo vide spinto dalle nebbie sfilacciate, camminare verso l’antico luogo di nascita e collocarsi di nuovo al suo posto. In quel preciso istante capì che la sosta forzata era finita. Riprese la via che il vecchio signore indicava da trecento anni. Passandovi accanto lo sfiorò con la mano in segno di gratitudine.

In montagna vi sono cose che si spostano. Alcune, quando partono, diventano proiettili. A volte, sui monti la gente cammina pestando sentieri comodi, privi d’inciampi, lisci come olio. Spesso rasentano pareti di roccia verticali. Vanno allegri verso la meta non rendendosi conto che dall’alto può calare la morte come un falco sulla biscia. Eppure marciano tranquilli senza pensarci né temere nulla. Quando si cammina sotto tiro, con spade di Damocle sulla testa, è saggio stare aderenti più possibile alla montagna. Lanciare ogni tanto occhiate verso l’alto e capire che roccia pencola sul vuoto. Può essere friabile, con pietre insicure che stanno incollate con lo sputo. Nel caso, occorre affrettare il passo e togliersi veloci dal pericolo. Che esiste anche nel caso di roccia sana. Può succedere, infatti, che di sopra i camosci o i corvi muovano una pietruzza la quale, rotolando, ne muove una più grossa. Quella più grossa dà l’abbrivio a una maggiore finché si crea una scarica di sassi che finisce in testa all’escursionista. Quindi, osservare sempre cosa pende sopra di noi e agire di conseguenza.

Accadono spostamenti, sulle montagne, che possono risultare fatali se il viandante si trova nei paraggi. O se per disgrazia vi si trova dentro. Si scatenano valanghe, frane, pietre, terremoti, alberi sradicati dal vento, fulmini, acque improvvise. Può capitare di ritrovarsi in una pacifica valle, sprofondata nella quiete dell’inverno: si guardano le cime innevate, illuminate dal sole, raccolte in un silenzio che sembra di marmo. All’improvviso, la pace si frantuma. I pendii di una certa zona ondeggiano, la montagna trema, nasce un rombo che prende voce di boato, monta in mille tuoni. La valanga è partita. Guai trovarsi in quel pendio sulla linea di scivolo.

Per muovere la neve basta un colpo di tosse, il battito d’ali del corvo, la temperatura che cambia, uno sternuto di vento. Le valanghe non calano soltanto dal ripido. Si staccano dappertutto. Il nonno avvertiva il nipote di non prendere confidenza: «Le lavine filano anche tra il bosco, quelle maligne vanno anche in su». Così diceva. Esagerava affinché l’attenzione fosse maggiore, conosceva il subdolo pericolo delle valanghe.

Nonostante tutti gli avvertimenti, in età adulta il Cercatore ci finì dentro salvandosi per miracolo. Sputato sdegnosamente dalla valanga, capì che, alla resa dei conti, l’esistenza è in mano al destino.

Una volta, in una stretta valle cucita alla pianura dalla statale, capitò un fatto che lasciò la gente senza parole. Verso mezzogiorno transitava un ciclista solitario dentro un traffico ridotto a zero. La strada si snodava per una trentina di chilometri sul filo di burroni e forre. Sopra di lei balzavano pareti di roccia alte fino al cielo. Oggi quella via è stata soppiantata da una nuova, più sicura, ma a quei tempi era l’unica che collegava la montagna alle città di pianura. Il ciclista solitario aveva percorso metà valle quando una grossa pietra decise di lasciare il luogo d’origine. Venne giù da altezze dove di solito stazionano i corvi. Lo colpì dritto in testa, fracassandogli il casco. Il ciclista morì sul colpo. Bastava una pedalata in meno, una in più, oppure una curva presa meno veloce, o più veloce, e l’uomo sarebbe sgattaiolato via dalla traiettoria. Invece tutto concordò affinché si trovasse al posto giusto nel momento giusto.

Le montagne si muovono tra le nebbie ma si muovono anche i vestiti che indossano. E sono pericolosi. Per quanta attenzione si possa mettere, non sempre si riescono a evitare i cambi d’abito della Signora. Quando si toglie i veli, partono valanghe. Se batte le ciglia, calano i fulmini. Leva le scarpe ed ecco le frane. Perde un dente e rotola una pietra. Piange ed esplodono acque. Toglie il soprabito e romba il terremoto. Butta un guanto e si spacca un ramo che finisce in testa al viandante. Si soffia il naso e cade un albero. La montagna è una mitragliatrice spianata, sventaglia raffiche in tutte le stagioni.

Su certi crinali, ad esempio, tira sempre il vento. Viene a folate continue senza quasi interrompere la corsa. Muove il bosco coi suoi violenti urtoni, spingendolo su e giù. Le piante scosse con forza sono processioni di pellegrini che fanno avanti e indietro. Dietro il frascare insistente non hanno pace. Sui crinali battuti dal vento, lungo creste affilate e nei costoni percossi ai fianchi, nascono lamenti, voci, urla soffocate. Se un viandante si trova nei paraggi, viene addentato dalla malinconia. I cani della tristezza mordono l’anima. Il tempo passa, le cose vanno a perdersi, la vecchiaia avanza, tutto si sgretola: il vento nel suo fischiare comunica queste cose. Soprattutto in autunno, quando la vita s’arriccia come le foglie. Sotto le raffiche senza pace, uno si sente spellare le ossa. Allora, dopo che ha visto camminare il bosco, con le ossa tremanti e nude, torna a casa a rifugiarsi accanto al fuoco. Aspetta di pigliar sonno, cullato dal ricordo di ciò che è stato. Ripensa al fiato del vento che soffia nei flauti di roccia, li fa cantare. Percepisce l’autunno dei crinali, delle creste, dei costoni. Per un attimo ha l’impressione sia tornata primavera. Cullato da quella sensazione s’addormenta, udendo lontano il canto dei cuculi. Ma è solo illusione. Affinché torni primavera, la terra deve fare il suo giro, per ora lo ha fatto l’inverno. E si trova lì, dietro un larice, pronto a saltar fuori appena l’autunno si dissolve nel cambio.

Questi sono segreti delle montagne, illusioni di uomini, cicli di stagioni, pazienza e gioia di stare al mondo dentro le cose. La montagna, nei suoi spostamenti, offre visioni che fanno riflettere.

Il Cercatore ricordava un tempo lontano, quando andava per monti col nonno. Sovente s’imbattevano in grandi alberi rovesciati dal vento. Le radici aggrovigliate in aria cercavano ancora vita ma erano secche come serpenti morti. Il vecchio puntava un dito e diceva: «Vedi? Non aveva la base salda, non si era grampato bene alla terra. Per questo è caduto».

Ogni albero guarda chi lo guarda, quelli atterrati sembrano chiedere aiuto. Col dito ancora puntato, il vecchio partiva con la predica sulla vita futura del nipote. Avrebbe dovuto piantarla bene, la vita, all’inizio, quando era piccola, se voleva che rimanesse in piedi da grande. Per questo occorreva rinforzare la base, renderla come cemento. E ancora non era sufficiente. Anche le radici andavano irrobustite, altrimenti, pur crescendo in terra solida, potevano rompersi sotto le oscillazioni della pianta.

«La vita» incalzava il vecchio, «è come un albero. Da piccolo si piega, si doma, resiste a tutto. Una volta grande, alto e grosso, diventa pesante. Soprattutto a se stesso. Se non ha base solida e radici ben piantate, addio. Il vento preme sui grandi alberi perché trova posto e, se non sono stabili, li butta in terra.»

Il vecchio intendeva che da piccoli si sopporta meglio il dolore forse perché non ci si rende conto delle cose. Dopo le batoste si rinasce a nuovi entusiasmi immediatamente il giorno dopo. Da adulti non è così. Da adulti il corpo si stabilizza, diventa compatto, inflessibile. Diventa albero, muro dove picchiano i venti e le valanghe dell’esistenza. Se fondamenta e terreno non sono a posto, crolla tutto. Nel crollo, l’albero può travolgere e schiantare piante che vivono attorno a lui.

«Non si cade mai da soli» diceva il vecchio imbattendosi in un albero crollato. Ogni spostamento, in montagna, coinvolge altri elementi. Come nella vita. Il nonno raccomandava di non cadere. Soprattutto non travolgere altri, cosa difficile in ogni crollo. Per il proprio bene e quello altrui, il vecchio consigliava evitare più possibile cadute.

Ci sono, poi, spostamenti imputabili alla neve. Che non sempre sono valanghe. C’erano inverni nel passato dove lo spessore del bianco s’accumulava a metri. Poi sempre meno, fino a inverni quieti con neve giusta a soddisfare il Natale, gli sciatori e scaldare la terra. Per mezzo secolo è andata così. La gente pensava che i tempi delle grandi nevicate fossero scomparsi. E non tornassero più. Si sbagliava. L’inverno 2014 s’è presentato con il muso duro. Neve a metri, e senza pause. Tetti crollati, linee elettriche sfasciate, paesi isolati per giorni. L’inverno della paura era tornato, come ai tempi antichi. Vi furono giorni di angoscia. Nei villaggi dolomitici, dopo oltre cinquant’anni, vennero riesumati i Piovech, squadre di uomini coi badili a pulire i tetti. Una volta era la regola. Nel paese del Cercatore, fino agli anni Cinquanta, operava una numerosa squadra Piovech. Per emergenze, erano oltre cento. Sgomberavano neve da strade, sentieri, viottoli e tetti. Ora non è più così, la gente è in balia degli elementi. Un inverno scontroso e pieno di neve come quello del 2014 ha messo in ginocchio tutti. Specialmente in quelle zone di montagna dove prospera un turismo di lusso e la neve cade firmata. Rimasero senza corrente, privi di luce, riscaldamento e iniziative. Compreso Antonio Franchini, che villeggiava da quelle parti. La montagna aveva spostato le poltrone, chi non ne aveva di riserva s’era trovato col sedere in terra.

Un vecchio amico del Cercatore di nome Celio, uomo dolce dal destino tragico, diceva al ragazzo: «Ciò che è stato, prima o dopo torna. Tranne la gioventù, tutto ricompare. Vivi pensando al peggio, lavora con l’attenzione del non si sa mai. Poi, quello che viene, viene». Intendeva che al destino non si sfugge, era un uomo fatalista, ma anche pratico.

Una volta, ai primi d’aprile, lui e il giovane amico andarono a caccia di urogalli nella remota valle dove nasce il torrente. Là, i cedroni non mancavano ma c’era anche la neve. Il bianco fragile li obbligò alle ciaspole nella fatica di un giorno intero. Dove il torrente fa la grande ansa, c’era una casupola. Ora è in rovina, sono rimasti soltanto muri umidi e disfatti, travolti dall’oblio del tempo. Ricordano la loro storia perduta, nascosti da alberi, ortiche e felci.

Una volta, lì dentro, c’era la vita, uomini scolpivano tronchi per cavarne oggetti, bambini giocavano con l’acqua, c’era qualche mucca, le capre. Tutto intorno, solitarie vette rocciose vegliavano su quella famigliola cullata di notte dal canto del torrente. Poche cose per vivere, e la montagna regina che decideva di regalare o togliere senza alcun progetto. Dopo la prima guerra, le cose cambiarono, la famiglia emigrò, la casa restò vuota.

Alla dimora abbandonata, a quei tempi ancora accogliente, erano diretti il Cercatore e l’amico anziano. Il giovane temeva che le eccezionali nevicate avessero sfondato il tetto della baita. Era stato un inverno pesante. Lungo il cammino si preoccupava e lo manifestava al maestro.

«Preghiamo che non sia crollato il tetto» ripeteva.

«Prega tu» rispondeva Celio.

Il ragazzo insisteva: «Preghiamo che il tetto sia ancora a posto, altrimenti siamo fritti».

Celio mugugnava, di sicuro bestemmiava. Stava piovendo dal mattino, la vecchia neve spossata era poltiglia, le ciaspe si caricavano, diventando piombo. Il giovane aveva paura di trovare la copertura sfondata. In quel caso sarebbero stati guai. Bivaccare sotto un abete col tempaccio e bagnati fradici non era salutare.

«Preghiamo che non sia crollato il tetto» ripeteva come un mantra.

A un certo punto Celio si fermò. Guardò l’allievo con occhi truci e disse: «Scolta canaj, preghiamo pure, ma ricordati che se il tetto lo troviamo a posto abbiamo pregato per niente, se invece è crollato abbiamo lo stesso pregato per niente. E io per niente non voglio fare niente». Detto questo ripartì senza più aprire bocca.

La casupola sopra la grande ansa aveva retto ai colpi di un inverno brutale. I due trovarono riparo. Il vecchio accese un falò per asciugare i vestiti e avere compagnia. Il torrente rumoreggiava poco sotto, dividendo equamente alti muri di neve in disfacimento. Tutto quel bianco ormai molle e in fin di vita aveva spostato sentieri e riferimenti occultando le cose. Non fu semplice individuare il ricovero. Con le alluvioni d’autunno, l’ansa si era mossa da lì allungandosi a valle e ciò contribuì a depistarli. Alla fine si trovarono al sicuro tra quelle pareti silenziose che mezzo secolo prima udivano bambini chiamarsi a giocare.

Uno dei tanti misteri della montagna è quello di spostare cose, confondere immagini, mutare paesaggi. Lo fa a ogni stagione, ma d’inverno lo si nota di più. D’inverno si stenta a orientarsi anche là dove ci si è mossi per una vita. Il paesaggio sembra rimpicciolire, stringersi nel gelo, ficcarsi dentro la terra. La neve lo copre nascondendo dettagli e particolari. Le lontananze aumentano, perdono fisionomia, svaniscono. Il conosciuto diventa estraneo, quasi un mondo nuovo da scoprire, come se fosse appena balzato all’aperto. Il silenzio regna solenne sul mondo congelato. Solo ogni tanto viene rotto dal cra di un corvo imperiale, o dalla raffica sparata in un albero morto dalla mitraglia del picchio. Mai fare affidamento, quindi, sulle distanze conosciute. Sono segreti dell’inverno con la sua luce diafana, e le lune di zolfo, e vento di pulviscoli che nascondono le realtà sotto il cuscino bombato della neve. Attenti a muoversi nel regno bianco: tutto avanza davanti a noi, per non farsi prendere.

La montagna gioca spesso con gli uomini, si diverte a farli dannare. Giova stare all’occhio, sovente la Signora non tiene misura degli scherzi che inventa. Spesso nemmeno s’accorge. È grande, se sbadiglia fa uragano, si stiracchia ed è terremoto, piange e c’è il temporale. Si rimbocca il lenzuolo ed è la neve. E quando c’è la neve, le distanze vanno a fisarmonica.

Una volta il Cercatore era andato con due amici, ridottisi poi a uno, a scalare delle cime inviolate in una valle dove pochi esseri umani mettevano piede. Soprattutto nella stagione fredda. Decisero di tentare a gennaio, quando l’ambiente è più ostico e respingente. Soprattutto perché d’inverno quelle cime non erano mai state scalate, perciò, se fosse andata bene, c’era da guadagnarci onore e gloria, blasoni che ogni alpinista ambisce. Così partirono. Il primo giorno lo consumarono per arrivare sotto le due sorelle poste una accanto all’altra, salite la prima volta nel 1902, da austriaci e tedeschi. Dopo un bivacco penoso, al mattino i tre compari scalarono la più alta dal versante occidentale. C’era molta neve e bisognava pulire gli appigli metro dopo metro. Il Cercatore conosceva quelle cime avendole frequentate d’estate, ma ora era un’altra faccenda. Quando fu di trovar la via del ritorno, la montagna si mise a giocare. Sotto masse di neve mai viste, erano scomparsi riferimenti, tracce, ometti e ogni segno che potesse indicare il verso a discesa. Da nord saliva un rasoio di vento che scorticava la faccia, mentre il disco di un sole anemico s’affrettava a nascondersi dietro lo spallone estremo dell’ovest. Prima di sparire, illuminò l’ultima volta quel mondo irreale e gelido, distante da ogni calore umano. La neve si fece giallo oro e iniziò a spostarsi. Enormi gobbe e pendii carichi all’inverosimile si gonfiavano come se respirassero prima di voltarsi e farsi più in là. Le creste sembravano tutte uguali, bombate e rotonde, senza più filo, come un coltello con sopra un cuscino. Su tutto scintillava un pulviscolo agitato dal vento che luceva agli ultimi raggi come polvere di vetro. La montagna d’inverno era lì, pura e semplice, nella sua spietata realtà.

I tre naufraghi avevano calcato la vetta ma la festa del ritorno era ancora lontana. L’ultimo debole raggio s’accartocciò dietro il monte e l’aria diventò blu. Allora, soffi e sussulti e ansiti su cime e creste e panettoni di neve si chetarono con un ultimo respiro, come fa un cane prima del sonno. La natura andava a coricarsi. I tre, confusi e frastornati da quei luoghi mutanti, non trovavano la via per scendere. Prova di qua, prova di là, niente. L’aria blu stava diventando scura, la sera avvicinava una larga falce di cielo congelato. In quel momento la montagna cambiò posizione offrendo il fianco che cercavano. L’ombra dell’ultima luce dettagliò un canalino prima invisibile che si rivelò fondamentale. Mentre scendevano dentro un mondo ibernato nel silenzio indifferente dell’inverno, giuravano di non cacciarsi più in trappole simili. Dopo il bivacco in una grotta a fondovalle, il più giovane abbandonò il gruppo. Disse che ne aveva abbastanza. Cercatore e compagno si concessero un giorno nell’antro, accanto al fuoco: con qualche boccale di acquavite zuccherata e bollente e le faville che danzavano, ripresero coraggio. Questo bastò a farli sognare di nuovo. Decisero, infatti, di partire per la seconda vetta, mai salita d’inverno. La montagna è amante per la vita. Quando tradisce fa arrabbiare, e allora si giurano propositi di abbandono. Ma poi si torna a cercarla, la si chiama al telefono. Questo succede. Amare significa tornare. Tutto qui.

I due superstiti, quindi, andarono all’arrembaggio della seconda vetta. E pagarono di nuovo i capricci della montagna invernale. Questa volta persero la via già in salita. Non trovarono il lungo spigolo che, con un balzo verticale di un chilometro, mena alla cima nord. Credettero di aver preso quello giusto ma lassù, con la neve che copriva il mondo, tutto era giusto. Invece presero quello sbagliato. E furono altri guai. Per agganciarsi alla via originale, rischiarono l’osso del collo. Alla fine arrivarono in cima. Ma la faccenda non era chiusa. Occorreva scendere e non vi era traccia dei vecchi ancoraggi messi dal Cercatore cinque anni prima. Dove saranno stati? Metri di neve occultavano tutto. Allora sfidarono la sorte buttandosi a casaccio lungo un canalone. In montagna il casaccio non regala colpi di fortuna. Mai. È praticamente impossibile imbroccarla al primo colpo. Può succedere ma è così raro che non vale sprecarci tempo. A volte si tenta se va, ma non va. O va male. In quota si deve conoscere, ragionare, studiare e alla fine decidere. Scegliere su queste basi è il minimo. Sperare nella fortuna lassù, dove l’aria diventa sottile, è pericoloso. Anche patetico.

I conquistatori dell’inutile si trovarono così sul vuoto. Balze di roccia verticale di cui non vedevano il fondo s’opposero alla discesa. Furono costretti risalire al punto di partenza. Per provare altrove. Ma dove? Da che parte? Il Cercatore invocò orientamento guardando le cime a occidente affinché gli mandassero un segno che indicasse la via. Niente. Per tre volte tentarono la sorte lungo canali innevati che terminavano sul nulla. Provarono e vagarono finché dai monti più alti calarono le ombre della sera. Allora decisero senza indugio di scendere dalla via appena salita. Quella portava tracce evidenti, non potevano sbagliare. Fu un estenuante manovrar di corde e calate, e piantar chiodi cercando le fessure sotto la neve raspata a suon di piccozza. Bene o male, nel buio ormai solido, giunsero alla base, rifugiandosi nell’antro amico, dopo aver sacramentato per ore. Giuravano che mai più si sarebbero cacciati in guai simili. Lo dicevano anche due giorni prima. La montagna fa pronunciare giuramenti ma non li fa mantenere. Chi la ama veramente, finché ha gambe ci torna. Anche se essa, qualche volta, modifica i profili cagionando guai, gli amanti ci ricascano.

I due nell’antro accesero il fuoco e si buttarono nei sacchi a pelo senza toccare cibo. Ma il sonno tardava. Fuori era la notte dell’inverno, e qualcosa di frusciante cadeva dal cielo come un respiro. La neve veniva silenziosa a cullare i superstiti del tempo. In quel regno di solitudine e silenzio, dove i corvi tremavano di freddo e i camosci morivano nelle valanghe, il tempo si fermava, sepolto dal bianco uniforme e dal gelo. I due ascoltavano la neve sussurrare la sua canzone alla notte. Non la temevano, erano attrezzati, muniti di ciaspe per galleggiare sull’acqua solida dei fiocchi come Gesù sul lago. La montagna ormai s’era fermata, fino al prossimo sole non avrebbe effettuato spostamenti. Per tornare in paese, bastava seguire il corso del torrente, quello nessuno poteva deviarlo. Cullati da questo buon pensiero, s’addormentarono accanto al fuoco, dentro la caverna che da secoli ospitava i pellegrini dei monti, naufragati nel mare buio delle notti.

Molti anni fa, per via dei mutamenti repentini, successe un fatto tragico che coinvolse cinque fratelli boscaioli. Era sabato di fine novembre quando decisero fare un salto a casa. Tagliavano boschi lontani. Quel salto esigeva otto ore di marcia per gente allenata. Da un paese oltre le valli, dovevano scavalcare passi dolomitici su tratturi disagevoli. Ma non c’era ancora neve e conoscevano il percorso a menadito. Si prepararono pieni d’entusiasmo e brio. Potevano finalmente abbracciare i genitori. Chi li aveva, anche figli e mogli. Partirono sotto un cielo grigio col muso da neve. Alzarono gli occhi, fecero calcoli convenendo che valeva la pena.

«Ce la possiamo fare» dissero.

Erano uomini esperti, ma non tennero conto gli spostamenti della montagna. Confidarono nella memoria che rifletteva netta la mappa dei sentieri. Confidarono nella velocità di passi avvezzi alle salite. Ma la memoria ricorda il già visto, conserva ciò che ha conosciuto. E i passi rallentano in neve alta. Lassù quel giorno, e la notte che seguì, e il giorno dopo ancora, nulla fu come prima, nulla di conosciuto. Fu inverno d’improvviso in una zona mai vista. Iniziò a nevicare che erano già in alto. Potevano fare dietrofront ma ancora ebbero fiducia nella sorte. Soprattutto in loro stessi. Intanto la neve cresceva. Cresceva come mai era successo di vedere. Un fungo bianco s’alzava sul mondo a vista d’occhio. Loro andarono avanti. Traversarono schiene di valli, sprofondarono in boschi scheletriti, risalirono. Nevicava che, voltandosi, non vedevano le orme appena impresse. Iniziarono a procedere a strappi, sempre con maggior fatica e soste ravvicinate. Da quel momento partì il calvario. Erano troppo avanti per tornare, troppo stanchi per correre, troppo lontani dalla meta per sperare. Uno dei fratelli, il più giovane, ricordò che a lato del percorso, lungo un sentiero poco battuto, esisteva quella baita solitaria... Comunicò con gli altri e, tutti d’accordo, decisero di raggiungerla. Cercarono il sentiero come cercare il filo sottile della vita che parte da un albero tra le nebbie e si perde nel nulla. Non avevano fatto i conti con la montagna che si sposta. Non esisteva alcun sentiero, nemmeno la zona era più la stessa. Quella che conoscevano bene era andata via, scivolata chissà dove, finita in altri mondi. I fratelli non si orientarono più. Ma nemmeno si spaventarono. Era gente tosta, temprata a tutto, abituata ai sacrifici fin da bambini. Forse per questo parlavano poco. Uomini essenziali, laconici, duri e contorti come i carpini che tagliavano.

Repentina a volo di falco calò la notte con la sua coperta scura. Cinque naufraghi braccati dal maltempo, cinque fratelli nella tempesta bianca uniti dall’affetto trovarono rifugio sotto le ali spiegate di un abete bianco. Riuscirono ad accendere un fuoco, erano esperti, non ci volle molto. Stretti uno accanto all’altro, come un pugno chiuso, aspettarono la luce del nuovo mattino. Lentamente i vestiti asciugavano. A turno tagliavano rami per alimentare il falò. La neve cadeva inesorabile. La sentivano ticchettare sul bosco ormai sepolto, sulle fronde dell’abete bianco piegate dal peso. Nessuno parlava.

Si levò un vento fischiante che faceva turbinare il nevischio e roteare le fiamme. Ogni tanto, chi prima chi dopo, s’appisolava. Era una notte di tortura, irreale e gelida, piena di domande. Il più giovane disse: «Sono stanco». Non si sa a che ora ma disse così, che era stanco. Fu il segnale di cedimento, il suo destino iniziava quella notte.

«Non ci pensare, riposati, ti aiuteremo» lo rassicurò il più vecchio. Era convinto di poterlo aiutare.

Non parlarono più. Non c’era niente da dire. La notte li avvolgeva, la neve cresceva, stavano lì per resistere, niente rimorsi o rimpianti. I “se” e i “ma” sarebbero stati commenti ridicoli. Di quelli non ne facevano. La montagna conosciuta si era spostata, al suo posto era comparsa un’altra, completamente ignota.

L’alba s’annunciò dentro una caligine lattiginosa, lacerata dal fischio del vento.

«Dobbiamo trovare la baita» disse il più vecchio «o si mette male.»

«Deve essere qua intorno» disse il giovane «mi pare si voltasse più su.»

Partirono sprofondando alla cintola e nevicava sempre fitto. Il vento li scuoteva, la fuliggine bianca li accecava ma avanzavano. Il più giovane era convinto trovare la deviazione che menava alla baita. Cercava, facendo avanti e indietro con estrema fatica. Gli altri ispezionavano margini di bosco sepolto per lo stesso motivo. Dovevano trovare la casupola o era la fine. Vagarono ore sotto la neve e la sferza del vento senza approdare a nulla. Finché il giovane s’accasciò. Arrivarono da lui che rantolava sfinito. Alzò con fatica la mano a segnare un punto. La baita era poco distante, semisepolta ma ancora visibile. Piansero. Il più anziano caricò sulla schiena il fratello e, aiutato dagli altri, lo portò al sicuro. Tra quei muri asciutti e accoglienti si sentirono a casa. Erano salvi. Accesero il fuoco con legna del deposito e si misero in attesa. Ma il giovane non passò la notte. Morì di sfinimento prima dell’alba. I fratelli si disperarono e piansero. Il più vecchio restò col morto, gli altri ripartirono a cercar la via, trovare la discesa al paese. Sapevano essere alti, la baita lo diceva, occorreva soltanto imbroccare la linea giusta.

Giunsero a valle stremati, entrarono nel villaggio e avvertirono. Dilaniati di fame e fatica e dolore, crollarono uno dopo l’altro nelle braccia degli amici. Venne organizzata una squadra di soccorso per recuperare il morto e il vivo. Partirono. Ma anche loro, esperti dei luoghi e vecchie volpi, si trovarono a battere una montagna sconosciuta. Anche loro dovettero vagare a lungo, le tracce dei superstiti erano scomparse sotto la nevicata. All’inizio non fu difficile ma più s’alzavano più perdevano orientamento e forze, finché diventò arduo andare avanti. Erano parecchi, venti uomini, battevano pista a turno e avanzavano nonostante la sferza del maltempo. Non riuscirono a trovare la baita prima del buio, furono costretti a un penoso bivacco sotto gli abeti sepolti nel bianco. Accesero il fuoco, s’accoccolarono intorno e aspettarono il nuovo giorno. Che s’affacciò come quelli passati, da una finestra di caligine fra il turbinio dei fiocchi e il fischio del vento. Non finiva mai, nevicò una settimana, i soccorritori ebbero vita dura. La loro montagna non esisteva più, se n’era andata. Quella nuova non la conoscevano, agivano per tentativi, intuizioni che fallivano. La neve, del resto, aveva sconvolto tutto, mutato il paesaggio, nascosto i riferimenti.

Fu un vecchio boscaiolo a trovare la pista. Seguì senza convinzione le tracce di un cervo appena passato. Che lo portò alla baita. Chiamò gli altri urlando. Arrivarono. Chiamò il boscaiolo rimasto col fratello morto. Non rispose. Liberarono la porta dalla neve, entrarono. Il fratello più vecchio era steso sul letto di tronchi, morto anche lui, come il giovane. Probabile che gli avesse ceduto il cuore, ma questo per loro non era importante. Impiegarono il resto del giorno a preparare le coze1 per trascinare a valle i fratelli. Trascorsero la notte pregando e piangendo gli amici morti che la montagna spostandosi aveva confuso e fatto sparire in un oceano di neve. L’indomani non fioccava più, ciononostante fu impresa ardua portare in paese i corpi degli sfortunati fratelli.

Che la montagna confonda gli uomini con i suoi mutamenti improvvisi è fuori dubbio, lo provano molti episodi, alcuni noti, la maggior parte sepolti nell’oblio o rimasti ignoti. Un uomo venne travolto dalla valanga mentre traversava pendii d’alta quota. Non morì. Seppur ferito in maniera seria, ebbe lucidità di chiamare i soccorsi con il cellulare. Conosceva la zona ma la neve l’aveva cambiata, modificata al punto che l’escursionista credette trovarsi da un’altra parte. Agli uomini del soccorso alpino, infatti, dichiarò un luogo assai distante da quello dove effettivamente era bloccato. Lo cercarono lì senza trovarlo. Intanto lo sfortunato spirava dall’altra parte. Fu rinvenuto il corpo tre mesi dopo, a primavera.

Una volta il Cercatore, ormai adulto ma forse ancora non esperto a sufficienza in materia di spostamenti, fece un volo col parapendio. A quei tempi, la novità di volare appesi a uno straccio partendo da una vetta, un costone o qualsivoglia pendio, era di fresco arrivata in patria. A provare l’ebbrezza sconosciuta lo convinse un amico che teneva scuola di volo. Dopo un quarto d’ora di sommarie istruzioni e prove decollo, il Cercatore si buttò da un monte. Un balzo di mille metri. Era gennaio: freddo da ustionare la pelle e metri di neve. E c’era anche un sole gelido che splendeva sopra una giornata magnifica. Cose che potevano bastare al godimento dell’anima. Ma il Cercatore bramava l’aria e si lanciò. Quando fu nell’azzurro capì che non era il suo sport. A quel punto c’era solo da concludere senza danni. Ricordava lucidi i dettami dell’istruttore: maniglia destra per girare a destra, sinistra per andare a sinistra, all’atterraggio tirarle entrambe. Intanto andava calando verso il basso. Si chiedeva quando avesse dovuto abbassare le maniglie, la neve non lasciava capire. Pareva sempre lì, alla stessa distanza, e non dava alcuna dritta. Subentrò il panico. Non vi era niente cui riferirsi, nemmeno un alberello. Solo una piana uniforme e bianca, accecata di sole anemico. Gli pareva essere assai lontano quando subì l’impatto e sprofondò. Per fortuna la neve era alta, non troppo solida e lo accolse con affetto. Ma dovettero estrarlo perché si era conficcato come un chiodo. Il punto d’atterraggio, dopo essersi allontanato, era balzato di colpo verso l’alto colpendolo in pieno: mistero degli spostamenti.

L’istruttore lo raggiunse. Disse che ci voleva un altro volo, per limare le sbavature, il resto bene. Disse proprio “limare sbavature”. Il Cercatore si convinse alla lima e si lasciò di nuovo trasportare a monte in automobile. Altro decollo. Stavolta i miraggi della neve non lo avrebbero fregato, ormai conosceva il trucco. “Quando sembra lontana è vicina, devo tirare le maniglie” pensò. E le tirò ghignando. Ma la neve era lontana. Piuttosto lontana. Almeno dieci metri. Andò giù come un sasso. Per la seconda volta lo spessore del manto lo salvò. Per la seconda volta i misteri della montagna lo avevano ingannato. Questo bastò a farlo decidere: non avrebbe più limato nulla, sarebbe rimasto coi piedi per terra, a volte anche le mani. Ma quella remota faccenda deve avergli donato qualcosa. Quando racconta l’avventura, gli occhi lo tradiscono. Forse, nonostante gli spostamenti della terra, l’aria che lo isolò dal mondo per alcuni minuti gli aveva lasciato un bel ricordo. Un’emozione che dura ancora.

1. Rudimentali slitte di rami assemblati a intreccio.