I sentieri, come i sogni, sono bave misteriose che appaiono all’improvviso sulle montagne. Le montagne ultimamente perdono pezzi, intere pareti, scivolano a valle e si rovesciano. Qualche cima piega la testa come a pregare e poi viene giù, con un rosario di frastuoni, l’intera chiesa. Perché ogni tanto le montagne si lasciano andare, rovinando a valle? I geologi esprimono teorie complicate, probabilmente giuste. Ma forse sono i rumori a buttarle giù. I frastuoni di voci e chiasso che fanno i camminanti riuniti in comitive, gruppi, processioni, eserciti. Questa gente si porta dietro la città con tutto l’armamentario e quel che ne consegue. Sui sentieri di montagna, ma in tutti i luoghi dove impera la natura, si dovrebbe parlare sottovoce. Meglio sarebbe stare zitti e guardarsi intorno. Allora si scoprirebbero cose che sembra vengano da altri mondi. Invece sono dentro di noi, vegliano in attesa di sortire, lievi come spiriti assopiti.
Sui sentieri delle montagne, specie le domeniche d’estate o nelle ferie d’agosto, c’è il caos. Gente che urla, chiama, vocifera, schiamazza. Fa pic-nic attorno ai laghetti con radio a pieno volume. Le montagne sentono i frastuoni, non possono tapparsi le orecchie. Quei suoni che in città sono la norma, in ambiente silenzioso e naturale risultano sgradevoli. I rumori vanno su, insinuano le pieghe delle rocce, premono ripetendosi come un’eco senza fine. Alla lunga minano la solidità delle pareti che un po’ alla volta s’ammalano, mollano la presa e saltano giù. Ecco perché ogni tanto crolla qualche pezzo di montagna o la montagna intera.
Pure i sentieri soffrono della gazzarra maleducata e delle voci ad alto volume. Loro non possono staccarsi da se stessi e correre a nascondersi. Stanno lì, battuti da scarpe e scarponi a ogni ora, impregnandosi di chiacchiere e schiamazzi che gli piovono addosso come chiodi. Allora ogni tanto si ribellano, dicono basta impennandosi a zig zag con nervosi colpi di reni. Ma anche sul ripido qualcuno ha fiato per gridare, urlacciare e rompere l’incanto della montagna.
Il Cercatore racconta spesso la storia di un amico, un cacciatore solitario, che beveva e viveva malamente, chiuso nel suo mondo di fantasmi. Piccoletto e agile, forte come l’acciaio, quando frequentava le osterie era un ciclone. Sbraitava, cantava, provocava osti e avventori con urla e bestemmie. Non si può dire li spaventasse, essendo una spanna, ma di sicuro si faceva notare. E se qualcuno non lo badava, gridava più forte. Così tra i suoi simili. Ma quando entrava nel regno incantato dei monti era un’altra persona. Più che parlare emetteva frasi alla stregua di fiati appena percettibili. Aliti sottili da non udirlo a un centimetro. Sui tratturi camminava leggero da sembrar sospeso a due dita dal terreno. Guardava la natura ammutolito di meraviglia senza proferire parola. Sempre, come fosse la prima volta. Spesso se interpellato restava muto, alle domande non dava risposta. Poi, come si destasse da un sogno remoto, chiedeva in un sussurro: «Che hai detto?». Capace di silenzi che potevano durare giorni, viveva immerso nel suo estasiato contemplare.
Camminando per boschi e valli assieme al Cercatore, agiva come fosse solo. Sovente commentava il paesaggio parlando con se stesso. Non volle mai rassegnarsi alla motosega, il cui rumore assordante e aggressivo violentava il bosco. Così diceva: «Violenta il bosco». Tagliava legna con la manéra, come i boscaioli del tempo andato, senza lamentarsi né avere fretta. Secondo il suo pensiero, il canto delle manére non faceva danno alle orecchie degli alberi, la motosega sì. E poi con la scure se ne taglia di meno. Nel tempo che occorre ad abbattere un albero come un tubo da stufa, la motosega ne tira giù venti. Il bosco soffre e rischia l’estinzione. Così ragionava l’amico del Cercatore, alto come uno gnomo, svelto e furbo come la martora, turbolento in paese, taciturno in montagna.
Sorge spontaneo chiedersi: se si fosse sbronzato sui monti, avrebbe fatto baccano come in osteria? Nient’affatto. Successe più volte che lui e il Cercatore, andando a camosci, portassero scorte di vino. Entrambi individui di buona fiasca, non lesinavano bevute nelle notti d’attesa dentro gli antri illuminati dal fuoco. L’atteggiamento dello gnomo non mutava. Sempre contemplativo, sempre silenzioso. Anche sbronzo, attento a non far rumore, per non perdere il minimo dettaglio della natura. Era uno che ascoltava e taceva. I suoi simili, maschi e femmine, lo innervosivano. Quando li aveva vicino, annusava in loro qualcosa che lo faceva reagire. Allora cercava di allontanarli sbraitando. Percepiva un odore. Percepiva l’alito di falso. Quel sentore intollerabile d’ipocrisia che emanano gli esseri umani quando battono pacche sulle spalle chiedendo “Come stai?” e ridono. Odore di ambiguità che li segue dappertutto, anche in montagna. Spesso, o quasi sempre, imbattendosi in chiassosi battaglioni di gitanti, quell’odore si può sentire; sovrasta il profumo dei fiori e del pino mugo. La gente, nella maggior parte dei casi, non lo percepisce. E non s’accorge nemmeno del frastuono che produce andando in giro. Sono abituati così. Educati malamente in nuclei familiari ricchi di cattivo esempio. Non si rendono conto, nemmeno gli passa per la testa di parlare sottovoce. Ma tant’è. Vi sono problemi ben più gravi della cagnara nei luoghi naturali. Perciò si sorvola.
Non andrebbero male dei cartelli sui sentieri con la scritta “Parlare sottovoce”. A tutela della montagna esistono tabelle che proibiscono di cogliere fiori o accendere fuochi. Allo stesso scopo ci potrebbero stare cartelli che esortano al silenzio. Chissà, forse i gitanti abbasserebbero i decibel e magari comincerebbero a vedere quel che hanno intorno. E dopo un po’, potrebbero imitare lo gnomo, che sentiva i loro odori e nei boschi taceva. Non imitarlo nel bere, ma nel contemplare in silenzio la natura.
Lui che non voleva udire altro che le voci della montagna una volta fu costretto al rumore. Questo tipo solitario, casinista in osteria, muto sui monti, si ruppe una gamba facendo legna nei boschi della Bécola. Era novembre. Il suo compagno corse in paese a dare l’allarme. A quel tempo non esistevano cellulari, dovette pedalare di gambe. Intanto, lassù, lo gnomo era rimasto solo. Questa volta osservava il bosco in maniera diversa, con quella brutta frattura che pulsava. La zona era impervia, per fare in fretta il soccorso alpino decise di intervenire con l’elicottero. Tramite indicazioni del socio, il mezzo atterrò vicino all’infortunato, su una gobba rotonda, pelata dal vento. Balzarono gli uomini e corsero dal ferito. Dopo averlo fissato in barella, lo portarono verso l’elicottero. Quando furono vicini, lo gnomo si agitò. Afferrò il braccio di un soccorritore e disse: «Non potrebbe far meno casino quell’affare là? Spegnetelo!». Si riferiva all’elicottero. Il frastuono che usciva dal mostro pronto al decollo era una cosa intollerabile. Non lo reggevano le sue orecchie e, peggio ancora, massacrava la pace del bosco. Tale richiesta ovviamente non venne accolta, e quando il mezzo si alzò, un fracasso pauroso squarciò la montagna, scosse la selva piegando alberi e spazzando foglie. E pensare che quell’omino invisibile amava il silenzio, se poteva faceva tutto senza clamore, tranne all’osteria dove, a contatto coi suoi simili, si agitava diventando casinista.
Morì in solitudine rattrappito sulla panca, nella casetta in cima al monte, una notte di maggio. All’alba cantarono i forcelli, come per rendergli omaggio. Non arrivava a cinquant’anni. Aveva finito il tratto a lui concesso e si era fermato.
I sentieri che intarsiano le montagne rappresentano le esistenze. Si può dire che le percorrono. Quando arriviamo in vetta gettiamo lo sguardo a valle scoprendo che quei sentieri siamo noi. Vaghiamo quasi alla cieca, tra salite e discese, curve e inciampi, tratti all’ombra e altri in luce. A volte si fa dietrofront, altre è un andare in equilibrio su creste affilate sospese all’abisso. Capita di sfiorare persone che ci vengono contro, altre camminano con noi. Poi, d’improvviso, distanze in solitudine, sotto i temporali. E cadute. Sui sentieri si può cadere, alcuni riescono a poggiare le mani, altri si rompono la faccia. Tutti cercano di rialzarsi e proseguire, molti rimangono stesi. Per quelli termina la corsa. Può capitare in ogni punto. Alla fine, all’inizio, a metà, in salita, in discesa. O dietro l’incognita di una curva. Lì c’è il capolinea, lì c’è la morte. Diceva ancora quel poeta portoghese: “La morte è la curva della strada...”. Ma, se può confortarci, esiste una rivalsa: quando si muore, muore con noi la morte. La fosca Signora è un’ape, se punge muore anche lei. Considerazioni che non consolano e a volte sono tutt’altro che metafore.
Alcuni amici del Cercatore infatti sono morti davvero sui sentieri delle montagne. Uno si arrestò poco sotto la vetta. Era sindaco, stimato e amato, al suo paese arroccato sui monti. Un altro, mentre portava a spalla la bombola del gas nel rifugio che gestiva. Un altro ancora nel burrone, forse colpito dal sasso. Un vecchio amico, prima di andarsene, quando sentì che stava arrivando al termine, si accomodò ai piedi di un larice, la schiena ben aderente. Era andato a funghi, lo zaino pieno accanto al corpo. Pareva che l’albero gli tenesse la mano. Nell’ultimo istante, il larice lo aveva accompagnato.
Non si può elencarli tutti, ma sono parecchi gli amici del Cercatore morti sui sentieri. Quello dell’esistenza e quello che percorrevano al momento. Due percorsi, una vita; soltanto quella, breve o lunga, sempre difficile, conclusa d’improvviso in un determinato punto, all’aria aperta. Ecco una bella morte, direbbe Jean Valjean dei Miserabili.
Un tempo, quando si viveva di storie e i vecchi le narravano alla sera accanto al fuoco, molti sentieri erano protagonisti. Non tutti, solo alcuni. Protagonisti negativi dalla fama cupa per non dire orrida. Ogni vecchio raccontava aggiungendo qualcosa di nuovo, soprattutto di suo, in modo che le storie diventavano epiche, incredibili, non di rado allucinanti. Da bambino il Cercatore ascoltava attento, come tutti i bambini che sentono cose nuove. Non immaginava che un giorno quelle storie gli sarebbero tornate utili.
Il sentiero delle messe da morto era uno dei temibili. Si snodava silenzioso in fondo alla valle, dentro una gola tetra, sempre in ombra. Raramente il sole lambiva le pareti arcigne di pietra saldan, lungo le quali, per un buon tratto, stava scalpellato il sentiero. A un certo punto balzava un ponte ad arco che traghettava il percorso e le anime dall’altra parte. In una forra ancor più tenebrosa, di sotto mugghiava il torrente. Su quel ponte stazionavano i morti. Guai agli incauti che osavano passarlo dopo mezzanotte. Venivano afferrati e lanciati nell’orrido come pupazzi. O peggio, divorati. Qualcuno era stato inghiottito davvero, ma dalla piena, e mai più trovato. Ma i racconti di stalla lo volevano e lo davano sbranato dai morti. Da quella versione non si usciva. Qualcuno era finito nel burrone per imprudenza o volontà. Anche in quei casi era stato scaraventato dagli zombi assassini e cannibali. Robe da far accapponare la pelle. Specialmente a un bambino.
Un altro sentiero temibile nella memoria del Cercatore era quello dell’ombra scura. Dopo una lunga salita, s’incuneava nella valle dietro al paese, marciando sempre sul vuoto. Quando arrivava in fondo, si diramava in una raggiera di tratturi che partivano ognuno per proprio conto. Era come se il sentiero padre conducesse i figli per mano fino a lì e poi li liberasse, che andassero dove volevano. E questi sentierini si sbizzarrivano, correvano a zig zag a toccare baite e vette e zone selvagge dove l’umano di oggi difficilmente mette piede. Così i remoti sentierini sono scomparsi, divorati dalla selva e dall’oblio. Ma non il principale. Quello dell’ombra scura rimane molto battuto nella buona stagione perché dà accesso a tre rifugi. Di conseguenza, per ovvie ragioni, ha perso quasi tutto il suo fascino di terrore.
Oggi la gente cammina senza conoscere e senza bisogno di ricordi. Ma, ai tempi delle storie, quel sentiero era molto temuto. Chi lo percorreva di notte lo faceva a suo rischio e pericolo. Poteva darsi che a metà strada, d’improvviso davanti al camminatore, si parasse l’ombra. Una vaga ombra a sembianza umana, molto alta. Se era chiara, tipo uno straccio di nebbia, non recava problemi. Ma se era scura come un tabarro da minatore, iniziavano i guai e finiva la ragione. Quella forma imprecisa, color della pece, sollevava lo sfortunato nottambulo e lo portava chissà dove, riconsegnandolo alla società completamente pazzo per le cose orrende che aveva visto. Ogni tanto nel paese fioriva un matto nuovo e allora si diceva che aveva percorso il sentiero dell’ombra scura e lei lo aveva preso. Questo si diceva.
Un altro tratturo micidiale, ai tempi delle storie, menava su un monte inquietante. Lassù vi era una baita solitaria dove si diceva balzassero di colpo, nel cuore della notte, voci e lamenti. Ma questo era problema minore, voci e lamenti non fanno male a nessuno. Il pericolo stava sul percorso. Lo chiamavano “trui della busa” che significa “sentiero della fossa”. Antiche leggende raccontavano che d’improvviso, su quel tratturo impervio, poteva aprirsi una voragine sotto i piedi del viandante, che veniva fulmineamente inghiottito. Poi la tomba si richiudeva, la terra tornava ordinata, e nessuno si poteva accorgere di nulla. Lungo quel sentiero correvano storie da far tremare i polsi. Dopo anni, a chilometri dal luogo, affioravano corpi sui greti dei torrenti. O soltanto scheletri, alcuni dei quali avevano addosso qualche oggetto che li connotava.
Un vecchio carbonaio raccontava al Cercatore questa storia. Stava percorrendo con un socio il sentiero della busa. A un certo punto si apre la voragine e inghiotte l’amico. Lui che gli era dietro si tuffa, lo afferra per le caviglie, al volo, e cerca di tenerlo. Stava steso a pancia in giù sul bordo di quel pozzo senza fondo, le mani serrate a sostenere il compagno. Il quale gridava: «Non mollarmi». Ma non erano le sue grida a impressionarlo, bensì altre. Quelle che salivano come lamenti disperati dal buio profondo dell’abisso. Uomini e donne urlavano come se qualcuno o qualcosa strappasse loro la carne e l’anima. Invocavano aiuto nel loro antico dialetto, era gente del paese, diceva il carbonaio. Ne udiva le invocazioni: «Iudéine par la mordhe de Dio! Iú sui Jacon, sui Carle, sui Mafalda, sui Píare! Vegní a tone, no in podón pí. Fi di na messa!». Così raccontava il carbonaio. Mentre teneva il compagno per le caviglie, dal fondo abissale captava quelle voci. “Aiutateci per l’amor di Dio! Io sono Giacomo, io Carlo, sono Mafalda, sono Pietro. Venite a prenderci, non ne possiamo più. Fateci dire una messa!” Le anime di quei disgraziati invocavano aiuto, forse per avere pace. O forse volevano uscire dall’inferno che le aveva inghiottite per sempre. Con sforzi oltre i limiti per non finire dentro anche lui, stava riuscendo a tirare su l’amico quando la terra, come una mostruosa tagliola, scattò chiudendosi su se stessa strappandoglielo di mano. Fece appena in tempo a mollare la presa o sarebbe stato trascinato anche lui.
Così raccontava il carbonaio a un giovane Cercatore. Ogni volta concludeva dicendo: «No podíe fi nia, adès agn Toni le ladhó cal thigolèa». “Non potei fare nulla, adesso anche Antonio è laggiù che urla.” In effetti un carbonaio scomparve davvero in quel periodo e mai si seppe dove fosse finito. Poteva darsi che l’avesse spinto il socio nella foiba del Cornetto, come successe al povero Raggio. E poi, addentato dai cani del rimorso, si fosse aggrappato alla leggenda dei sentieri assassini per confessare e liberarsi la coscienza almeno in parte. Così alleggeriva un po’ di peso, se si può alleggerire una cosa simile. Il Cercatore ha sempre nutrito questo dubbio. Dubbio per non dire sospetto, alimentato da certe frasi del carbonaio. Spesso, infatti, il vecchio gli ripeteva un discorso che lo lasciava perplesso: «Prima di morire devo confessarti una roba». Così diceva. E continuava: «Se per caso dovessi morire all’improvviso, vai da mia nipote e ti dirà tutto». Morì all’improvviso, come temeva. Dopo molti anni, il Cercatore ricordò le parole del vecchio e andò da quella nipote per informazioni. La signora lo guardò con sospetto, farfugliò che non sapeva niente, che niente le aveva lasciato, solo debiti. Detto questo lo buttò fuori casa senza preamboli. L’atteggiamento della nipote non fece altro che alimentare il sospetto nel Cercatore: quella donna doveva davvero sapere qualcosa.
I sentieri assorbono passi, conservano transumanze d’uomini, si bevono l’anima di chi li ha percorsi. Bestie comprese, perché anche loro hanno l’anima. Tutto si impregna di memoria, altrimenti la terra non avrebbe senso e verrebbe dimenticata. Sul mare, le scie delle navi e delle barche e di tutti gli scafi che lo solcano catturano le storie dei naviganti, le offrono fino a sbronzare le onde di avventure, drammi, tragedie, ritorni. Le scie sono archivi millenari, come i sentieri, sanno tutto perché hanno visto tutto.
Sui sentieri e sul mondo, piove il canto del cielo, che risuona per le valli e le montagne, e arricchisce gli uomini che sanno ascoltare. Uomini che sanno ascoltare ce ne sono pochi. Tanti, invece, quelli che fanno baccano nei luoghi dove si dovrebbe andare in punta di piedi e silenzio. Di conseguenza, anche quei rari che sanno ascoltare devono subire il fracasso di coloro che portano sulle montagne ciò che fanno in città e tra le mura domestiche.
Il Cercatore ricorda in modo indelebile come ricevette la consegna del silenzio. L’arte di tacere gli fu insegnata dal padre in tre secondi: uno per ogni calcio nel sedere ricevuto. Era un bambino di nove anni, il giorno del silenzio consigliato. Si trovava a caccia col genitore sul picco della Bécola, chiamato così perché da lontano pare un becco d’aquila pronto a strappare brandelli di carne a chi passa sotto. Quel naso adunco proteso sul vuoto fa molta impressione e fa anche pensare a quanta gente ha mangiato prima di trasformarsi in montagna. La leggenda lo vuole cattivo nelle notti di plenilunio, quando il picco chiude la bocca di scatto e chi è dentro è dentro. Insomma, lui e il padre stavano là sotto quando comparve nel cielo un pallone gigantesco. Si stagliava nel blu come qualcosa di fuori luogo e fuori tempo e avanzava con arroganza come se volesse comandare il cielo. Era una mongolfiera di quelle che il bambino aveva visto qualche volta sui libri di scuola. Al suo apparire, si mise a gridare indicandola al padre. Di fronte, in una zona chiamata “le orecchie del gatto”, c’erano i camosci, non si poteva gridare. Suo padre lo sollevò a calci in culo e, mettendo l’indice sulle labbra, sibilò: «Che non succeda più». Alzando lo sguardo verso il pallone disse: «Impara da quell’affare lì. Vedi che cammina senza fare rumore? Bene, da oggi in poi fai come lui». Poi si chetò e seguì col binocolo il transito della mongolfiera. Vedeva l’equipaggio, disse che erano quattro. Quando fu poco oltre le loro teste si volse al piccolo e disse: «Gè sbaròne?», “Gli spariamo?”. Imbracciò il SuperExpress e lo puntò verso quella immensa vescica navigante. Il bambino disse: «Non sparargli, hai detto che sono quattro, se si sgonfia cade e muoiono». Il padre lo guardò con pietà. Disse: «Volevo sentire cosa rispondevi, speravo dicessi “sparagli” ma vedo che non hai coglioni. Tu non diventerai mai niente». Puntò di nuovo il fucile e lasciò partire un colpo. La mongolfiera non si scompose minimamente. E nemmeno si sgonfiò. Seguitò imperterrita il suo andare silenzioso, finché non sparì sul fondo di montagne lontanissime.
Quel giorno il ragazzino imparò che si deve volare tacendo. E imparò un’altra cosa. Durante il volo qualcuno tenterà di tarparti le ali. Se hai fortuna prosegui, altrimenti vieni giù. In ogni caso, prima o dopo si scende da ogni cielo, dal più alto al più basso. La mongolfiera non poteva stare lassù per sempre. Poteva risalire una volta scesa a terra, ma un giorno non si sarebbe alzata mai più.
Col tempo si scompare da tutto, anche dai sentieri. E anche loro spariranno. Non più battuti dai passi, calpestati dalle suole, affilati da voci chiassose, unti e bisunti dagli odori di città, si lasceranno andare all’oblio. Le erbacce cresceranno folte e tenaci, alberi nuovi metteranno radici, arbusti prenderanno piede, il pino mugo si spanderà a raggiera. Tutti assieme uniranno le forze per divorare i sentieri e farli sparire. A quel punto sarà tornato il bosco e regnerà sovrano sui sentieri scomparsi. Tutto sembrerà finito. Ma non è finito niente. Spesso sorge qualche maniaco, appicca un incendio e in pochi giorni di fuoco divorante nemmeno del bosco rimane traccia. Anche il fulmine può innescare incendi ma è più raro.
Il vero pericolo per la montagna, comunque, è l’uomo. Non si rende conto che distruggendo la natura distrugge se stesso. Soprattutto negli ultimi anni, dimostra giorno dopo giorno di aver smarrito il sentiero. E con lui il senso della ragione. I sentieri più belli e importanti non si percorrono a piedi ma con la ragione. Sono i più difficili da affrontare eppure sono a portata di mano e ben segnati. Se l’uomo non ritrova il sentiero della logica e della ragione, quelli della montagna spariranno presto. Morirà l’intera montagna. E i pascoli e i prati e le foreste e gli animali che stanno nel ventre delle foreste non ci saranno più. Non rimarrà nulla, se l’uomo non cerca il vero sentiero e lo percorre con umiltà e senso della misura.
Nell’esistenza degli uomini tutto è sentiero. C’è un punto di partenza, segue un tratto da fare e infine l’arrivo. Qualsiasi cosa combini un essere umano, non fa altro che percorrere un sentiero. Il suo. Se rimane fermo a letto dalla nascita alla morte, ha seguito un sentiero d’immobilità. Il destino si può chiamare sentiero, lì succede tutto. Nasce a ogni passo calato dalla vita e a ogni batter di ciglia può celarsi la sorpresa che balza fuori. Bella o brutta, la sorpresa è sempre in agguato.
Una volta, da ragazzo, il Cercatore si spezzò una gamba. Scivolò dalla scala sul fienile e la tibia fece crac. All’ospedale, col gesso fino al ginocchio, disse al padre che era stato il destino. E concluse: «Se non fossi salito lassù...». Il padre, uomo cinico e tagliente, disse alcune cose: «Se non salivi lassù era destino che non salissi lassù. E magari finivi sotto un camion. Allora diventava destino la tua fine sotto un camion. Se ti salvavi era destino che ti salvassi». Sul comodino stava un bicchiere d’acqua. Allungò la mano e disse al figlio: «Vedi? Se prendo questo bicchiere e lo bevo, era destino che lo bevessi. Se lo lascio dov’è, era destino che restasse dov’è. Ogni secondo che passa tiene dentro di sé il destino. Ma per chiamarlo così, bisogna aspettare ciò che succede in quel secondo. E poi nel minuto, nelle ore, nei giorni, nei mesi e negli anni». Detto questo afferrò il bicchiere d’acqua e lo tracannò. «Ecco» disse «adesso è diventato destino che lo bevessi. Ma ricordati, anche mentre aspetti ciò che succede, diventa destino che tu debba aspettare.» Se ne andò lasciandolo solo, ripetendo che tutto è destino, anche avere un figlio deficiente.
Tornò due giorni dopo a prenderlo con la moto e portarlo a casa. Percorsero uno squallido sentiero d’asfalto, trenta chilometri sotto la pioggia, senza dire una parola.
Da quei ricordi lontani è passato molto destino. Il Cercatore ha quasi finito la strada, un insieme di sentieri accosti, contorti e complicati, ardui da potare. Parecchi da dimenticare. Quelli che non dimentica li tiene sul cuore. Sono sentieri di montagna, la montagna degli incanti, delle scoperte, dei misteri. Dei segreti che lo formarono quando era bambino. La montagna della fatica, della miseria, del vivere essenziale, dove a Natale bastava un pezzo di torrone per saltare in cielo. Quei sentieri non ci sono più. L’erba di un certo benessere, anche se non proprio erbaccia, li ha coperti lo stesso facendoli sparire. Ma il Cercatore sa dove sono, li ricorda perfettamente, se chiude gli occhi li vede uno a uno. Ci fosse necessità saprebbe rifarli.
Ora gli rimangono solo i vecchi sentieri, che ancora lo portano a cercare segreti. Perché i segreti delle montagne non si esauriscono mai. Durano finché ci sono uomini che hanno voglia di cercarli. Li cercano con maggior dolcezza quando l’autunno esala il suo respiro. Quando giunge lieve ma pungente il freddo. E lo si avverte nelle narici, sulla pelle, nell’aria. Ad annunciarlo non sono i golfini poggiati alle spalle delle signore. E nemmeno le lagne della moltitudine riguardo temperature anomale e piogge. È qualcosa di più intimo e profondo, che avverte dentro chi si apre all’ascolto. Ma oggi non è così. Le montagne pagano tempi duri, periodi bui, spesso tutto è più offuscato. Anche i sentieri sono cupi. Marrone e grigio i colori che guidano il passo. Lugubri e immobili. L’autunno sta perdendo la luce. Sui sentieri rami spezzati, pigne frantumate, sassi sporchi di terra, robe che non parlano né osservano. Ma c’è vita in ogni anfratto, in ogni fremito della natura. E pace. E silenzio. La montagna è questa.