La montagna ha i cinque sensi, come gli esseri umani. Forse anche sei e magari qualcuno in più. Di preciso non si sa, ma potrebbe essere.
Che ha i sensi è facile accorgersene. Basta frequentarla e osservarla con attenzione. La montagna se ne sta lassù, immobile nell’eternità della pietra, solenne regina del tempo, seduta sul mondo da miliardi di anni. Circondata da boschi e pascoli, laghi e torrenti, attende che tutto finisca. Sembra morta invece è viva, si muove. Mangia, beve, ascolta, vede, tocca e sente odori. Percepisce. Quel che può accadere lo intuisce prima. La percezione è il suo sesto senso.
Ne ha molti ancora, che non vuol rivelare, ma ogni tanto si tradisce mandandoli fuori. Il legame con altri mondi è uno di questi sensi. La montagna avvicina mondi e misteri con i quali comunica. È l’antenna che capta voci remote, sussurri lontani. L’uomo no. In verità, alcuni esseri umani riescono a varcare i confini di quei regni arcani, ma solo per qualche attimo. Sono molto sensibili e rari, quegli uomini, e durano poco. Spesso usano male il dono, sprecandolo nel silenzio. Lo sapessero porre a buon fine potrebbero aiutare i loro simili. Invece aiutano se stessi a farsi male, corrodendosi di autodistruzione. La solitudine affina le menti e allo stesso tempo le consuma. Anche questo appartiene ai segreti delle montagne.
Il Cercatore ha quasi sempre avuto a che fare con irregolari: gente che se ne fregava della vita e della legge. Un tempo frequentava un bracconiere venti anni più grande di lui. Fu un maestro come lo furono altri disgraziati. Uomini di valore, umili e ignoti, difficili da dimenticare. Tipacci nel senso buono, che marchiarono la sua gioventù impostandola in un certo modo. Quell’uomo fu importante come pochi. Per insegnare usava metodi spicci, a volte poco ortodossi, ma di sicura efficacia. Questo “bracciante di caccia”, che interpretava la passione come un lavoro da quindici ore al giorno, riusciva a indovinare la direzione che prendevano animali e uccelli. Non sbagliava colpo. Era un essere imperscrutabile, uno che bazzicava confini dove la massa umana non accede. Visse come se non fosse presente, annegando la vita in notti solitarie di alcol e fantasmi.
Una volta si trovava col Cercatore, seduto su un colle chiamato “dei larici”. Era un gobbone pieno di larici. D’autunno s’incendiavano che parevano di fuoco. I due aspettavano un vecchio cedrone che li faceva dannare da giorni. A un certo punto, nel cielo, invece dell’urogallo si profilò la poiana. Teneva tra le grinfie una biscia. Forse era la vipera, chi può saperlo. Il rapace si stava allontanando. Il Cercatore afferrò il binocolo per cogliere la scena da vicino. Senza scomporsi il bracconiere disse: «Non agitarti, verrà di qua». Invece andava di là, verso quel cielo incendiato di larici. Dopo un lungo volo, improvvisamente virò. Puntò dritta verso i due che guardavano dal colle. Passò a pochi metri sulle loro teste. Il Cercatore vide a occhio la serpe torcersi lasciando l’ultima vita negli artigli della poiana. Il rapace lanciò un’occhiata storta verso il basso, come a chiedersi: «Chi sono quei due?». Poi se ne andò lontana fino a diventare un puntino all’orizzonte e sparire. Lo stakanovista del fucile aveva visto giusto. Prendeva i camosci aspettando. Scoperto il branco, individuava il maschio vecchio e diceva: «Vado lassù perché quello andrà lassù». E il camoscio andava lassù.
Un’altra volta, lui e il Cercatore erano a galli forcelli in una remota plaga a nord di un monte dal nome di pietra solida: Duranno. Avevano condotto a buon fine la battuta e intiepidivano le ossa al tenue sole di aprile su materassi di mughi. Laggiù, in un lembo lontano di valanga, apparve un puntino scuro che andava qua e là. Era un forcello. Sul bianco della neve ridotta a marmo, lo si vedeva nitido come talpa su un lenzuolo. Faceva avanti e indietro gonfio di piume aspettando qualche femmina. Il Cercatore provò a farlo salire imitando il soffio di un rivale. Niente. Non si spostava. Seguitava il suo va e vieni indifferente a ogni richiamo. Il bracconiere pregò l’allievo di non insistere: «Fermati, viene su lui, non chiamarlo più» disse.
Passò mezz’ora. Il vento portava in alto le paglie sparse nelle radure scongelate. Un sentore rancido di erbe morte veniva alla luce con lo sciogliersi delle valanghe. L’odore acre saliva a solleticare le narici. Uccelli bardati a festa cantavano alzando il volume. Ogni tanto un cuculo solitario faceva sentire la voce.
Era la primavera dei monti dimenticati, la magia irripetibile di quegli anni. Da tanto tempo il Cercatore non vede quella valle. Non ci è più andato. In nessuna stagione. Vi sono ricordi laggiù che pesano come piombo. Più di tutto gli manca quella primavera di gioventù che veniva avanti. E andava a conoscere le montagne ai piedi delle quali, in aprile e maggio, i forcelli sentivano l’amore. Questo succedeva laggiù, nella valle dimenticata, dove un giorno sulla lingua della slavina faceva la ruota un gallo con la coda a lira.
Cercatore e bracconiere continuavano a fissarlo col binocolo. Osservarono il suo tormento per un’ora. Improvvisamente l’uccello si fermò come avesse udito qualcosa più in alto. Dopo aver scrutato il cielo, prese a camminare a testa alta rimontando la lingua di neve fino ad arrivare presso i due. Lo avevano a pochi metri. Era venuto a piedi, come previsto dal bracconiere che leggeva il pensiero degli animali. E che non lesse invece quello della grande Signora il giorno fatale in cui si mosse verso di lui. Eppure avrebbe dovuto capirlo, la vita che conduceva nell’alcol era ad alto rischio. La morte lo colse a tradimento in casa, sulle scale che menavano al piano alto. Nessuno sa se le stava scendendo o salendo. Ma questo è un dettaglio senza importanza. Dormiva lassù, sotto il tetto, come una rondine nel nido, in una camera piena di bottiglie vuote. Lo trovarono rannicchiato dietro la porta. Più che rannicchiato, incassato come un cuneo nella fessura del tronco.
Che c’entra lo stakanovista bracconiere coi cinque sensi della montagna? C’entra. La montagna manifesta i suoi poteri a gente come lui, iniziati inconsapevoli, esseri speciali, uomini e donne, con un piede in altri mondi. La solitudine e il dolore, che accompagnano sovente questi disgraziati, fanno emergere in loro istinti sconosciuti. Poteri che li portano ad avvicinare e comprendere il regno animale, vegetale, sotterraneo e dell’aria. A costoro, la natura rivela segreti che i normali neppure osano pensare. Ecco perché costoro c’entrano coi sensi affinati della montagna.
C’era una vecchia che la sera del Vajont, quando il monte Toc scivolò nel lago provocando duemila morti, per tutto il giorno brontolò che era venuta l’ora.
«Preghiamo» diceva ai nipoti. «Questa notte viene giù il Toc.»
I ragazzini vivevano con quella vecchia fatta di corame e pazienza, assieme al nonno, marito di lei, e una povera sordomuta, sorella del nonno. Uno dei bimbi era il Cercatore, al tempo della tragedia aveva tredici anni. Quella notte un pezzo del Toc si staccò e fece tutti quei morti. La vecchia aveva sentito giusto. Come avevano sentito gli animali domestici, cani, vacche e capre, che nelle stalle strappavano le catene mugolando di terrore. Così andò quella notte nella casa dei vecchi ricordi.
Le montagne hanno forza e la regalano senza chiedere nulla. Così come la regalano il mare, i deserti e il cielo. Le montagne sono state create affinché gli uomini possano conoscere la propria anima e diventare migliori. Non fossero distratti da cose superflue, potrebbero riuscirci senza fatica. Ma preferiscono rimanere come sono e forse conviene loro così. Le montagne conservano i ricordi di chi le ha frequentate e amate come l’acqua conserva la memoria delle cose bagnate nel suo andare. I torrenti levigano sassi e sponde e creano sculture raspando i tronchi nelle anse e ogni tanto alzano la voce. Segnano la montagna con scriminature argentate come se la pettinassero. La pioggia conosce ogni foglia che tocca, quando le foglie vanno per terra, lei le dimentica. Perché a quel punto diventa neve e si posa sui rami a dialogare con l’inverno.
Questi segnali che fanno vivere e battere il cuore ai monti si percepiscono appena. In un’epoca confusa e indifferente alla natura, gli uomini non sanno più coglierli. Invece sono vivi. Forse vogliono riservarsi di farlo in tempi migliori, quando torneranno ad ascoltare la grande madre. Ma bisogna andare per ordine e parlare dei sensi della montagna. Cominciamo col tatto.
Il tatto
La montagna ha mani lunghe con dita affusolate che sfiorano, toccano, carezzano. A volte mollano schiaffi. Più raramente, ma accade, impugnano clave e tirano colpi che possono annientare. Sono tante le dita della montagna e molte cose tastano e afferrano, tirano a sé o lanciano lontano, muovono o tengono ferme.
Le cime degli alberi sono punte di affusolate dita. Abili esecutori, gli alberi suonano lo strumento dell’anima, dando vita a concerti di flauti, pianoforti, violini, trombe. Certe giornate di primavera si possono vedere gli alberi suonare il vento e, stando attenti, ascoltare le voci che ne traggono. E così, nelle altre stagioni, si possono udire le sinfonie del bosco che muove le mani sugli strumenti della natura. Le dita degli alberi annusano l’aria, si piegano, oscillano nell’intento di toccarsi, come amanti che si cercano prima di stringersi e darsi un bacio.
Quando il cielo è grigio e comincia a fare freddo e l’ultima foglia è caduta, l’autunno cede il passo all’inverno. In quel momento misteriose nebbie s’allargano basse a coprire la montagna. Allora le dita degli alberi scrivono storie su quei fogli bianchi, come un bambino disegna i vetri appannati mentre fuori cade la neve. Storie che si possono leggere stando fermi in piedi o seduti su un sasso, fissando intensamente la punta di un albero. L’indice della pianta si muove qua e là, traccia parole, frasi, scrive pagine su pagine. Mentre i fogli pieni se ne vanno per il cielo a disfarsi e far piovere racconti sulla terra, quelli bianchi corrono agli alberi a farsi riempire di nuovo. Così si accumulano resoconti d’inverni e primavere, romanzi d’estati e autunni. Anni volati via, dissolti nei silenzi assolati dei monti e nei geli siderali che tutto stringono e induriscono. Non resta che attendere. Aspettare i giorni che verranno fino a quando tutto finirà.
La voce della montagna è strana, spesso dura come quella degli uomini. A volte è soltanto un respiro silenzioso come i suoi inverni. In quei momenti la pace entra nel cuore degli esseri umani direttamente, senza ausilio d’orecchi. Allo stesso modo, il tatto della montagna non di rado è delicato, leggero come un fiocco di neve. Le sue mani si muovono senza far male, mentre proiettano sul terreno figure in movimento piene di grazia. La montagna fa il gioco delle ombre cinesi. Intorno agli alberi saltano e ballano animali inesistenti, personaggi senza corpo, figure eteree scaturite dalle dita mobili della foresta.
Una volta, d’estate, il Cercatore si trovava su un pascolo d’alta montagna. Non c’era filo di vento, né alito d’aria, né fiato per muovere una paglia. L’erba corta e rada pareva fil di ferro tanto era inchiodata nell’immobilità senza tempo. I soffioni stavano fermi come bocche di cristallo e le punte dei larici sembravano spilloni conficcati nel cielo terso, fisse in una rigidità innaturale. Era un pomeriggio assolato e strano, circondato di mistero. La montagna stava riposando, dormiva con le braccia sotto la testa e nessuno veniva a disturbarla. Finché non arrivò il corvo. Un corvo imperiale, col ritmico puff puff delle ali, mosse quell’aria di vetro e si adagiò sul dito indice del larice. La punta lo accolse con un inchino. Pareva lo stesse aspettando. Da lassù le loro sagome si proiettavano sulla corta erba assetata. Il corvo puliva le piume del petto stirandole per lungo col suo forte becco. Ma laggiù, sul prato senza vento, l’ombra dell’uccello pareva beccasse insetti. La sua testa si muoveva come quando i volatili trovano cibo. Era un gioco di ombre sul prato, fantasmi dell’aria che venivano in terra. Visione che di lì a poco diventò reale.
All’improvviso, il corvo notò qualcosa. I suoi occhi di mirtillo brillarono prima di lanciarsi a beccare cavallette. La magia terminò inaspettatamente con quel volo e quel pasto. Ma pochi istanti prima, le mani della montagna sfioravano l’erba e l’aria, che adesso s’erano fermate. Il dito verde del larice aveva ospitato il corvo, il sole ne aveva proiettato le ombre sul prato facendole vivere senza corpo. Laggiù giocava soltanto colore scuro del nulla. Il tatto della montagna aveva mandato una carezza.
Ma esistono tante mani che la montagna usa per tastare, sfiorare, stringere. Una di queste sono i fiori e le erbe dei prati. I quali di notte, quando nessuno li vede, s’inchinano verso il basso a toccare, annusare, sfregare il viso nell’umido della terra. Per rigenerarsi, darsi forza, prendere slancio. Occorre piegare la testa se si vuole rialzarla con speranza. Si deve andare indietro a prendere la rincorsa per spiccare il balzo.
La montagna col suo tatto grandioso, delicato o potente a seconda dei casi, insegna a comportarsi. Basterebbe osservare. Manda in giro le sue mani infinite a fare opere e azioni che, se gli uomini imitassero, sarebbe una fortuna. I rami della betulla insegnano a non essere testardi, cocciuti e indomabili, bensì a cedere per non venir frantumati. Quando la neve cade, bagnata e pesante, la betulla sente che le sue braccia stanno per spaccarsi. Allora le abbassa con umiltà, scarica la neve e le rialza al loro posto. Agisce al contrario del carpino, che se le lascia spezzare per l’orgoglio di non cedere.
Quando le erbe dei pascoli drizzano il collo, e bevono i temporali e il sole d’agosto, oscillano alla minima brezza. In quel momento si spostano a destra e a sinistra a sentire chi hanno vicino. Assaggiano cose, scambiano saluti, stringono mani. Il tatto della montagna si manifesta in vari modi, in questo caso allunga le sue dita a capire se tutto è a posto. Basta stendersi nell’erba con le mani sotto la nuca per sentire sul corpo la sua curiosità. Quasi invadente, la montagna manda il tatto a conoscere chi si adagia su di lei. Si viene sommersi di fiori, steli, bacche, petali che si piegano sull’intruso a carezzarlo e fargli il solletico. Può essere all’inizio una sensazione fastidiosa, ma chi resiste qualche minuto verrà gratificato.
C’è un tatto misterioso fatto d’aria che si manifesta assai poco. Consiste nel soffiare direttamente sulle persone. Sono tocchi inequivocabili, di conseguenza inquietanti, che lasciano a chi li riceve una certa paura. Di solito sono dita d’aria a palpare il prescelto, ma possono essere anche solide come mani aperte che premono. Queste esperienze sembrano più che altro segnali, come se la montagna volesse avvertire di alzare la guardia, stare attenti a qualcosa che ci potrebbe capitare.
Poco tempo fa, il Cercatore si trovò a passare la notte in un albergo speciale, dotato di ogni lusso. È un sasso ciclopico, alto come un palazzo, che da un lato sporge parecchi metri evitando alla pioggia di entrare. Si trova al centro di un praticello nella remota Valle dell’Inferno, un intaglio di boschi e rocce che, a dispetto del nome, è un paradiso in terra. Accanto al masso, trilla con voce di moccioso la fresca acqua di un ruscello. Sopra il blocco la superficie è piatta e vi cresce un tappeto di mughe dal verde intenso. Un tempo, sotto quel roccione si riparavano dai temporali pastori e boscaioli. D’estate vi dormivano. Tracce di loro sono ancora lì a rivelarne il passaggio. Segni scarabocchiati malamente sulla pietra con tizzoni spenti, qualche cuore trafitto, nomi di uomini che amarono donne. Tutte persone ormai scomparse, traslocate all’altro mondo le cui anime vagano lungo la Valle dell’Inferno coscienti di essere in paradiso.
Allora, quella notte, il Cercatore si coricò sotto il grande masso, e successe una cosa alquanto strana. D’improvviso cominciò a piovere come se il cielo fosse rovesciato di colpo sotto sopra. Poco prima c’era la moneta lucente della luna che guardava giù, e illuminava i boschi rendendoli fasci d’argento. Con gli scrosci arrivò un vento di braccia solide che piegava gli alberi quasi a spezzarli. Sopra il masso le mughe si torcevano fino a sporgere dal bordo come frange di capelli su di un viso. Il tutto sarà durato sì e no venti minuti, poi vento e pioggia se ne andarono lesti com’erano arrivati e la luna comparve di nuovo a illuminare i picchi. Una quiete assoluta calò sulla radura, e un silenzio senza tempo dondolava nella polvere dorata del cielo. Solo ogni tanto qua e là, il Cercatore udiva un gocciolio sommesso, proveniente dai rami nudi, spegnersi sul terreno bagnato. Novembre stava per finire, foglie sugli alberi non ce n’era più. Stavano per terra in attesa di tirarsi addosso la soffice coperta della neve.
Fu dentro quel silenzio e quella pace che l’uomo sotto il masso venne toccato per due volte dal tatto della montagna. Si trattò di segni brevi, ma forti e nitidi da spaventarlo. Dal sacco a pelo tirò fuori un braccio per tastare la temperatura. Non faceva freddo. Per questo la neve stava ancora lassù, nelle remote lontananze del cielo, pronta a calare sulla valle in qualsiasi momento. Ogni tanto un barbagianni cigolava stentoreo come avesse la voce arrugginita. Forse era stanco. Si trovava vicino ma pareva cantasse ai confini del mondo.
In quell’attimo il Cercatore sentì sulla spalla destra un soffio netto come uno schiaffo. Fu aria gelida a toccarlo. Pensò a un colpo di vento ma non poteva essere. Era troppo corto, soprattutto localizzato in un sol punto. Si mise in ascolto. Intanto rifletteva sullo strano tocco ricevuto. Era come se un essere invisibile si fosse avvicinato alla sua spalla e vi avesse soffiato sopra. Il Cercatore aspettò prima di convincersi che era solo un buffo di vento. Ebbe ragione attendere. Di lì a poco, infatti, il fenomeno si ripeté. Stava ancora col braccio fuori quando il soffio tornò ad abbattersi sulla spalla. Allora si rizzò in piedi spaventato, col sacco a pelo in fondo alle gambe come pantaloni calati. Non dormì più. Aspettò l’alba in attesa che tornasse la carezza gelida ma non tornò.
L’indomani, ancora frastornato, salì a una forcella lontana per scalare un picco ancora vergine. Quando fu a un metro dalla cima, con la mano destra strinse una presa per risolvere l’ultimo passaggio. Mentre tirava, l’appiglio si mosse insieme a un blocco grande quanto un forno a microonde. Il sasso ruotò appoggiandosi alla spalla del Cercatore. Rischiò di cadere. Ora si trovava messo male. Se lasciava andare la pietra, gli finiva sui piedi facendolo precipitare. In montagna il confine tra gioia e tragedia può apparire in un secondo. Con l’altra mano stringeva un appiglio solido, ma quanto poteva starci? Poco. Passavano i secondi, cominciava a stancarsi. Ancora una volta pensò di far cadere il blocco ma era troppo rischioso. Gli avrebbe spostato i piedi dagli appoggi e sarebbe volato giù. Sentiva il freddo del sasso sulla spalla nuda e quello della paura nell’anima. Ricordò il soffio della notte precedente. Era stato un segnale, qualcuno voleva avvertirlo: il pericolo sarebbe calato sulla spalla come un corvo maligno. Non sapeva che fare. Cominciò a tremare. L’unica soluzione era spingere verso l’alto e ricacciare il blocco nel suo nido. Non era facile. Premeva e sentiva le pedule perdere aderenza e scivolare. Per due volte provò, per due volte fallì. Mancavano pochi centimetri ma erano quelli necessari.
In un attimo la situazione si fece tragica. Non ne poteva più, urgeva decisione. Radunate le ultime forze e ciò che rimaneva di concentrazione, con uno stacco spinse verso l’alto la spalla, superò quei due centimetri fatali e il sasso con un croc si adagiò nella sede che lo cullava dalla creazione. Un ultimo balzo e si fiondò in vetta col cuore che batteva il tamburo della paura. Ci restò un bel po’ prima di calarsi in corda fino alla base. Seduto in punta, pensava al soffio ricevuto la sera prima. Mani d’aria gelida lo avevano toccato. Senza dubbio la montagna lo avvertiva. Valutò parecchio quel fatto.
Alla sera, sotto l’arco dell’albergo di pietra, rifletteva ancora su quanto era accaduto. Intanto sortì la luna dai monti. Arrivò da dietro il masso come in derapata. La radura diventò luce, il sasso un castello d’argento. Era una notte febbrile, agitata da ombre fruscianti. Di quelle notti dove l’inquietante morso di luna piena trasforma ciò che sta intorno in qualcosa di vivo e misterioso. Animali, alberi, sassi, ruscelli e rocce rivelavano segreti gli uni agli altri. Tutti vantavano le loro ragioni. Ragioni diverse, contrastanti, a volte astruse. In questo modo il Cercatore subiva l’impotenza di sentirsi a un millimetro da rivelazioni favolose e irripetibili, e la certezza che quel millimetro la montagna non lo avrebbe mai concesso. Intanto sparpagliava il suo tatto a cercare e mettere a fuoco le cose di quella notte senza tempo. La luce della luna frugava ogni piega, ogni anfratto, illuminava ogni vetta, come se una mano gigantesca strappasse il lenzuolo nero della notte, afferrasse il pennello e dipingesse tutto d’argento.
Il chiarore navigante del grande faro è uno degli strumenti che la montagna usa per manifestare il suo tatto. Qualcuno potrebbe obiettare che la cosa viene dal cielo non dalla montagna. Certo, tutto piomba da lassù, pioggia, vento, neve, luce. Ma poi quelle cose le prendono le montagne, i mari, i deserti, le pianure e le usano per esprimere i loro sensi. La mano liquida della pioggia è tatto di montagna, umido e fresco. Carezza boschi e volti e impregna la terra. E picchia sugli ombrelli. Quando vuole uscire d’inverno, mette abito nuovo, si trasforma in neve e tocca le cose coi suoi guanti bianchi e soffici.
L’aspetto più delicato del tatto sono le ombre. Più soffici della luce pallida che piove dalla luna. Verso sera, poco prima del tramonto, le ombre delle montagne si mettono in cammino come fantasmi vecchi e stanchi. Dove andranno? Probabilmente a trovare se stesse, come a farsi l’esame di coscienza. Le ombre della sera vagano lente a toccare l’ultimo pallore delle cime. Nel loro cammino a testa bassa, perlustrano ogni luogo, anfratti e costoni, paesi e valli senza dimenticare un millimetro di terra. Ogni cosa che toccano vibra e si liscia sotto la mano di velluto. Dopo un po’ le stesse cose diventano scure, come se il cielo tirasse addosso al mondo un lungo lenzuolo nero. Col calar del sole, le montagne diventano fantasmi. Ombre di se stesse che vanno raminghe per le valli. Il volto cerca il suo corpo per dare e ricevere segreti e rifugiarsi ancora nel mistero della creazione. Quando la lunga pennellata di buio giunge al termine delle vette, arriva la notte a versare inchiostro sui boschi addormentati e sugli uomini. A quel punto le montagne si ficcano sotto la coperta scura e prima di addormentarsi si mettono in ascolto. In quell’istante stanno usando l’udito. Ma lo usano anche di giorno, perché dormono poco. L’indomani le ritroviamo sedute nel salotto buono del mondo ad attendere avvenimenti. Con le unghie di pietra, tastano la volta del cielo, spesso la graffiano che si sente stridere come quando la cote affila la falce. E si divertono a disfare nuvole. Se le sprovvedute passano sopra di loro, le pigliano per la barba e le scuotono, le sfaldano e poi le sfilacciano come fili di fumo. Spesso le tengono imprigionate. Per questo le cime sono sempre coperte di nubi.
Qualche volta le montagne allungano il braccio e vanno a prendere per le orecchie i fulmini e se li tirano addosso per avere compagnia. Ma i fulmini sono ribelli furiosi, vengono giù di malavoglia. E scagliano pugni. Spesso chi sale una cima la trova col volto annerito e nota il solco bruciato dalla saetta. I sassi sono frantumati e per molti giorni permane nell’aria l’odore di zolfo della loro furia. Ma le montagne non hanno paura dei fulmini. Quei colpi roventi sono bazzecole, perciò seguitano a tirarli giù. Sono come quelle nonne che invitano a casa i nipotini sapendo che gli devasteranno il salotto. Ma poi tutto torna in ordine, salotto e cime, e di quei passaggi non si ricorderà più nulla fino all’incursione successiva. Poi i bimbi cresceranno, si faranno uomini e non sfasceranno più i salotti. Sfasceranno le montagne che non muoveranno più le dita perché i bambini cresciuti gli avranno tagliato braccia e gambe.
Ma questo è un altro discorso e c’entra poco col canto del mondo e i sensi della montagna.
L’udito
La montagna sente. Ha orecchie buone alle quali non sfugge nulla. Qualche volta sente così bene da mettersi a piangere. Un tempo rideva, oggi piange.
Quando l’aria trema nel sole, pare si volti con la testa per ascoltare meglio. O nascondere le lacrime. Se i boschi oscillano verso l’alto, premuti da venti a tramontana, in quel momento la montagna sta portando le mani alle orecchie per concentrarsi. Gli alberi sono braccia. Ma anche occhi, periscopi che scrutano il cielo e la terra. E orecchie che sentono i suoni, e nasi che fiutano l’aria.
La montagna è questo: un cuscino di muschio che può udire tutto, imprigionare voci d’uomini e canti d’uccelli. È una spugna che beve. E spesso si gonfia di rumori volgari, per questo piange. Viene frustata da suoni arroganti e maleducati e sente male. Non dappertutto. Solo là, dove la neve cade firmata, e funge da materia di scivolamento.
Ma esistono luoghi remoti circondati da montagne che odono ancora voci buone e umili. Voci di esseri umani che la rispettano e le vogliono bene. Sarà ancora per poco. Arriveranno presto gli uomini da scivolamento, da sfruttamento, macchine da soldi che sbriciolano ogni cosa che toccano. Allora, anche quelle vette piangeranno, si lasceranno alle spalle i suoni buoni per cedere alla malinconia.
Scriveva il poeta Esenin: «Piange la montagna la sua perduta innocenza, piange i suoi canti dispersi, i coscritti e le ragazze primitive... e le sagre e i dolciumi, e l’odore di fieno e di stalla».
Succede sempre più spesso che le montagne si sgretolino. Alcune crollano per intero o gli cadono le cime, come a un larice spezza la punta il vento. Vi è un logorio che le mina, le percuote, le estenua fino al cedimento. Questo dicono i sapienti, quelle schiere di tecnici che sanno cosa si muove nel cervello umano e nel cuore dei monti. Invece non è così, la ragione dei crolli è diversa. Sono il chiasso, la volgarità, la maleducazione degli uomini a tirarle giù. Quelle grida raccolte in comitive domenicali, acuminate, stridule, insistenti. Voci da imbonitori di sagre che trapanano, forano, fanno leva, scuotono. Le montagne sentono male, ricevono l’insulto dell’arroganza che le sfianca fino a farle crollare.
La montagna è fatta d’orecchi. Sono buchi, anfratti, forre, caverne degli spiriti, fenditure, spacchi e canaloni. E via così fino ai muscoli più sottili, tempestati di forellini che vanno dalla base alla vetta. Tutto quel vuoto trattiene i suoni, viene temprato da voci, riempito da urli e richiami. Se non sono formulati sottovoce, come preghiere, o visti nel pensiero, come desideri, i suoni si fanno dinamite. E non c’è speranza. Come l’acqua d’inverno gela in una brocca e la frantuma, così le cattive voci, le urla volgari, i clangori, le uscite maleducate raggelano la montagna, la spaccano. Lei prova dolore, delusione, stanchezza. Dove il suo cuore è più vulnerabile, cede e crolla. Si lascia andare al suolo e incontra i suoi piedi che tremano.
Celio, il vecchio amico del Cercatore, alcolista inveterato e filosofo senza studi col dono dell’intuizione, guardando tre operai gettare bitume in un ruscello disse: «Vedi? Dove arriva l’uomo, sporca l’acqua». Pronunciò quella frase oltre quarant’anni fa e mai parole furono così profetiche. Non si riferiva al fatto in sé, in quel caso l’insulto all’acqua limpida. Si riferiva in generale all’ignoranza, alla poca sensibilità e alla violenza degli uomini che dove mettono mani distruggono tutto. E non solo con le mani. Sono le parole, le voci dai suoni affilati, dalle punte avvelenate a fare i danni. Un vecchio proverbio recita: “Ne uccide più la lingua che la spada”. È così. Le montagne sentono il male del mondo, ogni tanto non ne possono più e si lasciano andare. Ecco perché crollano. Ma se odono tutto, ascoltano anche qualcosa di bello.
Una volta, quando era bambino, il Cercatore faceva il garzone di malga sui pascoli alti. C’erano rumori buoni a quel tempo. I campanacci delle bestie risuonavano nell’aria dell’estate, ogni tanto il temporale batteva il tamburo. Gli uccelli cantavano al mattino e quando il sole a piombo piegava l’erba i campanacci tacevano e tutto si adagiava nel silenzio. Qualche volta, altissimo nel cielo da essere invisibile, ronzava monotono un aeroplano. Quel suono rendeva il silenzio e la lontananza più remote del nulla, come se laggiù, sulla terra, tutto si fosse addormentato. O fosse morto incenerito dalle braci roventi del sole. La montagna sentiva quelle belle cose. La pace assoluta che metteva in ordine il creato le arrivava all’orecchio e lei sorrideva. In quei momenti diventava splendente, allegra, serena.
Quando le cose vanno bene la montagna lo dice, fa vedere che è contenta. Lo manifesta evitando di far paura a chi la guarda. Perché ogni volta che si guarda una montagna si prova un senso di inquietudine, per non dire sgomento. Di notte, quando infuriano i temporali e i lampi squarciano il buio e il tuono fa cantare i vetri alle finestre, si possono vedere le montagne tremare. Temono gli incendi innescati dai fulmini. Divampano improvvisi dopo il colpo, e possono distruggere interi boschi. Il fuoco incenerisce i vestiti con i quali le montagne si fanno belle bruciando le mani che vanno a tastare le cose. Ma c’è un altro pericolo che le minaccia, ed è una piaga più grave dei fulmini. Una piaga infetta difficile da seccare. Sono i piromani, gente sciagurata che se la gode a incendiare i boschi. La montagna sente i loro passi avvicinarsi, percepisce quel che sta per succedere e non può difendersi. A volte quei delinquenti mettono mano al fiammifero per cinico interesse. Un incendio infatti muove la macchina dello spegnimento, che coinvolge mezzi e uomini in gran numero. Da tutto ciò, qualcuno può trarne beneficio. Quando percepiscono le intenzioni dei piromani, le montagne cercano aiuto, invocano la pioggia, la neve. Invece arriva il vento a soffiare sul fuoco. Quasi sempre arriva il vento. Le disgrazie si portano dietro gli aiutanti. I piromani devono però sapere una cosa: le montagne hanno registrato tutto, i loro volti sono stati ripresi dalla grande telecamera del creato. Le loro brutte facce stanno ordinatamente accatastate nell’archivio. Prima o dopo verranno ripescati uno per volta e la pagheranno cara. La montagna non dimentica e ha tempo d’aspettare. Più che altro ha pazienza. Intanto lancia maledizioni.
Qualche anno fa, agiva indisturbato un piromane che seguitava a rovinare un’intera valle torturandola coi suoi roghi. In due anni ne appiccò nove. Questo si venne a sapere dopo, quando confessò. Fu merito della montagna se venne beccato con le mani nel cerino. Era un giorno di novembre, quando erbe e boschi, se accesi, ardono come benzina. Da una scarpata vicino alla statale, sotto una rampa di pini scuri, provenivano richiami d’aiuto. Nello stesso tempo si levavano fiamme e crepitii che salivano veloci verso i pini. Qualcuno corse verso il malcapitato, che rischiava essere arso vivo. Urlava e non poteva muoversi, aveva una gamba spezzata.
Così fu beccato il piromane. Gli trovarono addosso due bottigliette di CocaCola piene di benzina, della miccia e alcuni accendini. Tentò di disfarsene lanciandoli via ma i soccorritori se ne accorsero in tempo. Mentre faceva il suo sporco lavoro, un sasso rotolò dalla scarpata, lo prese in pieno e gli spaccò lo stinco. Intanto il fuoco era partito, nessuno lo fermava più. Nel frattempo arrivò la forestale che stazionava nei paraggi. Prima messo in salvo, poi messo alle strette, il piromane confessò. Non poteva fare altrimenti, era stato colto sul fatto. Però poteva tacere sugli altri otto incendi. Invece palesò anche quelli, forse per riscattarsi, pagare il conto agli uomini e alla natura. Quel tipo gestiva una piccola impresa di bonifiche boschive e, guarda caso, otteneva sempre le commesse del dopo incendio. Allora si indagò a fondo, era chiaro che la cosa partiva da più in alto. Ma tutto si arenò. Gli inquirenti non approdarono a nulla giacché il piromane si avvalse dell’omertà di non rispondere. Confessò unicamente le sue colpe e non pronunciò altra parola.
La montagna lo aveva sentito arrivare, lo conosceva. A un certo punto, stanca di dolore, si era vendicata punendolo a quel modo. E svergognandolo agli occhi dei paesani. Fu costretto a pagare una grossa cifra, niente in confronto ai danni che aveva fatto.
La montagna percepisce tutto. Con le sue orecchie di caverne e anfratti, fessure e forre, registra i suoni, li valuta e li ricorda. Nei vecchi paesi arrampicati sui monti, a ore precise suonano le campane della sera. Quando appare l’alba suonano ancora. Annunciano il giorno, le feste comandate, battesimi, matrimoni e funerali. Segnalano gli incendi. La montagna intorno conosce una per una quelle campane. Le ascolta da secoli, ne valuta il suono per capire cosa accade laggiù, dove sta aggrappato quel pugno di case. Sa chi muore e chi nasce, chi si sposa e chi annuncia una vittoria. Guarda la vita delle formiche che vivono ai loro piedi.
Ogni tanto dai borghi esce una di quelle anime. Si stacca dal paese come una scheggia sotto l’ascia del boscaiolo, parte dal ceppo e frulla in alto. Un’anima solitaria va a cercare la montagna, a toccarne la cima. A volte sono due, tre a salire. Spesso dalle città muovono gruppi interi di gente. Sono messi male, sbraitano nervosi, iracondi. La montagna sente i loro passi, li ascolta, capisce che intenzioni hanno. A volte non sono buone. È provato che l’anima degli uomini non sempre è disposta al bene. Così la montagna ascolta tutti i pensieri di chi le si avvicina. Pensieri interessanti, che spesso diventano progetti, che a loro volta diventano realtà. E la montagna paga le conseguenze.
Una volta, oltre cinquant’anni fa, uno di quei gruppi cittadini apparve d’improvviso in una valle solitaria dove il tempo s’era fermato. Non si può dire che fosse una valle dimenticata. Per dimenticare qualcuno occorre averlo conosciuto e frequentato. Quella valle nessuno la conosceva, perciò non poteva essere dimenticata: era ignota. Finché il gruppo non la scoprì. Vide montagne possenti con vette acuminate e acque che sbucavano come lucertole dai muri. Dalle cosce rocciose delle pareti cadevano ruscelli che andavano a rinforzare torrenti di cristallo. I quali muovevano mulini, segherie, magli e torni. C’erano boschi dappertutto. Lassù esisteva un oceano verticale di boschi. Da ogni lato si voltasse l’occhio, apparivano chiome verdi che calavano ai torrenti dove immergevano i piedi a rinfrescarli. Il gruppo guardò poco le montagne e niente i boschi, l’attenzione la rivolse all’acqua. Le montagne fiutarono guai, il gruppo di cittadini rappresentava pericolo. Lo percepirono immediatamente. Dopo qualche tempo, infatti, le orecchie di anfratti e caverne e gole e fessure, udirono rullio di perforatrici, rombo di mine, l’ansimare monotono dei camion. E un vociare ininterrotto di uomini indaffarati. La montagna veniva attaccata, esplosa, divelta, smembrata. Lei sentiva. Sentiva il corpo sbriciolarsi sotto i colpi della dinamite, vedeva i magri resti allontanarsi da sé su centinaia di camion stracolmi. Figli strappati alla madre, deportazione di corpo e anima. Sentì quei piedi antichi che da milioni di anni andavano a toccar i torrenti, bagnarsi sempre di più. Qualcosa di freddo li avvinghiava, imbeveva l’abito. L’acqua saliva a toccarle i polpacci, i ginocchi, i fianchi. A quel punto capì che stava per staccarsi, sarebbe rovinata in quel mare d’inchiostro che gli uomini avevano alzato di sotto. Allora cercò di gridare, farsi capire, tentò di fermarli. Ma non ci fu verso. Vedeva pezzi di lei staccarsi ogni giorno e franare in quel mare buio. Udiva gli uomini affermare che non sarebbe successo niente. Erano gli stessi del gruppo venuto in avanscoperta alcuni anni prima. Proprio loro. La montagna mandava segnali ma quelli non sentirono. Forse sentirono ma non ascoltarono. Eppure chiamava, gridava, tremava di paura. C’erano ogni giorno terremoti. Terremoti corti e intensi. Come una mula si scrolla il terriccio dal pelo, la montagna si scrollava pezzi di dosso. Udiva le voci preoccupate e poi angosciate di quelli laggiù, che abitavano in valle. Sentiva animali muggire, abbaiare, tirare le catene, starnazzare, belare. Avevano terrore di qualcosa, volevano fuggire da quel posto. I bracconieri tiravano fucilate per avvertire: c’è pericolo. La montagna parlava, cercava di far vedere quel pericolo segnato dai cacciatori. Ma nessuno ascoltò. E così una notte, dopo un ultimo scossone, si staccò dal cielo e sprofondò nel lago. L’acqua si rovesciò nella valle come svuotare un mastello e duemila persone morirono in pochi minuti. Così finirono le vite, l’abbaio dei cani e le fucilate. Così finì tutto.
Ormai sono passati molti anni. Cinquantadue per dirli assieme. La ferita della montagna, giallastra e putrida come una piaga infetta, è ancora là, a mostrare al mondo quel che gli uomini sanno fare. La montagna lo sapeva, aveva gridato al mondo, ma nessuno le dette retta. Dopo mezzo secolo, la natura paziente ha guarito le ferite della terra. Attorno alla piaga s’è creato un orlo come negli alberi sbrecciati. Sono tornati i boschi. Crescono compatti e fitti, uniti in un abbraccio inestricabile, come per nascondere il paesaggio lunare lasciato dalla rasoiata. Dove non ci sono alberi crescono felci. Fanno ondeggiare i capelli verdi dappertutto e il muschio, la più umile piantina del bosco, fa loro da cuscino affinché si presentino bene. Laggiù, nella valle rimarginata, aleggia sempre l’umidità della morte, per questo trionfano felci e muschi e i boschi sono scuri come i brutti ricordi.
Una persona muove passi sulla montagna e questa li sente vibrare nel cuore. Rimbombano dentro le caverne del sottosuolo come un ritmo di tamburo. Mai credere che lei non senta. Capisce se quel passo è lieto o triste, ma qui entriamo nella percezione, il sesto senso. Ode un albero cadere, minato dalla vecchiaia, e milioni li sente crescere. Sono i boschi figli della montagna, prole fortunata e disgraziata. E poi animali e insetti, uccelli, acque, uomini. Tutti sulla montagna. Un tempo lontano udiva il ritmico toc toc della scure, che i boscaioli facevano cantare dall’alba al tramonto. E il suono delle campane dei paesi le saliva dritto in faccia. Qualcuno è morto, è nato un bimbo, brucia una casa, arde un bosco, emigra un figlio. Così pensa la montagna quando sente le campane. Spesso è solo la messa ma le campane fanno din don e lei sente la festa.
Una volta negli anni giovanili, il Cercatore stava arrampicando una cima. La giornata era limpida, il sole appena caldo e niente vento. I colpi di vento deconcentrano gli scalatori come lampi accecanti. La scalata, facile e dritta, esigeva attenzione. Il mese di maggio rendeva allegro il Cercatore. Ma c’era un “ma”. A ogni passo che muoveva, la parete rimandava il suono come un rimbombo. Udiva il colpo sordo degli scarponi fiorire dal ventre della roccia come un eco sotterranea. Non era mai successo. Cos’era? Non lo sapeva, ma aveva una certezza: la montagna sentiva i suoi passi, i suoi rumori e rispondeva colpo su colpo ripetendoli uguali. Erano suoni fondi, soffocati, inquietanti. Provò a parlare a voce alta, a gridare frasi. Dopo un attimo, da sotto la pietra ritornavano le voci. Spuntavano come fiori dal prato. Erano brontolii confusi, mugugni lontani. La montagna dava retta, dialogava col Cercatore, rispondeva perciò sentiva. Voleva dire qualcosa? Forse. Ma cosa? Lo scoprì tempo dopo.
Finì la primavera, l’estate iniziò con le piogge. Diluviava giorno e notte. Lungo i pendii correvano ruscelli, dai costoni rotolavano acque lucenti, dalle cime saltavano cascate trascinando detriti e rumori. Pareva un autunno di alluvioni. Venne una notte strana, piena di scrosci e lampi. La montagna, che a maggio rendeva le voci, sotto la scorza era vuota. Per questo mandava rimbombi e suoni. La sua pelle, per un fenomeno misterioso, si era staccata dal corpo e sollevata di qualche spanna. Era diventata una cassa armonica, una tavola di risonanza alta quattrocento metri, larga altrettanto. Un immenso violino di roccia che a toccarlo mandava suoni. L’acqua delle piogge si infiltrò dentro la pietra scollandola. Così una notte, e per fortuna fu di notte, l’intera parete rovinò in basso con un urlo che solo la montagna che cade può emettere. E lassù, in quella valle, conoscevano l’urlo dall’ottobre del ’63.
Il Cercatore s’accorse del crollo al termine delle piogge, quando brillò il sereno. Il mondo farcito d’acqua fu asciugato dal sole di luglio e allora tornò alla roccia che parlava. Per salirla di nuovo. Ma non c’era più. Si trovava in fondo alla valle, scomposta e frantumata, raccolta in uno sterminato cimitero di blocchi, alcuni come palazzi. Prima di morire aveva ascoltato e poi risposto, per avvertire che stava cedendo. Le montagne sentono, soprattutto sanno ascoltare. Ogni tanto parlano, rispondono per avvertire. Ma bisogna intendere bene, avere orecchio, saperne captare la voce.
Molti inverni fa, forse venti, il Cercatore e un amico andarono a scalare una cascata di ghiaccio. La lingua gelata scendeva per duecento metri da una vetta arcigna. Quando furono accanto alla cascata, la montagna sentì che uno dei due era dubbioso. Era il Cercatore. Aveva paura. Quella mattina non voleva saperne di calzare ramponi e impugnare piccozze. La montagna gli stava comunicando qualcosa. Qualcosa di oscuro, indecifrabile, minaccioso. Per questo erano sorti dubbi. La cascata stava incollata alla roccia come una colata di muco. Un lungo sputo lucente all’apparenza solido. Invece la montagna sentiva battere il cuore fragile della cascata e lo comunicò al Cercatore. “Non avvicinarti” diceva, con la sua voce di silenzio. Dall’alto ogni tanto veniva un toc come un picchio che batte. Era l’unico suono in tutta la valle. Il Cercatore disse che non se la sentiva. Raccattò gli attrezzi e tornò sulla strada, suscitando il disappunto del compagno, che a malincuore lo seguì.
Non passarono dieci minuti e l’aria tuonò. Stavolta era una voce possente. La cascata stava crollando. Quell’enorme tibia di ghiaccio si fratturava in migliaia di pezzi sparpagliandosi alla base della parete come blocchi di zucchero. Era andata bene. Ancora una volta, l’udito della montagna aveva sentito l’impercettibile insicurezza della cascata e lo aveva comunicato. Il compagno del Cercatore era un ragazzo perbene, grande alpinista e ghiacciatore. Dopo aver rischiato la vita su pareti e cascate di ghiaccio, terminò il sentiero causa un incidente in moto. E non fu nemmeno colpa sua. Spesso il destino preserva indenni gli uomini da pratiche ad alto rischio per consegnarli alla morte là dove meno se l’aspettano.
Ogni tanto, quando passa in rassegna la sua vita, il Cercatore ricorda lo sfortunato amico. Si chiamava Maurizio. Si potrebbero riempire altre pagine con l’udito della montagna ma è tempo di far spazio agli altri sensi, altrimenti si potrebbero offendere.
Il gusto
La montagna apre la bocca, ingoia, mastica e digerisce. D’inverno manda avanti la lingua ad assaggiare i cibi. Le valanghe sono lingue. Corrono dalle creste a fondovalle spezzando alberi e rocce per sentire che gusto hanno e riferire. A volte raspano avide i pendii fino a snidare i prati e assaporarne le erbe congelate. Mettono tutto a frollare sotto il frigo di neve e a primavera, durante l’estate, e nel tempo che verrà, la montagna mangerà tutto. Un poco per volta, piano piano, senza fretta, gli assaggi vengono sbriciolati, ridotti a humus e inghiottiti dal terreno.
Lei ha una bocca grande. Anzi, infinite bocche. Non di rado mangia gli uomini. D’inverno, ad esempio, succede che uno scialpinista venga investito, trascinato e ucciso dalle valanghe. Anche più di uno. Quasi sempre si trovano morti. È molto difficile sopravvivere all’assaggio della valanga. Ma la montagna non può consumare il pasto fino in fondo. I corpi vengono estratti e consegnati alle famiglie per la sepoltura. Qualche volta, seppur di rado, non si trovano più, e allora lei lentamente li divora. Dopo averli inghiottiti li consuma adagio fino a digerirli nel suo immenso stomaco. A volte restituisce le ossa, dopo molti anni, come un rapace sputa il bolo, un batuffolo coi resti del cibo ingoiato.
Ci sono stati periodi nella storia del mondo in cui gli stessi uomini, con la loro stupida ferocia, hanno fornito cibo umano. Nella Prima guerra mondiale, e nella Seconda, le montagne hanno inghiottito milioni di soldati e il numero esatto dei mancanti all’appello è tuttora sconosciuto. Le montagne di quegli anni ingrassarono, banchettarono di uomini morti fino all’indigestione. Dove non bastarono pallottole e granate, fu il freddo ad abbatterli. E loro deglutivano.
Per due volte, il Cercatore, nel suo peregrinare sui monti, s’è imbattuto in resti di soldati caduti. Il primo lo trovò in un anfratto di roccia. Dall’elmetto e dagli oggetti sparsi dedusse che era un tedesco. Con ogni probabilità ucciso dai partigiani. C’erano solo ossa bianche e le sue cose. E brandelli della divisa. Ma questo è stato già detto. Un’altra volta fu nei luoghi dove la Prima guerra artigliò più feroce con la complicità del gelo, che su quei monti mordeva come un cane rabbioso. In un ghiaione nel gruppo del Cristallo, l’acqua delle brentane1 aveva smosso una quantità di materiale mai vista prima. A margine del mare di ghiaia vangata dalla piena, emergevano un teschio e ossa umane. Doveva essere un soldato visto che accanto spuntava l’acciaio arrugginito di un fucile. Però poteva darsi che fosse un bracconiere dei tempi antichi. Chissà. L’amico che accompagnava spesso il Cercatore, trovandosi più in alto, non s’accorse di nulla. E il Cercatore nulla riferì. Coprì i resti con pietre di un certo volume, in modo che le bestie della montagna non venissero di notte a prendere le ossa del morto. Reputò fosse meglio così. Lo sconosciuto avrebbe riposato ancora nella sua tomba naturale, al cospetto delle maestose vette dolomitiche. Il ghiaione se lo era mangiato chissà quanti anni prima, forse novanta, o di più. Ora restituiva le ossa come si fosse pentito di averle tenute nello stomaco tanto tempo.
A volte però, dove le quote estreme non permettono il respiro e l’ossigeno è scarso come la fortuna, la montagna anziché mangiare, digiuna e conserva. I corpi di sfortunati alpinisti vengono trovati intatti nel grande congelatore delle altezze. Il freddo siderale preserva i corpi e gli oggetti, anche i più delicati. Salva tutto fin nei minimi particolari.
Nel 1999, poco sotto la cima dell’Everest, fu rinvenuto il corpo dell’inglese Mallory che, assieme al compagno Irvine, aveva guidato la spedizione britannica nel 1924. Non tornarono più. Vomitato dalla montagna, l’alpinista era intatto. Salvo una gamba spezzata dalla quale usciva la tibia come un pugnale dal fodero, pareva fosse salito il giorno prima. Riposava da quasi ottant’anni in braccio alle nevi eterne, sotto il cielo vitreo degli ottomila metri. In tasca, accuratamente avvolte, teneva lettere della moglie perfettamente conservate, leggibili come appena scritte.
Sopra certe quote la montagna non ha fame, di conseguenza non mangia più. Però conserva. Il grande freddo uccide tutto e tiene da conto tutto. Lassù i raggi del sole sono così deboli che si staccano dal corpo della stella e cadono sui giganti di pietra piegati in due e già morti. Gli uomini che azzardano vette di ottomila diventano bocconi in attesa di essere ingeriti. E mai digeriti.
Le montagne, a volte, allestiscono frigoriferi ai loro piedi. Sono ghiacciai. Anche quelli conservano i corpi ingoiati chissà quando. Ogni tanto sputano qualcuno o qualcosa. Il più famoso rigurgito di ghiacciaio in epoca recente è la mummia del Similaun. L’acqua solida sbadigliò voltandosi sul fianco. Dalla bocca dell’eterno sonno rotolò un cacciatore vissuto cinquemila anni prima. Era intatto. La montagna lo aveva deglutito ma non assimilato. Rimasto imprigionato per cinquanta secoli, tornava a vedere lo stesso cielo sotto il quale aveva camminato.
A volte il ghiaccio rende all’umanità notizie antiche, serve sul piatto gelido ricordi struggenti, storie malinconiche perdute nel tempo. Storie di uomini divorati dalla bocca sempre aperta della montagna.
C’erano una volta due giovani che si amavano. Lui faceva la guida alpina, aveva venticinque anni. Lei ricamava e ne aveva ventidue. Si sposarono nel loro paesino aggrappato alle Alpi, dove volavano i gracchi e tuonavano i ghiacciai. Era estate. Rimasero insieme cinque giorni. Durante una scalata il giovane cadde e morì. Non venne mai trovato il corpo. Qualcuno ventilò se ne fosse andato via, fuggito dal paese e dalla moglie. Lei sapeva che non era così. Suo marito non l’avrebbe mai lasciata. Per niente e per nessuna. Da quel giorno, col tempo buono saliva ai piedi della vetta che s’era mangiata il suo uomo. A pregare e chiedere le venisse restituito. Mano a mano che invecchiava, saliva sempre meno.
Passarono sessant’anni. Una mattina di primavera la montagna restituì quello che aveva tolto. A ridosso del paese, il gelido sarcofago del ghiacciaio s’aprì e versò qualcosa sul terreno. Era il corpo di un giovane. Perfettamente conservato, addosso la divisa da scalatore, calzava pedule da roccia. Una vecchia, udita la notizia, volle andare a vedere. Aveva passato gli ottanta ma la memoria ricordava un volto. Lassù, poco sopra il villaggio, dopo sessant’anni rivide quel volto. Il suo uomo era rimasto intatto, fermo a ventotto primavere, senza vecchiaia addosso, senza rughe e senza luce negli occhi. Solo velato da un’ombra di sorpresa. Come non s’aspettasse lo spintone della morte che lo separò dalla parete e dalla donna che amava. La vecchia abbracciò il marito, tornato dai mondi gelidi del ghiaccio che lo avevano conservato giovane. Si mise a piangere. Col suo ragazzo tra le braccia, che sembrava un figlio, un po’ di gioia tornò alla sua vita. Mai avrebbe pensato di rivederlo. Soprattutto come allora, giovane, bello e forte.
La montagna è capace di questo: inghiottire uomini e dopo un tempo deciso da lei, ritornarli alla gente, ai parenti, agli amici, che li vedano ancora una volta. Ma succede di rado. Chi era presente quel giorno, accanto alla vecchia che stringeva il suo ragazzo, giura che per un attimo tornò giovane anche lei. Assieme, uniti in quell’abbraccio struggente, erano di nuovo gli stessi che la donna teneva sul petto, chiusi in un medaglione d’oro. Qualcuno afferma proprio questo. La storia era così bella, nella sua drammatica tristezza, che un regista ne cavò un film.
Ci sono altri modi con i quali la montagna esercita il suo gusto. Complici mutamenti climatici, incuria di boschi e pascoli abbandonati, ogni tanto, qua e là, si spalancano fauci che inghiottono. In questi casi non sono valanghe le lingue che assaggiano, bensì le piogge. La montagna manda l’acqua a nutrire la terra, farcirla, ammollarla per poi dare indicazioni: “Qui in questo punto è tenera, di sicuro commestibile”. Questo dice la pioggia alla Signora. Allora lei apre la bocca, una delle sue innumerevoli bocche, e gnam, fa un sol boccone di tutto ciò che trova. Si aprono tagli nei terreni ripidi che originano frane le quali divorano boschi, case, uomini e animali. Spesso le spaccature sono lì dalla creazione del mondo, fauci aperte in attesa della vittima che vi precipita.
In un passato non ancora remoto, furono uomini a riempire foibe e voragini di altri uomini, colpevoli soltanto di non avere le stesse idee. In quei casi la montagna fu costretta a mangiare per forza, la ingozzarono suo malgrado, come quelle oche costrette a ingerire cibo per ingrossare il fegato.
Una volta, molti anni fa, un gruppo di cacciatori batteva i boschi in cerca di selvaggina. Camosci. Con loro camminava un vecchio di ottant’anni ancora agile e capace di mira. A un certo punto sparì. Lo cercarono dappertutto, ma di lui non si trovò più traccia. E nemmeno si scoprì la spaccatura dove di sicuro era sprofondato. Per mesi e mesi seguitarono a battere la zona. Mano a mano che il tempo passava le speranze si affievolirono fino a esaurirsi del tutto. Non lo cercarono più. Ancor oggi di lui non si sa più nulla.
I ghiacciai, sbadigliando il sonno dei millenni, ogni tanto sputano qualcosa; le foibe, invece, non ridanno indietro nulla.
La montagna spesso ha fame ma non rivela dove ha inghiottito. Solo il caso lo fa sapere.
Esiste un luogo in una valle, un posto ben preciso, sconosciuto a tutti, dove scavando un poco a fondo vengono fuori muri. A volte sono emersi teschi. Ce n’era uno che aveva tutti i denti. Erano perfetti, ancora un po’ bianchi. Quel posto ha forma di scodella, con il bordo disuguale come un cratere. Si ha l’impressione che, chissà quando, il suolo sia sprofondato di colpo, trascinando con sé delle case, coprendole con un sudario di terra e morte. Sono apparse anche suppellettili, ciotole, mestoli di rame, asce. E dei grossi cucchiai. Uno d’argento. Il Cercatore l’ha visto coi suoi occhi. Glielo mostrò un vecchio morto nel 2010. Quell’uomo aveva raccolto anche il teschio dai denti perfetti. Un giorno lo portò a vedere quel posto in cui la radura aveva ceduto ingoiando le case che stavano sopra. Forse una ventina. Antiche dimore di boscaioli o carbonai, o entrambe le cose. Ma allora perché un cucchiaio d’argento? Boscaioli e carbonai erano gente povera, trascinavano i giorni nella miseria, di certo non avevano argento. Resterà un mistero. Uno dei tanti segreti della montagna. Anche perché il luogo deve rimanere ignoto al mondo. Il Cercatore lo ha promesso all’amico.
Poco prima che morisse, andò a trovarlo in ospedale. Gli rimanevano tre giorni e non lo sapeva. Sperava di guarire. Parlarono di tante cose, ricordarono le avventure fatte insieme. E le bevute. E un capodanno particolare, trascorso in una baita, a sbronzarsi senza dire una parola. Fuori nevicava, i boschi erano bianchi. C’era quel silenzio che piaceva a entrambi. Non serviva dire niente.
Prima di congedarsi il Cercatore lo abbracciò: «Scolta» bisbigliò il vecchio «non dire niente a nessuno di quel posto. Nemmeno a Cristo».
«Perché?»
«Perché verranno a fare casino, scaveranno, recinteranno la zona, decideranno tutto loro. Diranno chi può passare e chi non può passare.»
«Loro chi?» chiese il Cercatore.
«I sapienti» rispose. «Lascia che il posto resti com’è, lo conosciamo noi due. Promettimi.»
«Lo prometto.»
Il bracconiere disse: «Lì, la montagna ha aperto la bocca e ha mangiato le case e la gente. Lasciamoli in pace. Se vuoi scava tu, per trovare qualcosa, ma copri il buco, se lo vedono sospettano».
«Chi sospetta?» chiese il Cercatore.
«Quelli che passano» rispose il vecchio.
«Lì non passa nessuno.»
«Tu ci sei passato.»
«Sì, con te.»
«Anche tu potresti portare qualcuno.»
«Ti ho promesso di no.»
«Di te non mi fido» disse tre giorni prima di terminare il sentiero.
Ma il posto è rimasto segreto, nascosto a tutti, coi suoi teschi sprofondati e i cucchiai d’argento e i mestoli di rame e le ciotole. E soprattutto il suo mistero. Anche questa è la montagna.
Vi sono monti strani, con la faccia rivolta al cielo e la bocca sempre aperta. Si chiamano vulcani e ingoiano tutto ciò che cade dall’alto o vi rotola dentro. Ogni tanto fanno indigestione e allora sputano quello che hanno nella pancia, tra scoppi e fiamme, fumo e faville che s’alzano nell’aria per chilometri. Un vomito rosso sangue, melma bollente, corre per costoni e pendii, arroventando e incenerendo ogni vita. La montagna stavolta non manda avanti la lingua gelida delle valanghe. Per assaggiare il cibo, spinge una lingua incandescente e viva, che rende cenere gli alberi prima di toccarli.
Ma vi sono anche altre bocche lunghe chilometri, alte fino alle cime. Si chiamano valli. Sul fondo di queste fauci, avvolgenti come abbracci, vivono gli uomini. Sembrano formiche laggiù, impegnati a fare avanti e indietro con le automobili e mezzi di ogni tipo. Alcuni vanno a piedi. La montagna li protegge dall’alto, conforta i loro giorni con la sua bellezza. Le valli sembrano proprio bocche aperte. In alto si rizzano migliaia di denti rocciosi. Quelli più acuminati sono canini e incisivi, quelli smussati e piatti molari e premolari. Sul fondo s’allungano invece le lingue argentate di fiumi e torrenti. A questo punto si può dire che le montagne sono persone con gambe, braccia, cuore, polmoni e testa. E i cinque sensi, ai quali si aggiunge un sesto: la percezione. Ma bisogna tornare alle valli, queste bocche che si sciacquano con la pioggia, la neve è il loro dentifricio e si puliscono i denti di roccia con lo spazzolino del vento.
Una volta c’era una valle che non esiste più. Un lato si rovesciò sulla sponda opposta, chiudendo e stritolando chi stava in centro, come formiche dentro un libro. Successe molti secoli fa. Lo spostamento tellurico fermò il torrente con un colossale tappo di terra e roccia, e si creò un enorme lago.
Dopo la disgrazia, i montanari furono costretti a improvvisarsi marinai e naviganti estemporanei. Costruirono barche e zattere per muoversi su quel lago grandioso creato dal crollo. Tutto avvenne più di mille anni fa.
Su un colle c’era il castello di un uomo chiamato Marco e della moglie, Regina Claudia. Regina prese l’abitudine di traversare il lago, ancorare la barca in una grotta e raccogliersi a pensare. Piangeva e si domandava perché era finita in quel posto. Per l’approdo, aveva fatto infiggere un anello di ferro nella roccia.
I superstiti del libro chiuso si trovarono a fare una vita nuova sulle sponde di un lago che prima non c’era. Ma l’acqua non sta ferma, ha bisogno di correre, sfogarsi, andare oltre i limiti posti da chiunque. Così, un po’ alla volta, giorno dopo giorno, l’acqua di sfioro iniziò a rosicchiare la terra del monte rovesciato. Passavano gli anni uno dopo l’altro a formare un secolo e poi un altro e avanti il terzo. E così via. L’acqua di quel lago che fu torrente, seguitava a mangiare il suo boccone di terra giornaliero. Finché, dopo mille anni, forse di più e chissà quanti, riportò alla luce l’antico greto rimasto sotto la frana. Il torrente riprese a scorrere nell’alveo originale e, se non proprio tutte, molte cose tornarono come prima. Nel suo scavare, quando fu laggiù in fondo, fece emergere le antiche vestigia del villaggio sepolto.
Ancora una volta, la montagna aveva mangiato, digerito e sputato gli ossi del suo pasto. Ma non aveva colpa. Il destino della terra era anche il suo, quello di cadere, disfarsi, scivolare e sparire. Per gli esseri umani è lo stesso: bocconi amari, bocconi preconfezionati in attesa di essere inghiottiti dalla terra, ridotti in cenere e dimenticati. E così per ogni essere vivente.
Olfatto
La montagna sente gli odori. Ogni effluvio, buono o cattivo, viene annusato dai suoi enormi nasi. Ha narici di caverne e fenditure che non vengono occluse da raffreddori o influenze. Se fa lunghe inspirazioni si vedono le erbe tremare e piegarsi verso l’alto. Quando espira il fiato è come se spingesse il vento. Le erbe si piegano da un lato, così ogni montagna annusa i suoi prati. E poi annusa l’odore degli uomini che la frequentano. Sente quelli che s’avvicinano con rispetto e quelli che la massacrano, sfruttandola e strizzandola come una spugna. Di tutti ne percepisce l’odore e, a seconda di quello che emanano, storce il naso o aspira a pieni polmoni. Negli ultimi quarant’anni, sono più le volte che ha storto il naso che le altre.
Gli uomini dal cattivo odore e dal cattivo gusto l’hanno uccisa. Se non proprio uccisa, ridotta a un rottame, umiliata, banalizzata, resa baraccone da luna park. Lei non riesce a evitare la banalità degli assalti, ma porta pazienza e resiste. Solo ogni tanto, quando non ce la fa più, manda agli invasori segnali di stanchezza. Sono avvertimenti.
La montagna, prima che con le orecchie, sente col naso l’odore dei furbi che s’avvicinano a prender le misure. In gergo li chiamano sopralluoghi. Per nuovi impianti di sci, mega alberghi, strade, disboscamenti, furti d’acqua e sfruttamenti vari. Questi imprenditori a mano armata esalano effluvi di zolfo non appena maturano un’idea per strizzare la natura. Lezzo di bramosia. Eccoli allora recarsi sul posto a conoscere possibilità, pigliare accordi, verificare. E poi ingraziarsi chi di dovere per liberatorie, permessi e concessioni.
Di lì a poco la montagna sentirà gracidar le motoseghe che radono al suolo il bosco per far spazio alla nuova pista. Sentirà clangori di ruspe che tolgono, livellano, riempiono, correggono per tracciare la nuova pista. Sentirà rombare elicotteri che si danno cambio a portare il bitume per gettare i piloni del nuovo impianto. Alla fine, quando tutto sarà a posto, sentirà il vociare sconnesso, eccessivo e maleducato dei fruitori domenicali. E di quelli infrasettimanali. Su tutto, le musiche rock ad alto volume delle biglietterie che da mane a sera staccano skipass.
È giusto che la gente vada a sciare, divertirsi e fare sport. Ma gli impianti esistenti bastano e avanzano. Avanzano soprattutto in certe località a bassa quota, dove un tempo nevicava e oggi non s’avvicina nemmeno un fiocco portato dal vento. Quei serpenti abbandonati di ruggine e ferraglia avanzano nel senso che non si riesce a smantellarli tutti. Perciò ne avanzano parecchi e stanno lì a deturpare il paesaggio. Con i suoi innumerevoli fori nasali, la montagna sente l’olezzo acre della nafta combusta che muove ruspe, gatti delle nevi, battipiste, motoslitte e gruppi elettrogeni per dare corrente ai cannoni sparaneve.
Tutto questo e altro annusano le montagne, quegli enormi nasi che sporgono dal volto della terra. Bisognerebbe mandare loro un buon profumo come si fa con la donna amata. Ci sono boschi secchi da tempo per aver annusato aria velenosa che ha bruciato foglie e gemme. Sembrano cimiteri di mummie, le braccia alzate, nude e sterili come tizzoni spenti. Altri stanno morendo perché le radici succhiano veleni.
Ma vi sono anche odori cari alla montagna, effluvi sempre più rari che quando appaiono li aspira a pieni polmoni. Sono in via d’estinzione come fiori senz’acqua. Ad esempio, sui passi dolomitici, d’estate, si può ancora vedere qualche mandria di vacche al pascolo. Le malghe, col perenne fumo nel camino, lavorano il latte. I malgari, muniti di iPhone, offrono i prodotti ai turisti. Sembra di tornare ai tempi antichi, c’è un buon odore di letame sparso intorno ai pascoli e il suono dei campanacci. La montagna lo sente e apprezza. Ma c’è un “ma”. Accanto alle baite, lungo i tornanti, sfilano centinaia di motociclette rombanti e puzzolenti e auto che sollecitano la coda a colpi di clacson. L’odore di benzine combuste ammorba l’aria e la montagna, in questo caso, non apprezza. È un contrasto difficile da accettare. A un lato della strada, scene antiche di un giardino bucolico in via di estinzione. Tre metri più in là, sul lato opposto, il caos della città che va in alto su due e quattro ruote. Oltre al rumore fastidioso, fluttua nell’aria delle vette il pestifero tanfo degli scappamenti. Oggi la montagna annusa e respira monossido di carbonio. Lo si capisce dalla faccia anemica dell’erba lungo i bordi e vicino alle strade di quei passi dolomitici d’incomparabile bellezza.
Il Cercatore torna coi ricordi a cinquant’anni prima, quando scarpinava su uno di quei passi. Aveva quindici anni, ragazzino cresciuto tra stenti, miseria e botte. Una volta, durante le vacanze estive, il padre, irascibile e violento, per toglierselo dai piedi lo spedì lassù, a falciare i pascoli d’alta quota. Lo consegnò a cinque vecchi falciatori del paese, gente di buona fiasca e poche parole. Raccomandò loro di farlo lavorare. Venne a raccogliere lo sparuto gruppo di braccianti il padrone dei pascoli, che aveva sessanta mucche. Li caricò su un furgone e partì.
Il Cercatore vedeva quei posti la prima volta. Ne restò incantato. Stupefatto da tanta bellezza non aprì bocca per due giorni. Si guardava intorno e basta. Lassù era il paradiso terrestre. Montagne fin dove arrivava l’occhio. Vette rocciose alte e sottili con la punta come matite appena temperate. Lame di pietra rossa, affilate come coltelli tagliavano il cielo blu che scendeva a toccare pascoli di erba fitta e piena di fiori. E poi guglie, aghi, campanili, torri acuminate svettavano accanto a panettoni bonari dall’aria innocua. Era il regno dei monti pallidi, un paesaggio dalla bellezza mozzafiato, difficilmente descrivibile. Questi picchi di roccia, dalle svariate forme e dimensioni, s’innestavano come denti smisurati nelle verdi gengive dei pascoli che circondavano ogni cosa.
Più in basso, molto più in basso, i prati s’addolcivano diventando meno ripidi e più larghi. Erano divisi da una strada piena di tornanti dove in tutto il giorno passavano sì e no dieci auto. Laggiù pascolavano le vacche del padrone e il suono dei campanacci arrivava sotto le vette, dove tagliavano l’erba i falciatori venuti da lontano. Tra questi una recluta di quindici anni che annusò trasognata l’odore della montagna sconosciuta. Lei fiutò il suo e sentì che doveva proteggerlo. Il ragazzino mandava odore di abbandono e tristezza e un dolore mai espresso, nascosto in fondo al cuore come talpa nella terra.
La montagna annusa il male e il bene insiti nell’uomo. Inspira e sa se è vigliacco, cattivo, traditore o falso. Oppure buono, generoso, tollerante, caritatevole. L’essere umano manda avanti il suo odore come il pescatore lancia l’esca. Gli scappa via, esce dalla pelle e sale in alto. Lei lo sente arrivare molto prima di vedere il corpo arrancare. Così quel giorno lontano, lassù al passo di un santo che fu pellegrino in terra, la montagna decise di proteggere quel ragazzino disperato. Finora lo ha fatto. Gli ha tirato qualche pedata, ma solo per avvertirlo che aveva sbagliato e poteva lasciarci la pelle. Sul ripido non si scherza, bisogna stare attenti a ogni minuto che passa e di tutto quel tempo farne memoria.
Il Cercatore torna ogni tanto a quel passo che fu del pellegrino e suo rimane. Non può fare a meno di notare il cambiamento. La montagna è stata impoverita arricchendola di tutto. Lei storce il naso, subissata di rumori e avvelenata dai gas pestiferi di migliaia di auto e moto. I larici accanto alla strada e gli abeti sono incarboniti, tribolati e boccheggiano asfissiati. Invocano la motosega, non ne possono più.
Gli alberi sono una parte delle innumerevoli narici della montagna, forse le più importanti. È anche tramite loro se lei annusa, sente, valuta e condanna. Tutto è legato assieme, lassù, dove l’aria diventa fina. Di conseguenza tutto soffre assieme.
Da ogni parte lungo i pendii e fin sotto le vette, si snodano impianti di risalita di ogni dimensione e lunghezza. Sciovie, funivie, cabinovie, ovovie. Tutto quel che finisce in “vie” porta in alto le persone per vie traverse e senza fatica. E poi alberghi, bar, casette da souvenir, parcheggi. Non vi è più traccia del santo di cinquant’anni prima, quel pellegrino che vedeva dieci auto al giorno. Uguali ad allora, sono rimaste solo le vette e i prati, dove non corrono gli skilift. Prati coperti più da turisti vocianti e fazzoletti di carta, che da fiori. La montagna annusa, aspira e s’intossica di maleducazione e cattivo gusto. Vorrebbe vomitare tutto. Sversare a valle il cianuro degli uomini e rendere la paga a casinisti e sfruttatori. Ma non lo fa. Morirebbero in tanti, rimarrebbero in pochi.
C’era un alpinista-cacciatore che viveva in un piccolo paese incollato a monti aspri e remoti. Era un uomo molto timido. Diventò amico del Cercatore, assieme andavano a stanare selvaggina. Non per hobby, ma per mangiare. A quei tempi, ambedue vivevano in ristrettezze, la macelleria non era accessibile. Essere accettato da quell’uomo fu arduo. Metteva la corazza. Inoltre, il giovane lo canzonava, ironizzava su certe sue prese di posizione, fissazioni e manie. Ad esempio voleva cacciare, arrampicare, camminare o bere in osteria sempre da solo. Faceva tutto da solo, anche la legna per l’inverno. E sì che un paio di braccia in più nel bosco vanno bene. Eppure non accettava nessuno.
Quando il Cercatore gli chiese motivo di quell’atteggiamento da orso scorbutico, fu molto convincente: «C’è solo una cosa al mondo da fare in due. Solo quella, il resto da soli». Non servivano commenti, tutto chiaro. Ci mise due anni, il giovane, a farsi accettare. Dopo il tempo necessario, nel cuore dell’uomo si aprì una fessura e da quel momento cominciò a rampicare e cacciare col ragazzo. Il quale ebbe modo di ammirare la classe e l’istinto naturale che sfoggiava nel salire le pareti. Un talento fuori dal comune. Glielo fece notare.
«Ho imparato da solo, soli s’impara meglio» rispose. «Se cadi, nessuno ti ferma la corda. E quindi devi stare più attento.»
Era un fuoriclasse e, rarità per la sua specie, umile e schivo. Il Cercatore faceva domande. Era soprattutto curioso di una cosa. Ogni volta, prima di partire a caccia o scalare, il vecchio orso si lavava da capo a piedi e si profumava per bene. Il Cercatore non capiva. “Semmai ci si lava al rientro”, pensava. Chiedeva, ma l’altro stava zitto. Alla fine il giovane azzardò la domanda fatale a quell’uomo che domande non ne voleva. E per farlo capire a tutti, che non accettava domande, usava un motto con tempismo assoluto. Era questo: «Al terzo perché io me ne vado». Intendeva che se qualcuno gli chiedeva per tre volte il perché di una cosa, era sufficiente a farlo allontanare di corsa. Putacaso che stesse bevendo un bicchiere di vino, nemmeno lo finiva tanto lo infastidivano i “perché”.
Ma quella volta il Cercatore la domanda gliela doveva fare. La curiosità lo sovrastava, non poteva più tenersi. Aspettò il momento giusto, quando l’amico era di buonumore. Lo prese a bruciapelo e senza riuscire a evitare il “perché” gli disse: «Senti un po’, mi spieghi perché ogni volta che vai in montagna ti lavi e ti profumi?». L’uomo lo guardò di traverso e rispose: «Sarebbero affari miei, ma per te faccio uno strappo. Mi lavo e mi profumo perché la montagna ha naso fino, sente l’odore di uno che non si lava. E non è una bella cosa. È come presentarsi alla fidanzata dopo un mese di lavoro in bosco. Non va bene. La montagna è la mia fidanzata, io le porto rispetto e quando l’avvicino ha da sentirmi buon odore. Inoltre, se dovessi crepare, coloro che vengono a raccogliermi devono trovarmi pulito».
Quell’uomo solitario e laconico affermava che le montagne possiedono l’olfatto, sentono gli odori, annusano l’aria. Perciò capiscono se un uomo è sporco o pulito. Dopo tale spiegazione, il Cercatore si fece pensieroso. Lui l’acqua la teneva distante. Qualche volta vi si avvicinava ma senza entusiasmo. Se quel che aveva detto il taciturno corrispondeva al vero, era bene non avvicinasse più una cima. E forse nemmeno una donna. Commentando la faccenda, confessò all’amico di non amare molto l’acqua. Il taciturno gli rivelò un dettaglio che lo fece sperare. Disse che ci sono uomini puliti fuori ma sporchi dentro. Quelli, la montagna li sente prima degli altri. «Quindi» concluse, «anche se ti lavi poco, cerca di restare pulito dentro, e lei ti farà passare.»
C’era una volta un tipo che faceva saltare quinte di roccia con la dinamite. Apriva spazi per piste di sci e impianti di risalita. Lo chiamavano Gelatina. Quando si avvicinava, la roccia sentiva l’odore della cheddite, l’esplosivo delle cave. Annusava e tremava. Sapeva che, in qualche parte del corpo, Gelatina le avrebbe strappato un brandello di carne. Finché commise un errore. E saltò per aria lui. Dissero che la montagna si vendicò. Invece voleva salvarlo. Non sapevano che la miccia si era spenta tre volte. La montagna vi buttava sopra l’acqua degli scoli. Gelatina riaccendeva e la miccia si spegneva. Era difettosa, bruciava con anticipo il tempo di durata. Alla quarta accensione guizzò al detonatore mentre il Gelatina stava ancora lì. E saltò. Per anni la montagna sentì l’acre odore di zolfo dei suoi fianchi sbriciolati dal Gelatina. Ma non si vendicò, anche se dicevano così.
D’estate, quando tutto è fiorito e i pascoli sono un tripudio di fiori colorati e le erbe si sfregano le une alle altre sotto la spinta del vento, le montagne mettono la testa sul petto come fare l’inchino. Forse è solo una leggenda ma si dice questo. Che di notte le vette piegano il naso verso il basso per annusare i profumi. E la mattina, sazie di effluvi, tornano al loro posto, dritte e impassibili e nessuno se ne accorge. Lo fanno in ogni stagione. Annusano anche la neve. Sentono l’odore bianco dell’inverno e l’attrito dei fiocchi che scendono e fanno quel crepitio di faville morte nel silenzio delle notti invernali. Annusano l’impercettibile profumo delle gemme che scoppiano a primavera e s’aprono crepitando anche loro. In quel momento l’aria s’arricchisce di vita e speranza. Chi va sulle vette in quel periodo, sente fiorirgli in petto l’entusiasmo e la voglia di cantare e non sa perché. Quando nell’aria circola l’odore rossigno dell’autunno, le montagne annusano foglie arricciarsi su se stesse. Le foglie incrociano le braccia. Si chiudono con un fruscio leggero che manda odore di umido e cose stanche. Molti di quei bozzoli diventano rifugio per insetti e bruchi, prima che la neve seppellisca tutto sotto la coperta bianca. Quando la pioggia sferza i boschi e le montagne gemono sotto le spallate del vento, la terra sa di tabacco fradicio, ceppi marci e muschi in disfacimento. È il buon profumo dell’humus che la feconda e l’arricchisce. È l’odore della vita che verrà. Concimata e nutrita da alberi che crollano sfiniti, dalle foglie di vecchi autunni dimenticati. Dalle carcasse putride di animali che vanno a morire senza un lamento. E, un tempo ormai lontano, dal paziente lavoro degli uomini. Tutto questo la montagna inspira e traduce in immagini, espirando la sua bellezza come un fresco vento che accarezza il mondo.
La vista
La montagna ha occhi che vedono lontano. E scrutano dappertutto. Vede bene perché è alta.
La vita viene dal cielo, si posa su di lei e scende via via a dare origine al mirabile giardino della natura. Da lassù il suo sguardo gira in cerchio a spiare la vita. Nel mondo ne ha viste di cose. Gioisce o piange alla stregua degli esseri umani, che ai loro piedi si muovono come formiche ubriache. Si potrebbe dire che gli occhi della montagna sono quelli di animali, uccelli o degli insetti che ricamano le cortecce dei tronchi.
La montagna ha però altri occhi. Occhi che osservano da rocce e caverne, costoni e cenge e dalle punte dei colossali alberi patriarchi. E infine l’ultimo più alto: l’occhio acuto sopra tutti, la pupilla vicina al cielo, quella della vetta.
A volte la montagna è percorsa, nei versanti più ripidi, da uomini armati di corde e chiodi. Figurine insignificanti, quasi indistinte, che vogliono e tentano di arrivare in cima. Sono alpinisti. In molti riescono a salire e si fermano soltanto quando il passo calpesta l’aria. La montagna guarda, soppesa, giudica. Li vede, li segue mentre arrancano su per la sua pelle rugosa. Sa benissimo chi sono, con chi ha a che fare. Conosce come pochi il comportamento umano, capisce se sono persone oneste o meno, se tra di loro c’è la guerra o la pace. E sempre rimane delusa. Se non è guerra, c’è invidia, rivalità, tornaconto, e bugia. Pensa: “Come fanno gli uomini a dire che io sono scuola di vita? Che frequentandomi diventano migliori? Non li vedo affatto migliorati. Dai tempi che il primo di quei rissosi cominciò a salirmi addosso, se sono cambiati è verso il peggio. Seguitano a fare guerre, ammazzarsi, rubare, tradire, imbrogliare. E altre brutte faccende”. Questo pensa la montagna, mentre osserva gli uomini dall’alto. Sa che esistono brave persone, ma così rare che fatica a ricordarle. Qualcuna è passata sotto i suoi fianchi e proprio perché in gamba, ha lasciato un segno lieve. Tutto ciò appartiene alla percezione, il sesto senso della montagna, qui invece si deve parlare della vista.
La montagna ha visto tante volte uomini che volevano scalarla staccarsi dalla roccia e sfracellarsi ai suoi piedi. E ne vedrà ancora. Vede nelle case l’angoscia dei familiari consumati dall’attesa. E poi la disperazione quando vengono avvertiti della disgrazia. Osserva le operazioni dei volontari per recuperare i morti. A volte tira un sospiro di sollievo quando qualcuno di quei disgraziati viene raccolto ancora in vita. Nota il passo dei principianti, i movimenti degli sbadati, l’azzardo degli incauti. Quante volte vede gente marciare sui sentieri che percorrono il suo immenso corpo. Camminano tranquilli senza preoccuparsi di cosa sta sospeso sulle loro teste. Vede il sasso in bilico che potrebbe cadere mosso dal corvo, dal gracchio o dal camoscio in fuga. Gli incauti camminatori, invece di marciare rasente la parete per avere un qualche riparo, viaggiano ignari esposti a ogni destino. Tale comportamento nasce da pensiero sbagliato. Sono convinti che quel sentiero è stato tracciato da qualcuno che la sapeva lunga. Perciò su quel sentiero non deve succedere niente. Forti di tale convinzione, vanno in montagna senza riflettere né ragionare sui pericoli che possono balzare improvvisi. Di solito tutto finisce bene, ma qualche volta non va così. Di gran lunga, gioca la sfortuna e quando decide, il prescelto non ha scampo.
Alcuni anni fa, un camminatore solitario stava percorrendo l’Alta via dei silenzi. È un percorso di grandiosa, selvaggia bellezza che a farlo tutto ci vogliono quindici giorni. Si snoda attorno alle remote Dolomiti d’oltre Piave, dove la neve non cade firmata. Prende il nome dall’assoluta assenza di clangori e punti d’appoggio. Questo camminatore indefesso era quasi riuscito a terminare la fatica. Poteva passare un secondo prima o uno dopo sotto quella parete rocciosa. Poteva indossare un casco. Poteva restare a casa. O in qualche rifugio a mangiare e bere. Poteva anche non essere nato. Invece era nato, aveva quarantadue anni e quel giorno era lì, a quell’ora, a quel minuto. E a quel secondo fatale. Un sasso si staccò dalla parete e gli piombò in testa uccidendolo sul colpo. Come successe al ciclista solitario.
La montagna vide tutto e non poté fare niente. Bastava un passo in più, uno in meno, una brevissima sosta e quel sasso lo avrebbe schivato. Oppure, fu proprio in virtù di quei passi o quella sosta che andò a beccarselo in testa? Nessuno lo saprà mai.
Lo sguardo più bello e intenso della montagna, forse il più inquietante, è quello ravvicinato. Quello che sente addosso l’alpinista su ogni centimetro di roccia guadagnato in salita. In quei momenti gli occhi della Signora scavano l’anima, la mettono a nudo. Mano a mano che il rocciatore s’avvicina alla vetta, sorridono bonari e contenti come quelli di un cielo sereno.
La prima volta che il Cercatore vide gli occhi della montagna scoprì che erano i suoi. Occhi curiosi, inquieti, spaventati. Spesso tristi. Gli occhi dei bambini a volte sono tristi. Molti crescono tra paure e violenze, nell’indifferenza degli adulti. Per salvarsi fanno quello che possono. Il Cercatore, per salvarsi, s’arrampicò sulla montagna. Lassù nessuno lo toccava. Lassù scoprì altri occhi. Occhi di velluto nero quando durante una scalata capì che si staccava dalla roccia e volava giù. Fu un salto lungo, venti e passa metri di terrore bloccati dalla corda che il compagno teneva salda. Questo non attenuò lo sgomento per aver incrociato un attimo lo sguardo peggiore della montagna. Quello che ti saluta l’ultima volta. Negli anni successe ancora. Andò sempre bene, qualche frattura, niente di più. Al momento di cadere, gli occhi della montagna erano angosciati come se ad avere paura fosse lei. Quando andò bene e il Cercatore schivò l’orrore di precipitare, gli occhi della roccia lampeggiavano a intermittenza. Dopo lo scampato pericolo, terrore e gioia, gioia e terrore bloccavano ogni movimento. Persino il respiro. Per qualche attimo era così. Tutto fermo. Poco dopo, si palesava l’immensa gioia di aver schivato la morte.
La montagna vede quando uno muore, anche se chiude le porte del mondo in ospedale o tra le mura di casa. Ha occhi che arrivano lontano, penetrano pareti e solai, entrano dai tetti, da porte e finestre chiuse, assistono in silenzio chi esala l’ultimo respiro. La montagna vede quando uno muore arrampicando, camminando o sciando in neve fresca con l’entusiasmo di lasciare una bella traccia, l’elegante serpentina del fuori pista.
Lo sci-alpinismo è scendere su neve vergine, incidendo su di essa un solco di personale invenzione. Un po’ come la vita, si lascia una traccia sul nostro foglio bianco senza possibilità di averne uno di ricambio. L’obiettivo perciò è fare una bella traccia. Più che un obiettivo dovrebbe essere un dovere. È difficile, quasi mai capita di lasciare una bella traccia sulla neve delle nostre esistenze. Chi vi riesce è bravo e lo fanno santo. Ma anche le belle tracce, come le brutte, verranno coperte da altre nevi e dimenticate. Nel frattempo ne appariranno ancora, tutte nuove perché gli inverni si susseguono e sono lunghi. Poi verranno le primavere a regolare i conti e sciogliere ogni segno di passaggio. Il tempo fa lo stesso: cancella le vite con la sua gomma inesorabile e un po’ alla volta le fa dimenticare.
Tutto questo la montagna vede e ha buona memoria. Ricorda quelli che l’hanno frequentata da quando il primo essere umano osò calcare una cima. Ricorda i morti, le tragedie, le vite perdute lungo i suoi fianchi. Alcuni alpinisti vissero giorni d’inferno appesi alla parete, altri tennero duro col compagno morto lì accanto. Lei vedeva, seguiva il dramma, cercava dar loro conforto, li stimolava a resistere. Ma spesso il cielo entrava a guastare la festa, mandava inesorabile neve, pioggia, freddo e vento. E la montagna non poteva farci niente. Di solito il cielo le dà retta, ma non sempre.
Tra coloro che si sono salvati, nemmeno uno serba cattivi ricordi o sentimenti di rancore. Se ha potuto è tornato da lei. Con maggior attenzione e più umiltà. Ma la montagna vede anche altre cose. Vede gente che la offende, la sporca, lascia cartacce, barattoli, immondizie di ogni tipo. Vede la sorella povera, abbandonata, trascurata dai politici perché non porta che un miserabile pugno di voti insignificanti alle carriere. Vede la sorella ricca, dove la neve cade firmata e un caffè corretto costa come acquistarne un chilo. Vede e sa di non avere colpa. Sono stati gli uomini a ridurla così. Individui senza scrupoli né principi, il cui unico obiettivo è fare soldi, accumulare capitali, potere, barche, ville e automobili di lusso. Tutto questo a scapito della montagna. La quale si indigna quando legge sui giornali che i politici al potere fanno di tutto per proteggerla e in realtà fanno il contrario. Ride amara, leggendo di una certa Unesco che in alcune zone l’ha eletta patrimonio dell’umanità e permette che le si rubi l’acqua per centraline private, le si rubi la ghiaia dei torrenti, pepite di oro bianco, a migliaia di metri cubi. Ride amara quando legge articoli di maldestri giornalisti i quali, quando succede una disgrazia in quota, definiscono la montagna “assassina”. La montagna non è assassina, se ne sta lì a guardare e subire. È lei casomai che viene uccisa e ingoiata pezzo per pezzo dall’ingordigia degli uomini, dalla loro ignoranza e mancanza di rispetto. Vede chi le si avvicina con intenzioni bellicose e sguaiate. O chi l’accosta col passo mite e leggero del silenzio. Vede ai suoi piedi gli uomini che s’apprestano a salire sulla sua testa, legge le loro ambizioni, le vanità, i momenti di vigliaccheria. Non basterebbe la carta del mondo per scriverci tutto quello che lei ha visto. Qui possiamo soltanto raccontare qualche fatto.
Una volta fu testimone di una sfida epica tra rocciatori del secolo passato. Uomini di un certo valore morale mossi ciononostante dall’orgoglio di esser primi. Di sfide la montagna ne ha viste tante, milioni di sfide lungo le sue pareti. Molte portate a termine con mezzi subdoli visto che gli uomini non sempre sono leali. E nei confronti della montagna e tra di loro.
Era il 1902. Un settembre anemico andava verso la fine, il sole ancora scaldava. Due alpinisti di una città sul mare, stavano tentando la conquista della guglia più bella del mondo. È un campanile di roccia compatta, alto 300 metri, aguzzo e sottile come una matita, strapiombante da ogni lato. Fu così impressionante la visione che i due avventurosi lo definirono “l’urlo pietrificato di un dannato”. Erano quasi arrivati in punta quando una sporgenza, per quei tempi insuperabile, li bloccò. Il campanile osservava in silenzio. Imperturbabile e sornione, curiosava, aspettava di vedere come sarebbe finita. Finì che i due rinunciarono, calandosi a malincuore alla base.
«Ma torneremo» dissero.
Sul versante opposto della valle, appollaiati a un costone di mughi, due rocciatori austriaci, armati di binocolo, spiavano le mosse dei rivali italiani. Dall’aereo pulpito, capirono che attraversando a sinistra, si poteva aggirare la sporgenza e trovare terreno facile. Dal punto raggiunto, i due italiani non potevano immaginare che pochi metri più in là s’apriva la soluzione. Bastava sporgessero un pochino il naso. Alla peggio potevano intuire. Invece non intuirono e quella scarsa attenzione si rivelò fatale.
La sera stessa, tutti e quattro s’incontrarono per caso nell’unica osteria del paese. Gli austriaci fecero bere i due italiani i quali, candidamente, rivelarono metro dopo metro il tratto percorso sulla guglia. Poteva bastare. Si salutarono. Il giorno dopo, mentre gli sconfitti tornavano a casa, gli austriaci, senza indugi, mossero all’attacco. Prima di sera avevano conquistato la vetta. Era il 17 settembre 1902. La guglia più ambita in quel momento dagli alpinisti europei era stata salita la prima volta. Uno dei due italiani, per il grande dispiacere e delusione della sconfitta, cadde nello sconforto, si ammalò e morì.
Questa la storia scritta dai protagonisti. Quella vista dalla montagna si può immaginare. Aveva osservato gli italiani provare e riprovare più volte. Avevano tentato anche il mese prima. Avrebbe voluto avvertirli di guardare più in là, sporgersi dalla gobba e spiare il traverso. Così ce l’avrebbero fatta a passare alla storia. Ma lei non parla. Vede e non apre bocca. La montagna non avverte né dà consigli. Se ne sta lì impassibile, assiste all’affannarsi degli uomini.
Ogni tanto si alzano le nebbie, bianche tende tirate a nasconderla. Ma lei vede lo stesso. Nota le masse di turisti che al sabato sera preparano zaini e panini per l’invasione domenicale. Quelli che arrivano a calpestarla dappertutto, senza alcun rispetto. Giunti a meta, s’adagiano in ogni dove, esibendo tovaglie da pic-nic e nascondendo immondizie tra i cespugli. A questo punto la montagna si diverte a fare qualche scherzo di buon gusto. Si mette d’accordo col cielo il quale, zelante fino al cinismo, muove gli elementi e fa piovere tutte le domeniche. E lunedì fa splendere di nuovo il sole. I turisti della cagnara s’arrabbiano.
«Com’è possibile?» dicono. «Che sfortuna!»
Non pensano che se fossero rispettosi, educati e silenziosi, nel cielo domenicale s’alzerebbe il sole. Pare impossibile ma il meteo delle montagne è inversamente proporzionale al comportamento dei turisti. Per questo piove spesso.
Anche d’inverno la montagna, in combutta col cielo, si diverte a deludere gli sciatori dal naso all’insù che attendono la neve. Ma neve il cielo non ne manda, loro rimangono a secco e imprecano. D’estate, per punire i turisti a scopo educativo, toglie il sole e manda ogni pomeriggio scrosci e acquazzoni. Ma i turisti non migliorano. Nemmeno d’autunno diventano più bravi. L’uomo è quello che è, neppure il giudizio universale lo aggiustò. Figuriamoci le piogge domenicali. La montagna, dopo reiterati tentativi di convincimento, rimanda tutto a tempi migliori. Così, ogni tanto, tornano le stagioni regolari, i giorni buoni e il sole splendente. Gli uomini lo sanno. Basta aspettare e otterranno quello che vogliono. Ecco perché non migliorano.
Esistono montagne cresciute in paesi lontani, belli e sfortunati. Sono alte più di otto chilometri perciò vedono lungo, fino alla curva della terra. Ma da molto tempo non guardano più gli orizzonti. Scrutano ai loro piedi, deluse e disgustate. Per conquistarle, uomini di ogni nazione si sono prodigati nel tempo senza risparmio di mezzi e materiali. Che hanno lasciato lì. Tonnellate di cianfrusaglie, corde, bombole d’ossigeno, tende, barattoli, taniche, contenitori di plastica insozzano quelle possenti montagne dai nomi poetici.
Esse guardano giù e vedono l’immane immondezzaio cui le hanno ridotte i conquistatori. Deprime constatare che gli autori di quei vasti depositi maleodoranti è gente che a ogni occasione ribadisce, non senza una certa pompa, di amare la montagna. Gente guidata nelle azioni giornaliere da severo spirito ecologico, così dicono. Personaggi famosi e meno noti, che puntano il dito contro i barbari insozzatori di strade e città. Persino contro un bimbo che lascia sfuggire di mano la carta di caramella e non la raccoglie. Il grande Brodskij, Nobel di letteratura, ammoniva: «Di tutte le parti del nostro corpo, controllate specialmente il dito indice, perché è assetato di biasimo». Le grandi montagne della terra, alte più di otto chilometri, vedono e pensano: “Ma perché, allo stesso modo che le hanno portate qui, non se le riportano a casa le loro immondizie?”. La risposta la conoscono. Sanno che i membri delle spedizioni, uomini di civiltà evoluta, predicano bene e razzolano male. Un conto è dire, altra cosa è fare. Una volta ai piedi dei giganti himalayani, il loro obiettivo è arrivare in vetta. Con ogni metodo e ogni mezzo. E si può capire, considerati i costi. Una volta lassù, sulle cime più alte del pianeta, i loro nomi verranno ricordati a perenne memoria. Passeranno alla Storia. Gli uomini vogliono passare alla Storia. Passassero alla geografia, sarebbe più sicuro. Per tutti. Ma gli uomini vogliono passare alla Storia, non foss’altro che la loro personale. “Io ho scalato un ottomila” vogliono poter dire. Oppure due, tre, quattro, ottomila. E perché no, anche tutti e quattordici. Fin qui niente di male.
Pure il Cercatore avrebbe voluto collezionare almeno uno di quei colossi. E ancora ci spera. Per metter piede sulla vetta di un gigante himalayano non bastano volontà, fisico e determinazione. Ci vogliono un sacco di tempo, di soldi e mille sacchi di materiali. E tutti questi sacchi non ritornano nel luogo di partenza. Ma se il tempo che gli alpinisti hanno sprecato lì è impossibile recuperarlo, i materiali diventati immondizie dovrebbero esser raccolti e portati a casa. Invece rimangono sul posto. Inebriati dal successo della cima, i “conquistatori dell’inutile”, come li definì Lionel Terray, si eccitano, scalpitano, brindano. Hanno fretta di affidarsi ai mass media affinché i loro nomi passino alla Storia. Anche solo per qualche minuto, di conseguenza dimenticano i rifiuti. Oggi invece, è difficile durare. Al massimo si passa alla cronaca, alla visibilità di qualche giorno. Che pur sempre Storia è. Storie brevi di grandi conquiste. Ma oggi non gliene frega niente alla massa se un tizio sale sul naso di un ottomila. Una volta sì. Basti pensare alla vittoria del K2, nel 1954, che fu onore e trionfo dell’Italia intera. Ma pure allora le immondizie rimasero. Ed è paradossale che le lasciano sul posto in ogni caso. Gli uomini non sono mai contenti. Se “vincono la montagna”, come usa dire, abbandonano i rifiuti per euforia di conquista. Se vengono sconfitti, cosa probabile a quelle quote, li lasciano lì, affranti da delusione, avvilimento e smacco. Spesso anche rabbia. Mancare l’occasione della vita, magari quand’era a portata di mano, rende acidi. Perché, tornando al grande Brodskij: «È difficile che la sconfitta allarghi le prospettive». Per questo si diventa rabbiosi e si lasciano immondizie. Dall’insozzamento generale dell’Himalaya è doveroso salvare due persone: Nives Nervi e Romano Benet. Di certo ce ne saranno altre, ma molte poche. Le montagne vedono tutto e, da ciò che vedono, rimangono alquanto deluse.
Il nonno del Cercatore era uno che andava per monti. E ce la metteva tutta per tenerli puliti. Fu lui a trascinare le prime volte i nipoti sulle cime. Nell’andare, li educava passo passo. Ma questo è già detto. Una volta il vecchio e il maggiore si fermarono vicino a un formicaio. L’uomo trovò una scatola di sardine arrugginita, la raccolse e la ficcò nel tascapane. Avevano salito una vetta poco difficile, ma in montagna niente è poco difficile. Appena scesi, il nonno decise di rifocillarsi. Il bambino aspettava il suo boccone. Mentre aspettava, osservava l’alacre via vai delle formiche.
«Cosa fanno?» domandò.
«Puliscono» disse il vecchio. «Tutto quel che non va lo prendono e lo nascondono nel formicaio. E laggiù lo fanno fruttare. Niente buttano via. Sono piccole, fanno fatica e lavorano.»
Il bambino disse: «Portano pezzettini».
Disse il vecchio: «Pezzettini. Sì. Se tutti raccogliessimo i nostri, il mondo sarebbe pulito».
Erano tempi remoti, i lontani anni Sessanta del Novecento, e anche allora si sporcava la natura con rifiuti. Non nelle quantità odierne, naturalmente. Ma solo perché le robe da buttare erano meno. E non era raro imbattersi in bottiglie, scatolame e lattine lasciate da boscaioli e cacciatori. La cultura della fretta esisteva già, il suo imperativo è sempre stato: “adopera e lascia sul posto”. Checché se ne dica. Fatti salvi alcuni ecologisti, patetici salmoni controcorrente di quest’epoca distruttiva, montagne, città e campagne sono immondezzai a cielo aperto. Questa è la realtà. Basta guardarsi attorno e capire: si sta esagerando. Ma la montagna ha pazienza, sa aspettare, spera in momenti più felici. È certa che arriveranno. Attende che crescano uomini migliori, saranno loro a cambiare le cose. La salvezza della montagna, e quindi del pianeta, è inversamente proporzionale alla serietà degli esseri che verranno. Quelli passati, e gli attuali, sono stati autentici Attila e andrebbero ristretti in luoghi appositi, la chiave fatta sparire. Nel frattempo la montagna sospira e guarda giù. Anche se pochi lo credono, è dotata dei cinque sensi, tra i quali appunto la vista. Il sesto è la percezione, dono che rarissimi uomini possiedono. Ma qualcuno esiste e quel dono, per loro, non è una fortuna bensì una fonte d’inquietudine ed eterna paura.