Una politica che non conosce nemmeno la prima nota del grido d’aiuto che si leva dalla montagna povera. Sapessero quei giovani! Meglio non dir loro niente altrimenti non ci provano nemmeno. Eppure qualcuno ci ha provato.
Vi è un posto, in quella valle incisa dalla sgorbia, che invita a sostare. Oggi qualcuno si ferma. All’inizio per curiosità, poi con ammirazione.
Due ragazzi di città, un uomo e una donna, due sconosciuti, hanno sentito il richiamo dei monti trasparenti. Passarono un giorno per caso e capirono che l’aria era limpida, le montagne di vetro. In città stavano bene, o almeno credevano. Entrambi un lavoro eccellente, attività che rendeva soldi. Eppure qualcosa non funzionava. Nella valle dimenticata, notarono uno scheletro di cemento armato. Un grande telaio a tre piani, formato da pilastri e solette in buono stato. All’origine doveva diventare albergo ma non fece in tempo. La zona fu sconvolta da una tragedia che provocò duemila morti e tutto si fermò. Sono passati cinquant’anni da allora. La tragedia la costruirono uomini cinici e freddi che agirono per ambizione e sete di denaro. Massacrarono la montagna e la gente. E, peggio ancora, la fecero franca.
I ragazzi venuti dalla città rilevarono il rudere di cemento. Con il coraggio che solo una ferrea convinzione può dare, misero mano ai lavori indebitandosi fino ai capelli. Da quello scheletro che deturpava la valle cavarono una stalla, allestirono un laboratorio per lavorare il latte, fare formaggio e derivati. E un locale per vendere quel formaggio cagliato sui monti trasparenti. È stato un primo passo sulla via del ritorno, perché in quel posto, cagliata nella testa dei superstiti, rimaneva soltanto la memoria: ricordi di un tempo felice che non sarebbe tornato mai più. Invece i ragazzi resuscitarono a nuova vita quella memoria defunta e oggi sono lì a dimostrarlo. Finiti i lavori, comprarono una trentina di capre, qualche mucca, si rimboccarono le maniche e partirono. Diventarono contadini. Ci vuole coraggio e follia a farsi imprenditori di terra, maneggiare letame e fatica dopo una vita di lusso. Specialmente nelle zone abbandonate, dove tutto diventa irraggiungibile. Non tanto per la ripidezza dei luoghi, ma per la burocrazia sciocca e insormontabile che frena e annienta qualsivoglia iniziativa.
La montagna intuisce che arriverà la fine, un abisso politico l’annienterà. Ma ci sarà il ritorno. Dopo il disastro verranno giovani di giudizio, con mente accorta a rimettere insieme i cocci. A ripartire ogni mattina da quello che resta. Artefice assoluta di questo agognato ritorno sarà una cosa che tutti, a buona ragione, temono: la crisi. Mancanza di lavoro, di soldi e lo spettro della miseria rilanceranno paradossalmente la montagna povera, abbandonata dalle istituzioni. Dove nevica firmato, invece, niente muterà. I ricchi esisteranno sempre. Con i portafogli gonfi, continueranno a villeggiare nei posti a loro cari, inaccessibili alla gente comune.
La crisi cambierà il mondo, soprattutto la montagna. Ma anche le città. Rovisterà nella cassetta della memoria per cercare attrezzi antichi. Alcune iniziative, sempre meno sporadiche, stanno annunciando il ritorno. Sempre di più si vedono figure professionali scomparse da anni, sopravvissute soltanto nelle fiabe tristi. Lo spazzacamino è una di queste. Considerati i prezzi di gas e gasolio, molta gente si scalda al fuoco di legna, che è sano e bello, ma sporca la canna fumaria. S’è rivisto anche il ciabattino. In un paese di quel nord dimenticato, è apparso un tipo col deschetto piazzato vicino a un’osteria. Lavora in diretta. Aggiusta suole, sostituisce tacchi, cuce e lucida a velocità supersonica.
Ma, nonostante il blaterio politico e gli uneschi, il progetto di smantellare la montagna esiste e resiste. La montagna che non rende e crea problemi va seccata. Si vuol costringere il montanaro a mollare tutto e andare via. Ma sta a lui resistere, non piegare la testa, alzare le mani e mollare le armi. Le armi, semmai, le deve impugnare più strette di prima. Sono tenacia, pazienza, fantasia. Soprattutto idee, proposte, iniziative. Deve avere il coraggio di pensare e la capacità di inventare una vita nuova. Un’esistenza possibile alle quote abbandonate. Ma la politica deve starne fuori, lasciar fare al montanaro, liberare l’iniziativa sua. È lui che sa cosa serve.
Quasi tutti i paesi abbarbicati sui monti stanno morendo o sono morti, causa una burocrazia soffocante, vergognosa, inaccettabile. Non si può fare niente se non a prezzo di anni, attese inutili, ricorsi, pile di scartoffie, uffici, rimandi, ritardi e via dicendo. Per fare una tettoia di lamiera, due metri per uno, da proteggere la legna, ci vuole un secolo: progetto, inoltramento dello stesso, commissione edilizia, commissione sismica, valutazione psicologica. Un secolo e un mucchio di soldi buttati. Se uno la fa abusivamente va in galera. Tre quarti di ville in Italia sono abusive e nessuno paga, ma per una tettoia il montanaro passa guai. Allora spera di trovarsene una “a sua insaputa”, ma lassù non capita. A lui non capita.
Con inciampi, difficoltà e limiti di ogni genere, come si fa a convincere i giovani a restare? Come si fa a spiegargli che non saranno gli iPhone nuovi o l’auto di un certo tipo a renderli felici? A renderli felici saranno quei posti magnifici, quei boschi puliti, ancora incontaminati. Saranno i luoghi d’origine, dove sono nati, sotto quel cielo di cobalto, lo stesso che centotré anni fa vide nascere il filosofo Celio. Ma per apprezzare tutto questo ci vuole lo stomaco pieno. È difficile che miseria, mancanza di lavoro, paura di un futuro incerto, rendano contemplativi. Soprattutto è difficile che assenze di sostegni fondamentali invoglino a restare.
L’unica salvezza della montagna è stimolare i giovanissimi, quelli ancora plasmabili. Istruirli, addestrarli, farli innamorare e mandarli avanti. A fornirgli bagaglio tecnico ci penserà la scuola. Ma la politica ignorante, intralciante, obsoleta e ottusa, deve starsene fuori. Lasciar fare a loro. Al massimo entrare da supervisore a cose fatte. Solo uno sguardo alla fine, per vedere se il malato è guarito. Si diano i soldi ai montanari e in capo a cinque anni la montagna povera tornerà a vita nuova. Ci sarà benessere e lavoro per campare dignitosamente. Senza conti in Svizzera, senza stare sulla lista Falciani, senza capatine nei paradisi fiscali. Ma nel rispetto della natura, delle belle montagne e della memoria di chi spese anima e corpo a mantenere intatti quei monti.
Questo sogna la montagna. Percepisce che così avverrà ma prima sarà costretta a cadere in ginocchio. Solo giovani nuovi e capaci la potranno rialzare sollevandola da sotto le braccia. Arriveranno, è solo questione di tempo. Saranno loro, con risultati alla mano, a bloccare il progetto dei disfattisti che si prefiggono smantellare tutto. Loro fermeranno lo scempio, non quelli dell’età del Cercatore. A quelli rimane l’esperienza ma in quanto a impegno e volontà sono già postumi. Non hanno più entusiasmo né spinta, quel po’ di forza che gli resta la vogliono usare per l’ultimo pezzo di strada. Ma, prima di passare all’altro mondo, una mano la potrebbero ancora dare. Per tirare su quella nuova società fatta di giovani onesti e accorti che salveranno la montagna. E, senza forse, il mondo. In che modo gli obsoleti potrebbero dare una mano? Mettendo a disposizione quello che hanno accumulato nel corso della vita: l’esperienza. Ovviamente assieme a tutti gli altri, ultimi esponenti di un’arte perduta e dimenticata: sapersela cavare senza distruggere.
La scuola deve impegnarsi a collaborare con questi uomini che una volta sepolti o cremati, porteranno nella tomba e, tra la cenere, i segreti del loro sapere. Quali sono questi esseri speciali, che di speciale non hanno nulla se non la vasta esperienza a contatto con la natura e il sapiente uso delle mani? Sono boscaioli, contadini, artigiani, pescatori, guide alpine, cacciatori. E altri, che sorgeranno dall’ombra della memoria per riproporre un passato di speranza. Paradossalmente, saranno il sapere antico e un ritorno alla terra a salvare la montagna dalla rovina. E il mondo dalla crisi. Questi maestri in via d’estinzione vanno portati nelle aule di scuola a insegnare ai bambini. Se da un lato è saggio impadronirsi della tecnologia che guiderà il futuro, dall’altro è un passo incauto perdere la manualità, non conoscere i rudimenti del muoversi in montagna.
Qualcuno obietterà: “Invitare i cacciatori? Che c’entrano?”. Proprio loro! I tanto vituperati cacciatori, che impartiscano lezioni ai bambini nelle scuole! Non su come uccidere animali, ma su tutto quel che gira attorno a tale pratica. Nessuno meglio dei cacciatori sa muoversi sulla montagna. Riconoscono tracce, percorsi abbandonati, il tempo, dove stanno fonti d’acqua. Sanno accendere un fuoco senza incendiare il bosco, dormire all’aperto privi di sacco a pelo, orientarsi su terreni nuovi, creare fili d’Arianna per tornare a casa. Conoscono abitudini di animali, migrazioni di uccelli, cambiamenti del bosco, le fasi lunari, le stagioni degli amori di ogni bestia. Sanno come ripararsi in extremis dal maltempo, evitare la vipera, i tratti pericolosi. E mille altre cose ancora. I cacciatori, molto più degli alpinisti, conoscono i segreti della montagna. I secondi scalano pareti verticali ma il più delle volte si fermano lì. Il Cercatore ha avuto compagni di roccia formidabili, ma se gli toglievi la corda erano morti. Si muovevano come ciechi in una selva. I cacciatori possono preparare i giovani in maniera eccellente per un futuro sui monti.
E una volta mandati i cacciatori, si dovrebbero mandare nelle scuole anche le guide alpine. A impartire ai ragazzi i rudimenti per muoversi sul ripido. Bisognerebbe offrire alle guide un programma televisivo per informare, insegnare, consigliare anche gli adulti. Molti di loro, infatti, frequentano i monti risultando più imbranati e incauti dei bambini. Troppi incidenti avvengono per inesperienza e avventatezza. La tv deve dare il buon esempio. È diseducativo nonché pericoloso vedere la nota coppietta che scala maldestramente una parete verticale e in cima divora la famosa cioccolata. Col modo in cui salgono quei due non si arriva in vetta ma si cade in fondo. A sfracellarsi. Un ragazzino vede e può essere tentato d’imitarli lasciandoci la pelle.
Guide alpine, così come artigiani, contadini e cacciatori, dovrebbero essere obbligatori nelle scuole. I contadini potrebbero insegnare ai bimbi il contatto con la terra, creare un orto, piantare un albero, potarlo, fare un innesto. Riconoscere le erbe medicinali. Prati, boschi, pascoli, e montagne intere sono farmacie all’aria aperta. Se agli uomini fossero insegnati i segreti delle erbe, le multinazionali del farmaco chiuderebbero bottega. C’è da dire che esistevano anche guarigioni magiche impartite da credenze e riti. Una volta l’anziana Marina insegnò alla figlia Fiorella che, al rombo dei primi tuoni di marzo, bisogna rotolarsi per terra. In questo modo spariscono tutti i dolori del corpo e delle ossa. Fiorella si rotolava. E ancora lo fa. Ma queste sono soluzioni fantastiche.
Tornando invece alle cose pratiche, portando qualche ora i contadini nelle scuole, si svilupperebbe la curiosità nei ragazzi. Imparerebbero lavori che, se va avanti così, in futuro saranno indispensabili. E, dopo i contadini, gli artigiani. Bisogna mandare nelle scuole coloro che ancora sanno fare qualcosa con le mani. Insegnare ai bambini, e via via ai più grandicelli, ad assemblare un cesto, lavorare l’argilla, i principi della falegnameria, avvitare un rubinetto, cambiare una guarnizione. Insegnare a usare gli attrezzi. Le sgorbie. Fare intagli sul legno, bassorilievi, piccole sculture, gufi, gnomi, maschere. Allora sì che la scuola oltre che utile diventerebbe divertente, interessante.
Il metodo obsoleto della scuola odierna rende i bambini malinconici, annoiati e svogliati. E, peggio di tutto, stanno perdendo l’uso delle mani. Non stimoliamo più i bambini alla manualità con lavori ed esercizi appropriati. Gli arti nobili si stanno anchilosando. L’unica capacità la tengono ancora i pollici, nel massaggio ultraveloce ai tasti degli iPhone. La tecnologia non è un danno ma andrebbe accompagnata da un attento programma che riporti all’uso delle mani. E perché no delle gambe. Ci si muove poco, anzi pochissimo. E lo dimostra la quantità di bambini in sovrappeso. Usiamo mezzi di locomozione anche là dove in pochi minuti potremmo arrivare a piedi. Abbiamo fretta, urge recuperare lentezza.
La montagna percepisce questa assenza di passi, la mancanza della scarpa che batte il terreno. Vede agitati frequentatori domenicali manovrare SUV davanti alle porte dei rifugi. Se non fossero bloccati dai divieti, andrebbero fino in vetta. “Perché non lasciano l’auto qualche chilometro prima e raggiungono il rifugio con le loro gambe?” Questo si chiede la montagna. Ma percepisce altresì che la caduta di valori sta per finire. La caotica baraonda dell’andata, che imperversa da cinquant’anni, è al capolinea. Presto ci sarà la festa del ritorno. La montagna riprenderà a sorridere. Si troverà di nuovo circondata di passione e rispetto. Si sentirà ancora utile agli uomini. Non come fonte di ricchezza e sfruttamento cui è stata costretta fino a oggi. Ma per la missione che ha da compiere: essere fonte di sostegno, medicina benefica, garza che lenisce i colpi della vita. Nonché rampa di un traguardo lontano che spinga gli uomini a faticare, per regalargli qualche ora di emozioni. E la pace della vetta.